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Referendum, Sinistra Classe Rivoluzione: “Una farsa a cui diciamo no”

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Dopo il rinvio dovuto all’epidemia di Covid-19, il 20 e 21 settembre si terrà il referendum per la conferma della legge di revisione costituzionale con cui è stata decisa la riduzione del numero dei parlamentari: da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori. Essendo un referendum confermativo, non è previsto alcun quorum.

Si tratta di una riforma fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle, che ne aveva fatto uno dei pilastri del “contratto di governo” con la Lega, sbandierandola come uno strumento fondamentale per combattere gli sprechi e sconfiggere “la casta”.

Approvata a cavallo dell’avvicendamento tra il primo e il secondo governo Conte, la proposta di legge ha ricevuto dapprima il voto contrario al Senato del Partito Democratico e di Liberi e Uguali, che nel luglio del 2019 erano ancora all’opposizione, prima di cambiare idea una volta sostituito Salvini al governo: nell’ottobre 2019, alla Camera, la legge è stata approvata con il voto favorevole di tutti i principali gruppi parlamentari, sia di maggioranza che di opposizione.

I cittadini sono dunque chiamati a confermare (con il sì) o a respingere (con il no) la modifica della Costituzione. Modifica che (a differenza di quella a suo tempo proposta dal governo Renzi e clamorosamente bocciata dal referendum del 2016) riguarda in buona sostanza soltanto il numero dei parlamentari, senza incidere in alcun modo né sulle funzioni delle due camere, né sulle modalità di elezione.

Vuoi per via di questo bizzarro iter di approvazione, vuoi perché nel frattempo le priorità sono decisamente cambiate, la campagna elettorale si svolge in questi giorni in sordina, e soprattutto con argomenti debolissimi e viziati su un fronte come sull’altro.

Le ragioni del Sì

Di fatto, l’unico argomento ripetuto fino alla nausea dai promotori della legge di revisione, e in particolare dal M5S, è quello della lotta gli sprechi e alla “casta”: il taglio dei parlamentari – si dice – comporterà un bel risparmio ai conti pubblici.

L’argomento muove da una premessa condivisibile: i circa ventimila Euro intascati ogni mese da ciascun parlamentare, in un paese in cui circa venti milioni di persone vivono sotto la soglia o a rischio di povertà, sono un’infamia senza appello. Scandali come quello dei deputati che hanno chiesto il bonus di 600 Euro non fanno che esacerbare la sacrosanta indignazione popolare contro l’attuale ceto politico.

Indubbiamente milioni di lavoratori voteranno Sì con l’intento di dare colpire partiti e parlamentari che giustamente disprezzano e odiano sia per le leggi che approvano, che per i loro privilegi. Purtroppo però meno parlamentari non significherà meno privilegi, bensì più privilegi (legali o meno) per quelli che restano, che avranno ancora più potere e si distaccheranno ancora di più dal “popolo sovrano” che pretendono di rappresentare. Lo dimostra anche la riduzione già effettuata dei consiglieri regionali e comunali, che non ha certo fermato sprechi, corruzione e privilegi.

Inoltre, il semplice taglio del numero dei parlamentari di per sé non risolve affatto né il problema politico, né tanto meno quello meramente economico. Sotto questo aspetto, in particolare, si è calcolato che il risparmio connesso alla riforma ammonterebbe al massimo a circa cento milioni di Euro all’anno – in realtà la somma è anche (notevolmente) inferiore, dal momento che parte dei compensi ritorna nelle casse dello Stato sotto forma di tasse e contributi. Dunque parliamo di una goccia nel mare, sostanzialmente irrilevante rispetto al bilancio statale: per averne un’idea, il debito pubblico italiano ammonta attualmente a oltre 2.500 miliardi di Euro, ossia venticinquemila volte tanto.

Se davvero si volesse affrontare seriamente la questione dei costi della “politica” e stroncare il parassitismo dell’attuale ceto parlamentare, l’unica soluzione efficace dovrebbe essere invece quella di tagliare gli stipendi di tutti i parlamentari, portandoli al livello dei salari di un operaio specializzato: non solo il risparmio sarebbe enormemente superiore, ma verrebbe eliminato uno dei principali elementi materiali alla base del concetto stesso di “casta”. Ma ovviamente questa proposta, che fa parte storicamente delle rivendicazioni del movimento operaio e della nostra organizzazione in modo particolare, non passa nemmeno per l’anticamera del cervello di Di Maio e soci.

Il fronte del No

Il fronte del No è quanto di più politicamente eterogeneo si possa concepire. Tra i partiti che hanno approvato la riforma in Parlamento, soltanto Sinistra Italiana ha avuto il “coraggio” di cambiare apertamente idea, mentre il partito di Renzi, Italia Viva, più prudentemente lascia “libertà di coscienza”. Sono preoccupati di perdere le loro poltrone, così come quei parlamentari di Forza Italia e perfino dello stesso M5S che si sono schierati per il No contro le indicazioni dei rispettivi partiti. All’interno del PD il dissenso rispetto alla linea ufficiale, di sostegno al Sì, è legato anche ai giochi di potere interni al partito, con un fronte che va dal sindaco di Bergamo Giorgio Gori, ex renziano, fino a Gianni Cuperlo, dirigente della corrente di “sinistra”. Giochi in cui si inserisce anche la Cgil, che in una nota ufficiale dà un giudizio negativo della riforma ma non prende posizione per il No pur di evitare scontri con il governo.

Sono diversi poi i comitati per il No sorti negli ultimi mesi. Dal comitato “giovanile” NOstra ai “costituzionalisti per il No” (ma naturalmente ci sono anche altri “costituzionalisti per il Sì”), fino alle immancabili Sardine, questa volta sulla scia di Emma Bonino. L’enfasi di questi gruppi è tutta sul rispetto e la difesa della Costituzione, delle istituzioni e della “democrazia”. Al di là della retorica, anche questi sono argomenti puramente formali e sostanzialmente vuoti. Fuori dalla “bolla” in cui vivono evidentemente questi accademici e questi attivisti da salotto, non c’è nessuno che non veda oggi che le istituzioni repubblicane sono marce fino al midollo, che la carta costituzionale è soltanto un pezzo di carta, che la “democrazia” è un’illusione in un Paese in cui la forbice della disuguaglianza non è mai stata così ampia. Anche questi sono argomenti inconsistenti, destinati a essere ignorati (giustamente) da gran parte dei lavoratori e dei giovani in cerca di una via d’uscita al vicolo cieco della crisi.

Sinistra Classe Rivoluzione: “Perché voteremo No

“Non nutriamo alcuna fiducia nelle istituzioni e nella “democrazia” borghese, né abbiamo particolari timori reverenziali nei confronti della Costituzione. Il sistema parlamentare, dove agli elettori è permesso votare ogni quattro o cinque anni un proprio ”rappresentante”, inamovibile sino all’elezione successiva, è una farsa. Difendiamo la superiorità della democrazia operaia, basato sui consigli (soviet) dove i lavoratori possono eleggere e revocare in qualunque momento i propri rappresentanti.

Finché restiamo nel sistema parlamentare capitalista, sosteniamo il massimo livello possibile di democrazia e rappresentanza. Da nessuna delle forze politiche impegnate sui due fronti arriva una proposta di riforma dove gli elettori, compiuti i 18 anni, siano tutti elettori sia attivi che passivi. Questo si potrebbe ottenere abolendo semplicemente il Senato, nonché la soglia dei 25 anni di età per essere candidati.

Men che meno ci interessano giochi di posizionamento tattico nei confronti del PD o del governo. Tuttavia siamo contrari a questa riforma e il 20-21 settembre voteremo No al referendum.

Il taglio dei parlamentari non farà che ridurre la rappresentanza in generale e rendere ancora più ardua la partecipazione e l’elezione di candidati e forze politiche davvero alternativi e contrari al sistema. In alcune regioni sarebbe impossibile eleggere deputati degli schieramenti che perdono le elezioni. Dall’altro, e conseguentemente, vedremo il rafforzamento della rappresentanza della classe dominante, che potrà ancor più facilmente di adesso imporre la proprie priorità e i propri interessi. Vanno in questa direzione tutti gli argomenti che sottolineano la maggiore “efficienza” di un parlamento con numeri ridotti: efficienza nell’approvare le misure di austerità necessarie per far ricadere sui lavoratori e sui giovani gli effetti della crisi! Si tratta di processi già esistenti e in fase avanzata, come dimostra oltretutto il ricorso sempre più massiccio alla decretazione d’urgenza e al voto di fiducia.

Il punto fondamentale rimane la necessità per i lavoratori di avere un partito che dia voce alle loro istanze: un partito di classe che oggi non esiste e che deve essere costruito, un partito che dovrà poter avere in Parlamento una tribuna, ma che soprattutto dovrà guidare la classe lavoratrice nelle lotte, per sostituire a questa democrazia sempre più marcia un governo dei lavoratori”.

Economia e Finanza

Quale futuro per i diritti dei lavoratori? intervista al professor Alberto Lepore, professore associato di diritto del Lavoro

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Alberto Lepore classe 1972, professore associato in Diritto del Lavoro presso l’Università di Roma 3, membro del Labour Law Group presso l’University College of London. Decine di pubblicazioni in ambito del Diritto al Lavoro ma, principalmente, un grande amico.

Alberto ci diamo del tu, ovviamente: ieri, 1° Maggio, Festa del Lavoro e dei Lavoratori mi è venuta spontanea l’idea di rivolgerti qualche domanda in merito al Diritto al Lavoro proprio per comprendere se, ancora oggi, quelle conquiste sociale figlie dell’800 hanno ancora valore.

La prima domanda prende spunto dall’articolo 1 della nostra Carta Costituzionale: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Quanto valore ha, ancora oggi, questa affermazione nel nostro Paese?
Quanto affermato dall’articolo 1 della nostra Costituzione ha ancora un grande valore e una portata fondamentale perché a seguito della promulgazione della Costituzione del 1948 vengono superati quell’insieme di privilegi, di retaggio aristocratico e feudale che caratterizzavano l’ordinamento monarchico preesistente.
Secondo l’articolo 1 della Costituzione il cittadino si qualifica all’interno della società non più attraverso quello che ha, ma attraverso quello che fa. Il lavoro quindi diventa da un lato ciò che qualifica la persona, nel contempo il lavoro è anche lo strumento attraverso cui la persona trova la sua collocazione all’interno della società.
Il lavoro diventa in forza dell’articolo 1 il collante tra cittadino e corpo sociale; senza l’esecuzione di una prestazione lavorativa il cittadino non può partecipare al corpo sociale, non può avere una collocazione nella società e non può neanche ricoprire una determinata posizione economica; rimane sostanzialmente emarginato; tagliato fuori dalla società. Quindi l’articolo 1 ha ancora un ruolo fondamentale all’interno della nostra Repubblica, tant’è che si è detto appunto che la Repubblica italiana è una Repubblica lavorista. Ma il principio da questo espresso va protetto perché i privilegi possono sempre, in altra forma, rinascere e, pertanto, bisogna stare sempre in guardia.

Lo sai, sono nato il 20 maggio 1971 ad un anno esatto dalla promulgazione dello Statuto dei Lavoratori. Qualcuno dice che sia stata profondamente scardinata dal Job Act di Matteo Renzi.
Cosa di buono mantiene questa intuizione di cui fu padre putativo Gino Giugni?

Il Jobs Act di Matteo Renzi ha colpito al cuore lo Statuto dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970 n.300 n.d.s.), perché ha abrogato una norma di civiltà e cioè l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che prevedeva, a certe condizioni, qualora il licenziamento fosse illegittimo la reintegrazione nel posto di lavoro, in altri termini, il ritorno nello stesso posto di lavoro come se il licenziamento non fosse mai stato intimato.
Con il decreto legislativo n. 23 del 2015 il Jobs Act ha sostanzialmente modificato la tutela prevista in caso di licenziamento illegittimo sostituendola con la tutela indennitaria: la reintegrazione è stata conservata soltanto in casi marginali, mentre nella maggior parte dei casi nelle ipotesi di licenziamento illegittimo al lavoratore verrà pagata un’indennità monetaria commisurata alla durata del rapporto.
La cancellazione della reintegrazione nel posto di lavoro come tutela generale rende la posizione del lavoratore nel rapporto di lavoro molto più debole.
Il Jobs Act di Renzi poi ha colpito un’altra norma molto importante che tutela la professionalità del lavoratore e cioè l’articolo 13 dello Statuto dei lavoratori introduttivo del 2103 del codice civile sulle mansioni: ha previsto che è oggi possibile demansionare in ipotesi molto ampie tra cui anche per ragioni economiche legate alle esigenze dell’impresa. Anche questa norma che colpisce la professionalità e la progressione di carriera lede un’altro dei patrimoni del lavoratore e rende molto più debole la sua posizione; anche la norma sul divieto dei controlli sul posto di lavoro (art.4 dello Statuto dei lavoratori n.d.s.) è stata riformata nel senso di consentire controlli molto più pervasivi sul posto di lavoro.
Lo Statuto conserva ancora norme importanti soprattutto nella dimensione collettiva come gli articoli 19 e seguenti che introducono i diritti sindacali; l’articolo 28 sulla repressione della condotta antisindacale; l’articolo 15 sulla non discriminazione.
C’è quindi ancora molto nello Statuto di buono e di protettivo per il lavoratore ma certamente la cancellazione dell’articolo 18 ha creato un vulnus notevole perché ha sostanzialmente monetizzato il posto di lavoro: il datore di lavoro oggi può anche intimando un licenziamento illegittimo sapere che anche se perde in causa dovrà pagare solo una somma di denaro commisurata alla durata del rapporto di lavoro per togliersi dai piedi un lavoratore non più desiderato.

Spesso non si coniuga il diritto al lavoro con i doveri che scaturiscono dal lavoro stesso. A tuo avviso dove sta il punto di rottura tra queste due situazioni?
Il diritto al lavoro come anche il dovere di lavorare sono enunciati dall’art. 4 della Costituzione. Questi due principi sono tra loro complementari, perché la repubblica deve far sì che sia garantito il diritto al lavoro, d’altro canto il cittadino deve fare tutto il possibile per poter trovare un’occupazione.
L’articolo 4, però, è una norma programmatica cioè detta praticamente un programma, un progetto che deve essere realizzato attraverso leggi ordinarie e infatti abbiamo assistito nel corso degli anni all’introduzione una serie di leggi per realizzare il diritto al lavoro.
Dalla introduzione degli uffici di collocamento fino alla creazione delle agenzie accreditate per attuare concretamente il diritto al lavoro. Ma essendo l’art. 4 una norma programmatica il diritto al lavoro e’un principio tendenziale, anche perché non vi è una sanzione se il lavoro non è garantito a tutti tant’è che siamo in un’epoca nella quale la disoccupazione è molto elevata, nonostante gli sforzi che la Repubblica ha fatto, la piena occupazione non è stata mai raggiunta.
D’altro canto il dovere di lavorare è fondamentale perché si lega all’art. 1: il cittadino partecipa al corpo sociale e acquisisce una posizione sociale ed economica nella società soltanto se lavora. Indirettamente la Costituzione stessa sanziona colui che non vuole lavorare: l’articolo 38 prevede prestazioni previdenziali, quindi provvidenze economiche di sostegno al reddito o quando il lavoratore è inabile al lavoro oppure quando il lavoratore è disoccupato, quindi abbia già lavorato ma ha perso il lavoro oppure sia subentrato un evento che abbia reso impossibile lavorare. Quando invece non vuole lavorare il sistema previdenziale non lo supporta, essendo il reddito di cittadinanza una parentesi anomala nel nostro ordinamento, se non addirittura incostituzionale, e, infatti, è stato rapidamente espunto dall’ordinamento previdenziale.
È evidente però che se non è garantito il diritto al lavoro, il cittadino non potrà’ nonostante i suoi sforzi adempiere al dovere di lavorare.

Un’ultima domanda: quale è il futuro stesso dei diritti dei lavoratori ai giorni nostri?
A fronte della globalizzazione dei mercati e della competizione mondiale il futuro dei diritti dei lavoratori non mi pare roseo. Già negli ultimi anni abbiamo assistito, come accennato, ad una riduzione notevole dei diritti a tutela dei lavoratori e probabilmente nei prossimi anni assisteremo a un’ulteriore riduzione dai diritti. Oggi, oltretutto, il lavoro è minacciato dalla informatizzazione e dalla meccanizzazione dei processi produttivi. Il lavoro digitale è eseguito attraverso strumenti elettronici e sicuramente ridurrà ulteriormente le chance di trovare lavoro. Quindi le sfide future per i diritti dei lavoratori sono grandi e molto difficili, ma quale lavorista sono pronto ad affrontarle.
Ringraziamo il professor Alberto Lepore per la sua disponibilità e per averci fatto comprendere, con le sue parole, l’alto senso istituzionale della giornata di oggi Primo Maggio Festa del Lavoro e dei Lavoratori.

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Costume e Società

A Milano l’arte elegante del pugliese parigino

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Palazzo Reale a Milano  sta celebrando, per la prima volta, con una mostra monografica, il talento di Giuseppe De Nittis esponendo una novantina dipinti, tra oli e pastelli, provenienti dalle principali collezioni pubbliche e private, italiane e straniere, tra cui il Musée d’Orsay e il Petit Palais di Parigi, i Musée des Beaux-Arts di Reims e di Dunquerke, gli Uffizi di Firenze – solo per citarne alcuni – oltre allo straordinario nucleo di opere conservate alla GAM di Milano e una selezione dalla Pinacoteca di Barletta, intitolata al Pittore, che ne conserva un eccezionale numero a seguito del lascito testamentario della vedova Leontine De Nittis.
 
La consacrazione di Giuseppe de Nittis come uno dei grandi protagonisti della pittura dell’Ottocento europeo è avvenuta grazie alla fortuna espositiva di cui ha goduto a partire dalla magnifica retrospettiva dedicatagli nel 1914 dalla 11a Biennale di Venezia. Altre tappe fondamentali sono state la mostra ‘Giuseppe De Nittis. La modernité élégante’ allestita a Parigi al Petit Palais nel 2010-11, e nel 2013 la fondamentale monografica a lui dedicata a Padova a Palazzo Zabarella.
 
In ‘De Nittis. Pittore della vita moderna’ si intende esaltare la statura internazionale di un pittore che è stato, insieme a Boldini, il più grande degli italiani a Parigi, dove è riuscito a reggere il confronto con Manet, Degas e gli impressionisti, con cui ha saputo condividere, pur nella diversità del linguaggio pittorico, l’aspirazione a rivoluzionare l’idea stessa della pittura, scardinando una volta per sempre la gerarchia dei generi per raggiungere quell’autonomia dell’arte che è stata la massima aspirazione della modernità.
 
I francesi e De Nittis, che si è sempre sentito profondamente parigino di adozione, hanno affrontato gli stessi temi, come il paesaggio, il ritratto e la rappresentazione della vita moderna che De Nittis ha saputo catturare lungo le strade delle due metropoli da lui frequentate, in quegli anni grandi capitali europee dell’arte: Parigi e Londra. Ha saputo rappresentare con le due metropoli, in una straordinaria pittura en plein air, i luoghi privilegiati della mitologia della modernità, che saranno collocati al centro di un percorso espositivo articolato lungo un arco temporale di vent’anni, dal 1864 al 1884, ricostruendo un’avventura pittorica assolutamente straordinaria, conclusasi prematuramente con la sua scomparsa a soli 38 anni di età. I risultati da lui raggiunti si devono a un’innata genialità, alla capacità di sapersi confrontare con i maggiori artisti del suo tempo, alla sua curiosità intellettuale, alla sua disponibilità verso altri linguaggi. È inoltre tra gli artisti dell’epoca che meglio si è saputo misurare con la pittura giapponese allora diventata di moda.La mostra vede infine la collaborazione di METS Percorsi d’Arte, che ha contribuito al progetto espositivo con l’apporto di un importante nucleo di opere provenienti da collezioni private, tra le quali il Kimono color arancio, Piccadilly e la celeberrima Westminster.
 
Tutto questo è sottolineato dalla mostra e dal ricco catalogo Silvana Editoriale.
 
Una vita breve ma sufficiente per entrare nella storia dell’arte
 
Giuseppe De Nittis nacque a Barletta il 25 febbraio 1846. A pochi mesi dalla sua nascita, il padre si suicidò dopo due anni di carcere per motivi politici e Giuseppe crebbe con i tre fratelli nella casa dei nonni paterni. Fin dall’infanzia manifestò una forte propensione alla pittura e, nonostante il parere contrario della famiglia, si iscrssee nel 1861 all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Insofferente agli schemi accademici, fu espulso due anni dopo ed iniziò a dipingere en plen air con altri artisti, come Federico Rossano e Marco De Gregorio. Nel 1866 partì per Firenze dove prese contatto con il gruppo dei Macchiaoli. Dopo aver visitato Palermo, Roma, Venezia e Torino, nel 1867 si trasferì a Parigi dove due anni dopo sposò Léontine Lucile Gruvelle. Nel 1869 partecipò per la prima volta al Salon con opere molto vicine al gusto parigino. Il soggiorno napoletano del 1870 vide il suo stile arrivare alla maturità e all’indipendenza artistica e il ritorno a Parigi nel 1872 segnò il suo successo con la partecipazione al Salon dell’opera ‘Una strada da Brindisi a Barletta’. Il dipinto ‘Che freddo!’ esposto al Salon nel 1874 rappresentò l’affermazione definitiva dell’artista, che si meritò anche l’appellativo ‘peintre des Parisiennes’ (pittore della parigine). Nello stesso anno partecipò con ben cinque tele alla prima esposizione di quello che sarà il gruppo impressionista tenutosi nello studio del fotografo Nadar. In cerca di nuovi stimoli partì poco dopo per Londra, dove realizzò una serie di opere dedicate alla vita quotidiana della città. Partecipò all’Esposizione Universale di Parigi nel 1878 con dodici lavori che polarizzarono l’attenzione sia del pubblico che della critica. Negli ultimi anni si concentrò particolarmente sulla tecnica del disegno a pastello. Colpito da una forte bronchite nel 1883, rimase per mesi bloccato a letto e dipingere diventò sempre più difficile; morì a  Saint-Germain-en-Laye (Francia)   il 21 agosto del 1884 a causa di un ictus cerebrale. È sepolto a Parigi, nel cimitero di Père-Lachaise (divisione 11) ed il suo epitaffio fu scritto da Alessandro Dumas figlio. Sua moglie Léontine donò molti suoi quadri alla città natale del pittore, ora conservati nella Pinacoteca De Nittis collocata nel Palazzo della Marra a Barletta.
 
Informazioni:
 
Una mostra Comune di Milano – Cultura | Palazzo Reale | CMS.Cultura
 
A cura di Fernando Mazzocca e Paola Zatti , fino al  30.06.2024
 
Orario: Da martedì a domenica ore 10:00-19:30, giovedì chiusura alle 22:30. Ultimo ingresso un’ora prima. Lunedì chiuso.
 
Biglietti
 
Aperto: € 17,00; Intero: € 15,00;Ridotto: € 13,00; Esclusi i costi di prevendita.
 
Info e prenotazioni: palazzorealemilano.it     mostradenittis.it
 
Privo di virus.www.avast.com



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Cronaca

Prevenzione e contrasto dei crimini informatici: siglato accordo tra Polizia di Stato e BCC Banca Iccrea

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È stato siglato a Roma l’accordo tra la Polizia di Stato e BCC Banca Iccrea, capogruppo del Gruppo BCC Iccrea, per la prevenzione e il contrasto dei crimini informatici che hanno per oggetto le reti e i sistemi informativi di supporto alle funzioni istituzionali della società.
La convenzione, firmata dal Capo della Polizia – Direttore Generale della Pubblica Sicurezza Prefetto Vittorio Pisani e da Mauro Pastore, Direttore Generale di BCC Banca Iccrea, è finalizzata a sviluppare una collaborazione strutturata tra le parti, per l’adozione ed il potenziamento di strategie sempre più efficaci in materia di prevenzione e contrasto al cybercrime, considerato il delicato e strategico settore di intervento del Gruppo.
Il Gruppo BCC Iccrea è il maggiore gruppo bancario cooperativo, l’unico gruppo bancario nazionale a capitale interamente italiano e il quarto gruppo bancario in Italia per attivi. BCC Iccrea, in qualità di Capogruppo esercita le attività di direzione, coordinamento e controllo sulle Società del Perimetro di Direzione e Coordinamento e, in tale ambito, supporta l’operatività bancaria delle BCC, fornendo prodotti, servizi e consulenza al fine di soddisfare le esigenze dei loro Soci, clienti, famiglie e territorio di riferimento.
La tutela delle infrastrutture critiche informatizzate di istituzioni e aziende che erogano servizi essenziali è una delle mission specifiche della Polizia Postale, l’articolazione specialistica della Polizia di Stato deputata alla prevenzione e contrasto della criminalità. La Polizia di Stato assicura attraverso la Polizia Postale e delle Comunicazioni, Organo del Ministero dell’Interno deputato alla sicurezza delle comunicazioni. In particolare, tale compito viene assolto attraverso il Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche (CNAIPIC) che, con una sala operativa disponibile h24, rappresenta il punto di contatto per la gestione degli eventi critici delle infrastrutture di rilievo nazionale operanti in settori sensibili e di importanza strategica per il Paese.
Alla firma della convenzione erano presenti per il Dipartimento della Pubblica Sicurezza, il Direttore Centrale per la Polizia Stradale, Ferroviaria, delle Comunicazioni e per i Reparti Speciali della Polizia di Stato, Prefetto Renato Cortese, il Direttore del Servizio Polizia Postale e delle Comunicazioni, Dott. Ivano Gabrielli mentre per BCC Banca Iccrea erano presenti Renato Alessandroni,
Responsabile Sicurezza e Continuità Operativa, Chief Information Security Officer, Pasquale De Rinaldis, Responsabile Sicurezza delle Informazioni, Giuseppe Cardillo, Head of Architecture & Innovation e Raffaella Nani, Responsabile Comunicazione Istituzionale.



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