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Armored Core VI: Fires of Rubicon, From Software colpisce ancora

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Armored Core 6: Fires of Rubicon è l’ultimo capitolo della saga targata From Software che vede il combattimento fra mecha giapponesi al centro dell’esperienza. A 10 anni dall’ultimo capitolo e dopo il successo di Elden Ring, la software house nipponica ha portato su Pc e sulle console della famiglia PlayStation e Xbox un episodio del tutto nuovo che si presenta come uno fra i migliori titoli del suo genere. Ma veniamo al dunque: una volta avviato il gioco si viene subito lanciati nella storia. Sul pianeta Rubicon 3, l’umanità ha scoperto una fonte di energia, chiamata Coral, in grado di incrementare in maniera esponenziale il progresso tecnologico. Come da sempre nelle migliori produzioni mediatiche sci-fi, quando si parla della capacità di gestirsi del genere umano, la nostra razza non è mai molto capace e finisce sempre male. Infatti, in Armored Core VI l’abuso di questa sostanza ha causato un disastro naturale, il quale ha avvolto l’intero pianeta fra le fiamme, segnando la temporanea fine di Rubicon 3. Cinquecento anni dopo, però, il Coral riaffiora sulla superficie di un Rubicon 3 oramai abbandonato e in stato di perenne quarantena. Differenti fronti del genere umano, di fronte a questa scoperta, pensano che sia una buona idea ritornare sul pianeta per combattersi e quindi per avere il controllo della preziosa sostanza, dimostrando chiaramente che la storia non insegna nulla e che la razza umana brama il potere prima di tutto. In questo contesto socio-politico, il quale vede rivoluzionari, terroristi e mega-corporazioni contendersi il controllo del Coral su Rubicon 3, i giocatori vestiranno i panni di 621, un pilota al soldo della compagnia di mercenari gestita da Handler Walter, il quale prenderà incarichi da ognuno dei fronti coinvolti nella guerra per il Coral, rimanendo in una posizione neutrale rispetto al conflitto. Il passato di 621, però, nasconde dei segreti che potrebbero stravolgere tutto. L’incipit narrativo, così come la gestione della progressione della trama di Amored Core VI, sono perfettamente in linea con il passato della saga. Il gioco, infatti, si sviluppa attraverso una serie di capitoli suddivisi a loro volta in molteplici missioni di durata variabile. La storia, per lo più, viene narrata al termine delle varie missioni e durante i briefing preliminari di queste ultime. Le cutscene ci sono, e sono anche ben realizzate, ma tutto viene raccontato attraverso le comunicazioni radio che faranno da colonna sonora all’avventura di 621. Insomma, l’iter di gioco è sempre lo stesso: si avvia una missione, si ascolta il briefing preliminare, si eseguono i vari compiti nell’area di Rubicon in cui si verrà inviati, si ritorna alla base, si contano i soldi incassati e li si spende per migliorare il proprio mecha. Il tutto ascoltando le varie comunicazioni radio, le quali permettono di comprendere di più in merito alla lore del gioco e di capire quanto sia salita la reputazione di 621 come mercenario. Tutto molto classico; tutto molto in linea con il desiderio di FromSoftware di creare un capitolo che riprendesse lo spirito della serie. Se ci si aspetta un titolo open-world, con dinamiche da Souls-Like e una trama intricata, Amored Core VI non fa al caso vostro. Su Rubicon 3 si spara tanto, si legge poco e si modificano i mecha in ogni minimo dettaglio, sia estetico che tecnico. Prima di esplorare il gameplay di questo ultimo titolo targato From Software è bene sottolineare un aspetto legato alla longevità: la prima run di Amored Core VI potrebbe sembrare eccessivamente breve e, per certi versi, inconcludente. Almeno fino a quando non si comprende che per poter sbloccare tutto quello che il titolo ha realmente da offrire in termini narrativi e di contenuti è necessario concludere tre volte il gioco. Non vogliamo fare spoiler di alcuna natura a riguardo, ma sappiate che se volete godere pienamente del titolo, portarlo a termine una volta sola non basterà, ma anzi, così facendo si rischia di perdere molto. Proprio come accadeva in Nier Automata.

Parlando invece di gameplay, Armored Core VI, come già annunciato qualche riga più in alto, ruota attorno a due fattori chiave: l’azione e la personalizzazione dell’AC. Chi è già familiare con la serie sa che non si tratta esclusivamente di ritocchi estetici bensì della messa a punto di vere e proprie build che mai come in questo sesto capitolo sono fondamentali per superare le boss fight. Qui però si presenta il primo neo della produzione. A dispetto della quantità di elementi, da comprare due volte nel caso delle armi per braccia e spalle, ci si rende presto conto che pochi di essi sono realmente efficaci contro i boss di fine missione. Certo, è possibile sbizzarrirsi nel corso della storia con build stravaganti, azzardate e a volte curiosamente efficaci, salvo poi finire in mille pezzi nella battaglia conclusiva con la sua a tratti assurda curva di difficoltà. In particolare c’è un boss che richiede l’uso di una specifica configurazione dell’AC se si vuole uscirne vivi: qualunque altra significa quasi sempre morte certa. Il punto però è che un più che discreto numero di componenti cozza quando si tratta di affrontare la vera minaccia della missione; a volte ci si incastra anche nel corso della stessa ma in genere è dovuto al fatto di non sapere a cosa si vada incontro e non essere equipaggiati a dovere. Ben diverso dalla necessità di assemblare una build specifica per uscirne vincitori. Le difficoltà nelle bossfight di Armored Core VI spaziano dai tempi di cooldown assenti o estremamente ridotti, che non si arriva a eguagliare neppure con l’equipaggiamento migliore, a un consumo dell’energia altrettanto ridotto all’osso. Su quest’ultimo punto pesa di più l’utilizzo dei componenti indicati ma la differenza tra noi e loro è in ogni caso sensibile. Questo fortunatamente non vale per tutti i boss, anzi possiamo dire che succede nello specifico con uno, forse due di essi volendo estendere un po’ la questione, ma nonostante ciò il problema è che accade con quelli obbligatori a livello di trama: se Malenia poteva essere “perdonata” poiché facoltativa, sebbene poi si andasse incontro alla pessima (e obbligatoria) Elden Beast, Armored Core VI offre una serie di boss opzionali risibili laddove invece pochi principali rappresentano un assurdo picco nella difficoltà, sballandone completamente la curva. La difficoltà può concedersi di essere un po’ artificiale, se serve a dare un maggior senso di sfida, ci sono però confini che non dovrebbe superare perché altrimenti si va a vanificare gli sforzi del giocatore: si perde non perché non si è capaci abbastanza ma perché l’IA è inadeguatamente potenziata. Obbligando così a seguire un percorso a senso unico, una build che magari va persino contro lo stile di gioco del giocatore e che rappresenta tuttavia la sua unica speranza di successo. Una logica questa che a volte vanifica la quantità di elementi a disposizione per mettere a punto il proprio AC. A dar fastidio a chi gioca ci pensano poi altri due elementi, ossia: la telecamera, che persino con la sensibilità al massimo livello non riesce a stare dietro alla velocità e frequenza di spostamento di certi nemici, e la gestione dell’hard lock-on, che non sempre resta fissa sul bersaglio costringendo a riattivarla. From Software non è certo nuova soprattutto a una gestione della telecamera discutibile e, seppur vero che in questo caso il Fire Control System (FCS) è un accessorio più che indispensabile per mantenere l’obiettivo sempre sotto tiro a seconda della distanza, la telecamera riesce ancora a creare non poche difficoltà in partita. Non scordiamo inoltre che Armored Core in generale non è un gioco dove si può vincere anche senza aggancio: la mira manuale è un’opzione che si tiene in considerazione solo se si è veterani assoluti della serie e soprattutto se si utilizzano mouse e tastiera. Sperare di ottenere risultati decenti con un controller non è assolutamente consigliabile.

A parte i fattori sopra elencati, comunque, Armored Core VI ha tante belle cose da offrie: ad esempio il movimento omnidirezionale, che aiuta a inscenare battaglie frenetiche in cui la mobilità a terra e in volo risulta fluida e reattiva. Ovviamente se si opta per un Mecha che somiglia a un cingolato pesante è ovvio che esso non volerà veloce e leggiadro come una farfalla. Ne risultano scontri in cui la consapevolezza dei dintorni e la gestione degli stessi sono fondamentali per non subire troppi danni, tenendo conto del fatto che si hanno a disposizione solo tre kit di riparazione a missione (la cui efficacia può essere migliorata). Non si tratta di un aspetto tattico sempre presente, poiché la difficoltà delle missioni non è proibitiva e il giusto equipaggiamento può permettere di decimare le fila nemiche senza preoccuparsi troppo degli spostamenti, ci sono però casi in cui occorre prenderlo in considerazione. In generale, la maggiore mobilità è un aspetto graditissimo che dona agli scontri la giusta immersività limando le vecchie goffaggini. La caratteristica tuttavia migliore del gioco a nostro avviso è la presenza dell’SCA. L’indicatore in questione si riempie in base alla frequenza dei colpi inferti o ricevuti, a seconda che si parli del nemico o di noi, e una volta raggiunto il punto di rottura manda l’AC in stallo per breve tempo; sufficiente, tuttavia, a ribaltare la situazione. Come in Sekiro, l’indicatore si svuota se non si subiscono danni per diverso tempo ma la principale differenza è che “stordire” un nemico non è l’obiettivo: se il Lupo trovava forza, nonché la conclusione dello scontro, nello spezzare la guardia al nemico per mettere a segno il colpo di grazia, in Armored Core VI riempire l’indicatore SCA è una tattica fondamentale per portarsi in vantaggio, non per porre fine immediata a un combattimento. Essendo le armi a disposizione soggette a tempi di caricamento variabili, o a temporanee condizioni di surriscaldamento, è importante pianificare con estrema cura la rottura dell’SCA altrimenti il rischio è di trovarsi davanti a un nemico scoperto e non avere nessun’arma carica per riuscire a infliggere danni seri. Si configura dunque una maggiore necessità strategica, laddove in Sekiro era invece fondamentale mantenere una costante aggressività. In Armored Core VI occorre trovare il giusto bilanciamento tra le parti, poiché lo stordimento è sempre di breve durata, variabile a seconda del nemico, e persino un paio di secondi persi nel caricare le armi fanno la differenza. La questione non è dunque caricare a testa bassa scaricando tutta la potenza di fuoco a disposizione sul memico prima che apra il fuoco su di noi, ma prima di tutto scegliere se puntare sulla rottura dell’SCA e quindi armarsi di conseguenza; in secondo luogo essere sempre consapevoli dello stato del proprio equipaggiamento, così da non sprecare un’occasione che potrebbe non ripetersi. L’SCA infatti non è un indicatore semplice da riempire: ci sono armi più indicate così come nemici che lo ripristinano velocemente rispetto ad altri. Ognuno è a sé, motivo per cui bisogna capire se e in che modo occorre approfittarne, avendo in ogni caso un occhio di riguardo per il proprio: l’IA infatti non perde occasione per approfittarne, infliggendo un discreto quantitativo di danni qualora dovesse stordire il protagonista. Proprio grazie a tale sistema Armored Core è un titolo molto interessante e che spinge a dare sempre il meglio. Passando alle armi da fuoco, è necessario dire che non tutte si rivelano efficaci allo stesso contro i nemici. Ad esempio affrontare mezzi pesanti armati di magnum e mitragliette equivale a morte certa. Il fatto di poter equipaggiare quattro armi, due sulle spalle e due in mano, permette però di equipaggiarsi in modo da poter affrontare un po’ tutte le minacce. Questo è tendenzialmente il tipo di strategia che si adotta la prima volta in cui si affronta una missione, rifinendola poi una volta consapevoli di cosa bisogna affrontare. In generale, a prescindere da come si preferisce mettere a punto il proprio AC, è buona norma avere almeno un’arma per tipo e la ragione non può essere più semplice. From Software ha, per fortuna, deciso di non infierire fino in fondo inserendo la possibilità di ripartire da un punto di salvataggio nel caso si venga sconfitti, specialmente nelle boss fight, ma soprattutto di riassemblare il proprio AC: si tratta di un’opzione disponibile solo in caso di sconfitta e, se non si sta cercando di ambire al grado S, è da cogliere al volo per non dover ricominciare la missione da capo. Tuttavia, ed è logico, si può accedere unicamente all’assemblaggio dell’AC, non al negozio: ciò significa che se si è proprietari di un equipaggiamento migliore, esso può essere montato e si può riprovare lo scontro. Se invece i pezzi da sostituire non sono stati acquistati, è necessario abbandonare la missione, comprare ciò che serve e ricominciarla da capo. Sebbene a volte possa essere frustrante, non avendo alcuna idea di cosa ci sia in attesa a fine livello, giocare d’anticipo spendendo qualche soldo in più è sempre la scelta migliore. Fare in modo di accedere al negozio dopo una sconfitta sarebbe stato fin troppo semplice anche per uno studio diverso da From Software, la cui inclinazione a favorire i giocatori non è di casa. Nel complesso, tenendo in considerazione le critiche in merito alla telecamera e alla curva di difficoltà eccessiva nel corso della trama, una volta presa la mano il sistema di combattimento restituisce una piacevole sensazione di frenesia e di potenza.

Armored Core VI, oltre alla campagna offre anche una modalità multigiocatore PVP. In essa differentemente dalla modalità single player, l’enorme personalizzazione del proprio mecha assume tutto un altro spessore. Ogni giocatore delle due rispettive squadre, difatti, scende in campo con il suo mecha e questo da vita alla creazione delle più disparate build che asservano sia agli obiettivi individuali, che a quelli di squadra. Al momento, inoltre, tutto sembra molto ben bilanciato ma bisogna aspettare di vedere come si svilupperà il PVP non appena la maggior parte dei giocatori avrà accesso alla componentistica end-game. Attualmente, però, il multigiocatore competitivo di Armored Core VI risulta molto cavalleresco con un focus molto elevato sugli scontri 1V1 e con le azioni di squadra confinate ai momenti in cui è necessario sinergizzare le offensive per ottenere dei risultati efficaci. Dal punto di vista estetico Amored Core VI è davvero impressionante, non c’è che dire. Il colpo d’occhio offerto è sempre ottimo, le cinematiche sono ben confezionate e il motore di gioco risulta sfruttato a dovere. Abbiamo provato il titolo su Xbox Series X, in modalità performance, e non ho abbiamo ad alcun calo di frame rate. Artisticamente poi il titolo From Software è squisito e mostra chiaramente perché la software house nipponica, abbia aspettato di avere a disposizione i mezzi tecnici necessari per realizzare quello che aveva in mente da quasi dieci anni. Le ambientazioni reincarnano quella sensazione di solitudine, mista a malinconia, che da sempre accompagnano la serie. Spostarsi in aree desolate, che apparentemente sembrano semplici conformazioni metalliche in rovina, e notare solo successivamente che si tratta di palazzi abbandonati, oramai sommersi dalla sabbia o corrosi dal clima di Rubicon 3, è una sensazione tanto difficile da spiegare a parole, quanto capace di ammaliare quando si notano la moltitudine di piccoli dettagli disseminati qua e la dagli sviluppatori. Le dimensioni imponenti degli AC, e di tutte le altre tipologie di veicoli, vengono restituite da un notevole lavoro di level design, il quale sfrutta elementi della nostra vita quotidiana, come un banale traliccio della corrente, per far realizzare silenziosamente quanto gargantuesche siano le dimensioni del nostro mecha e di alcune delle minacce che andremo ad affrontare. Amored Core VI, infine, come da tradizione per le produzioni di FromSoftware distribuite da Bandai Namco, presenta la localizzazione in Italiano solamente per quanto concerne i testi, lasciando all’utente la possibilità di scegliere fra il doppiaggio originale in Giapponese o quello in Inglese. Tirando le somme, quest’ultimo esponente della saga ha tutte le carte in regola per diventare uno fra i titoli più apprezzati del momento. La grande versatilità dei mecha e la buona longevità fanno di questo titolo una vera chicca per gli amanti del genere, ma anche un ottimo punto di partenza per chi non ha mai messo piede a bordo di un AC.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 9

Sonoro: 9

Gameplay: 8,5

Longevità: 9

VOTO FINALE: 9

Francesco Pellegrino Lise

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MW3, Call of Duty non è mai stato così grande

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MW3 è il nuovo capitolo dello shooter per eccellenza, Call of Duty, disponibile per Pc, PlayStation e Xbox. Questo episodio è il reboot del terzo episodio della saga Modern Warfare, iniziato nel 2019 (qui la nostra recensione) e proseguito l’anno scorso con MW2 (qui la nostra recensione). Prima di esplorare tutto quello che il videogame di Activision ha da offrire, ci sembra più che giusto sottolineare che questo reboot di MW3 è senza dubbio l’episodio più simile al suo predecessore del franchise. Ciò significa anche che a livello grafico non è cambiato molto rispetto al gioco dell’anno scorso: in apparenza, il motore grafico del gioco non ha ricevuto alcun aggiornamento significativo, con solo lievi aggiustamenti ai controlli, al bilanciamento generale delle armi e così via. Ciò significa anche che molte funzionalità di Modern Warfare 2 sono tornate. Framerate fino a 120 fps, gioco incrociato tra tutte le piattaforme, supporto per tastiera e mouse, cursore FOV, tantissime opzioni di accessibilità, schermo diviso, configurazione audio personalizzabile e possibilità di utilizzo delle skin, delle armi e dei pacchetti estetici acquistati in MW2, compreso quello che dà la possibilità di inserire le musiche di MW2 del 2009 scritte da Hans Zimmer (Cosa a nostro parere veramente esaltante). Questo MW3 edizione 2023 offre tre principali aree di gioco: la campagna single Player, il Multigiocatore PVP e la modalità zombi. Parlando della campagna, essa riprende la storia di Modern Warfare 2 dell’anno scorso e bisogna ancora una volta impersonare gli agenti della Task Force 141, con lo scopo di fermare una catastrofe globale. I fan della vecchia scuola saranno felici di sapere che il cattivo questa volta non è altro che Makarov, l’inafferrabile quanto diabolico terrorista russo dell’edizione del 2009, che finalmente trova la sua strada in questa trilogia reinventata. Questo nuovo MW3 ha un taglio ancora più hollywoodiano dei suoi predecessori è un susseguirsi di azione senza sosta, sia essa in modalità stealth che ad armi spianate. Mentre la trilogia originale di Modern Warfare e, in misura molto minore, i due capitoli precedenti di questa serie reboot volevano approfondire alcuni aspetti della guerra come la tortura, il colonialismo, l’invasione, questo nuovo gioco si accontenta di offrire praticamente solo spettacolo e divertimento allo stato puro. Quindi è bene prepararsi ad affrontare una campagna coinvolgente, lunga il giusto (se la si gioca a difficoltà massima come noi abbiamo fatto), e che lascia anche porte aperte per il futuro. La campagna questa volta, a differenza del solito, non è un’esperienza lineare, infatti quasi la metà della storia è giocata attraverso le nuovissime missioni di “combattimento aperto”. In queste missioni il giocatore viene paracadutato in un’area di gioco aperta ma con dei confini, dove può esplorare liberamente le aree e gli edifici circostanti, saccheggiare a piacimento, uccidere gruppi di nemici e completare sotto-obiettivi per avere un quadro più completo della trama. Il completamento delle 15 missioni garantisce diversi sblocchi anche per il multiplayer come: biglietti da visita, XP bonus, nuovi operatori e altro ancora. Nelle missioni aperte possono essere anche trovati specifici nascondigli di armi segrete che garantiscono anche armi sbloccabili per la modalità multiplayer: un incentivo piuttosto ingegnoso per i fan dell’esperienza competitiva a cimentarsi in questa campagna, per quanto banale possa essere. In definitiva, possiamo definire la campagna di questo MW3 un’esperienza differente dal normale, ma comunque appagante.

Parlando della modalità multigiocatore online, MW3 offre davvero moltissimo. E’ bene sottolineare che il PvP è anche il contenuto sul quale gli appassionati trascorreranno la stragrande maggioranza del tempo, alternandolo alla futura versione di Warzone in uscita a dicembre, quindi ci aspettavamo grandi cose da questo. E che dire, siamo rimasti piacevolmente colpiti. Nonostante le 16 mappe presenti siano le stesse di MW2 del 2009, questo per gli appassionati di vecchia data è davvero un vero e proprio sogno che diventa realtà. Alcuni si sono lamentati che questo “porting” mettesse in evidenza una certa pigrizia nello sviluppare nuovi contenuti, ma vi possiamo dire che quelle arene di gioco ancora oggi funzionano davvero bene e sono senza dubbio molto più appaganti di tante nuove mappe inserite negli anni passati. Insomma, al netto della discutibilità dell’operazione, è sufficiente guardarsi intorno per rendersi conto di quanto entusiasmo ci sia da parte dei giocatori al solo pensiero di ritornare a giocare su Terminal, Rust, Highrise, Scrapyard e in tutti gli altri luoghi che hanno fatto la storia della serie. Dal punto di vista strutturale, le 16 mappe sono fedelissime alle originali e le modifiche apportate dagli sviluppatori sono davvero impercettibili. Lo studio ha prevalentemente lavorato alla veste grafica e artistica, che in questo caso si concede qualche piccola libertà al fine di colmare lo scarso quantitativo di dettagli che c’era nelle ambientazioni del 2009. Proprio a causa della conformità alle mappe originali, avviare un match di MW3 è come fare un tuffo nel passato e ci si sente sin dal primo istante a casa. Se poi si prende in considerazione il fatto che col supporto post-lancio arriveranno anche scenari come Shipment, Shoot House e le altre mappe iconiche della serie, è chiaro che questa modalità sia destinata a diventare sempre più interessante. Se giocare in queste arene è un gran piacere, non possiamo dire lo stesso dei grossi scenari di guerra pensati per le due modalità su vasta scala, ossia Guerra Terrestre e Invasione che rappresentano il vero tallone d’Achille della produzione Activision. Per quanto non ci siano dispiaciute le porzioni dell’Urzikstan che sono state utilizzate come mappe per questa componente del multiplayer, continuiamo a trovare poco adatto il gameplay di Call of Duty a modalità le cui regole si addicono molto di più ad un gameplay in stile Battlefield. Tra veicoli, serie di uccisioni e cecchini, questi match tendono a essere piuttosto caotici e poco appaganti. Discorso diverso vale per la modalità Guerra, grande ritorno dal passato della serie. Questa modalità a obiettivi che prevede che un team svolga il ruolo di attaccante mentre l’altro quello di difensore, è strutturata in tre fasi: prima si procede con la contesa di un paio di punti di controllo, poi si scorta un carro e infine, una volta scesi in un bunker, ci si scontra per conquistare una stazione di lancio missilistica. Pur essendo divertente da giocare, questa modalità offre al momento una sola arena e dopo un paio di partite inizia a risultare assai ripetitiva. Ad utilizzare invece le mappe classiche è Tagliagole, basata sul vecchio Scontro, visto per la prima volta nel capitolo del 2019. Dal momento che non vi sono poi grosse modifiche rispetto alla modalità originale, chi apprezza questo tipo di match competitivi si divertirà anche in duelli 3vs3vs3 senza respawn. L’unico elemento che ci ha fatto storcere il naso riguarda la presenza dei loadout personalizzati, visto che in Scontro le classi venivano generate casualmente, così da garantire un certo equilibrio. Insomma, le mappe di Call of Duty MW3 saranno anche le stesse del 2009, ma sul piano ludico è stato svolto un lavoro notevole da parte di Sledgehammer Games, che garantisce un’esperienza di gioco quanto più vicina possibile a quella dei primissimi Modern Warfare e che sistema alcuni passi falsi compiuti da Infinity Ward con il precedente capitolo.

Per quanto riguarda la giocabilità, gli sviluppatori hanno rimosso il tanto criticato sblocco progressivo dei perk nel corso dei match, hanno introdotto un Time To Kill più elevato che fornisce qualche istante in più per reagire al nemico e hanno infine modificato in maniera importante il movimento. Tutte le possibilità, incluso lo slide cancel, sono tornate e funzionano perfettamente. A migliorare il gameplay non è solo la reintroduzione di queste meccaniche, ma anche una serie di modifiche meno esplicite che però hanno reso ogni singolo aspetto più fluido: mirare, sparare, scivolare, arrampicarsi e muoversi sono tutte azioni che risultano più gradevoli rispetto al passato. A beneficiare di tutte queste migliorie è anche il ritmo di gioco, che in Modern Warfare 3 è più sostenuto e sembra quasi che le azioni a schermo accadano più velocemente. A sposarsi perfettamente con il rinnovato gameplay del titolo Sledgehammer è la Posizione Tattica, una meccanica inedita che permette al giocatore di alternare con la pressione di un tasto la modalità di mira. Attivando la posizione tattica, l’operatore inclina l’arma in maniera simile a quanto accadeva con alcuni mirini laser nelle campagne dei vecchi capitoli: in questo modo, è possibile far fuoco con una certa precisione quando il bersaglio è a corta/media distanza e consente al tempo stesso di muovere la telecamera con un’agilità assai superiore rispetto alla tradizionale modalità mirino. A nostro giudizio quindi l’esperienza multiplayer di questo Call of Duty MW3 è la migliore tra quelle viste negli ultimi anni, senza ombra di dubbio. Se proprio dovessimo cercare una pecca, a nostro avviso andrebbe introdotto un migliore sistema di composizione dei match in base all’abilità dei player. Molto spesso infatti ci si trova in stanze con giocatori estremamente bravi o estremamente scarsi e questo sbilancia alcuni match. Inoltre segnaliamo su Xbox (piattaforma su cui abbiamo testato il gioco) l’impossibilità di disattivare il cross-platform con il pc e con i giocatori dotati di mouse e tastiera che letteralmente rovinano le partite. Purtroppo anche impostando dalle impostazioni console il blocco del cross-platform, il gioco obbliga i giocatori a riattivarlo o a non poter giocare online. Una vera pecca per chi vuole godersi qualche partita senza frustrazione. A non averci convinto totalmente è il sistema di progressione e di sblocco. Nei vecchi giochi della serie, tutto si basava sull’accumulo di esperienza: coi gradi si sbloccavano armi, perk ed equipaggiamento, e con i livelli arma i vari accessori. In questo caso, però, solo alcuni degli oggetti citati sopra fanno parte delle ricompense che si ottengono livellando, mentre buona parte dell’arsenale si ottiene attraverso il completamento di missioni settimanali o delle cosiddette Sfide dell’Armeria. Nel primo caso si tratta dei classici obiettivi proposti settimanalmente che garantiscono l’accesso a versioni alternative delle bocche da fuoco. Le Sfide dell’Armeria sono invece più intricate, poiché ruotano tutte intorno al completamento degli incarichi giornalieri. In poche parole, stiamo parlando di una schermata in cui il giocatore può liberamente selezionare il pezzo d’equipaggiamento da sbloccare: dopo aver portato a compimento il numero di sfide quotidiane richieste, questo verrà permanentemente aggiunto alla collezione. Fortunatamente però, grazie alla modalità Zombi, livellare le armi e bloccare i componenti è più semplice che in PvP, quindi il procedimento resta comunque lungo ma meno frustrante

Per quanto riguarda la terza tipologia di gioco offerta da MW3, ossia quella zombi, essa di chiama MWZ ed è un misto fra Dmz e la classica modalità dedicata ai non morti. Per chi non lo sapesse, Zombies è un’esperienza per giocatore singolo e cooperativa immensamente popolare, originariamente immaginata da Treyarch e diventata un punto fermo del franchise per molti capitoli, specialmente nella serie Black Ops di Call of Duty. Giochi. Queste mappe, nel corso degli anni, sono state un mix geniale e avvincente di design di livelli ingegnosi ed espansivi, cacce contorte alle uova di Pasqua e alcuni dei poteri più soddisfacenti mai visti in qualsiasi videogioco tramite potenziamenti e armi aggiornabili, il tutto circondato da ciò che inizialmente potrebbe apparire come uno sparatutto infinito di orde di zombi standard. Gli Zombies di quest’anno però difficilmente possono essere affrontati come in passato. La struttura stessa del gioco infatti è totalmente differente rispetto a quanto visto in precedenza. Nel bene o nel male MWZ è DMZ con i morti viventi. A conti fatti, vi è una vera e propria fusione fra il gameplay in loop tipico della modalità PvPvE e quello di Zombies, visto che ritroviamo tutti quelli che sono gli elementi cardine di entrambe le esperienze ad eccezione della componente competitiva, qui del tutto assente. In giro per l’Urzikstan, la futura mappa di Warzone, bisogna farsi largo tra infetti, cani demoniaci e boss provenienti dalle passate iterazioni della modalità al fine di completare contratti e accumulare tutte quelle risorse utili a potenziare le bocche da fuoco e l’operatore stesso. Come accennato poco fa, i capisaldi di Zombies ci sono tutti e ancora una volta sarà possibile acquisire abilità uniche ingurgitando bevande speciali e conferire poteri alle armi grazie al Pack-A-Punch. Ad affiancare tutte queste meccaniche c’è il medesimo gameplay di DMZ, il cui sistema di looting è invariato: l’unica piccola differenza risiede nell’interfaccia, poiché gli sviluppatori hanno deciso di modificare lo sfondo di armi e oggetti e renderlo colorato, così che la comprensione della rarità del bottino sia immediata. Dopotutto i non morti spuntano di continuo e restare fermi di fronte ad un forziere per decine di secondi sarebbe assai rischioso. Ovviamente anche il meta è quello già visto e, attraverso menu che sono pressoché identici a quelli di DMZ, si possono gestire le risorse ottenute in precedenza e avviare così una nuova partita con un piccolo vantaggio, che si tratti di armi potenziate o di bevande che forniscono power-up. Sebbene il riciclo sia sotto gli occhi di tutti, dobbiamo sottolineare che questa inaspettata fusione funziona piuttosto bene. Per com’è impostata questa Zombies open world di MW3, i giocatori possono sia scendere in pista e darsi al massacro di non morti senza stare troppo a pensare agli obiettivi, sia dedicarsi alle missioni della storia (identiche ai contratti di DMZ, sebbene se ne possa attivare solo una alla volta) o al completamento dei vari easter egg. Esiste anche una sorta di progressione interna della partita, visto che più ci si addentra nel cuore dell’Urzikstan e maggiore è la resistenza dei nemici, i quali diventano estremamente pericolosi nell’area più interna, colorata di rosso sulla mappa. È chiaro, i puristi della modalità Zombies a round potrebbero storcere il naso di fronte ad una simile impostazione, ma è indubbio che fra tutte le sperimentazioni avvenute negli ultimi anni sulla modalità creata da Treyarch, questa sia la più riuscita. Per chi si stesse chiedendo: “Ma esiste una storia in questo MWZ? La risposta è si. Compiendo determinate missioni infatti si proseguirà lungo una trama suddivisa in tre atti che fa luce su come mai è esplosa l’epidemia e che porterà i giocatori a fare di tutto per fermare la piaga. Tirando le somme, oltre a quanto detto fino ad ora, MW3 offre il solito bellissimo doppiaggio in lingua italiana, musiche memorabili, un gameplay solido e rodato, ma anche una fruibilità senza pari. Insomma, Call of Duty da sempre fa parlare di se, c’è chi lo ama, chi lo odia, chi lo critica e chi lo idolatra, ma c’è sicuramente da dire una cosa: MW3 è un altro splendido capitolo del franchise che è destinato a far parlare di se e a rimanere nella storia.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 8,5

Sonoro: 9,5

Gameplay: 9

Longevità: 9,5

VOTO FINALE: 9

Francesco Pellegrino Lise

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Alexa festeggia i 5 anni in Italia con 28 miliardi di interazioni

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Alexa festeggia cinque anni dal suo arrivo in Italia con 28 miliardi di interazioni dal 2018 ad oggi, di cui 11 miliardi solo negli ultimi 12 mesi. L’assistente vocale di Amazon, che fornisce news, musica, intrattenimento, Smart home e funzionalità personalizzate, come riferisce il gruppo in occasione della ricorrenza, è stato utilizzato quotidianamente in tutti i modi che il dispositivo consente e il suo successo è la riprova di quanto sia apprezzato dagli utenti. Solo quest’anno, infatti, sono state oltre 45 milioni, è stato sottolineato, le interazioni generate da parte degli utenti per tenersi aggiornati sulle ultime notizie e oltre 192 milioni quelle per conoscere il meteo. Nello specifico, il 23% delle interazioni sono state generate con i supporti Echo Show dotati di schermo e con Fire TV, per un totale di 300 milioni in Italia per vedere film, serie TV e video. Le funzionalità che riguardano la “casa intelligente”, come la possibilità di gestire e controllare telecamere, luci o termostato, è stato spiegato durante il “compleanno” di Alexa “sono particolarmente amate dagli utenti in Italia, che solo negli ultimi 12 mesi hanno generato ben 2.5 miliardi di interazioni di questo tipo. Sono poi circa 15 milioni le ricette che gli utenti hanno chiesto ad Alexa quest’anno: dalle preparazioni locali, simbolo dell’italianità nel mondo, come gli spaghetti alla carbonara e il risotto allo zafferano, ai piatti tipici di culture lontane, tra cui il riso alla cantonese o le tortillas di farina. Tra le più richieste dagli utenti quest’anno anche la pasta alla sorrentina, il pollo alle mandorle e l’intramontabile tiramisù”. Le ore di musica in streaming riprodotte tramite Alexa nell’arco di questi 5 anni ammontano a oltre 1.3 miliardi. Un altro modo in cui Alexa viene in aiuto nella vita di tutti i giorni è impostare timer, gestire sveglie e promemoria: quest’anno gli utenti ne hanno impostati oltre 1.4 miliardi. Infine, ammontano a 24 milioni le interazioni relative alle chiamate nell’ultimo anno e per 8 milioni di volte è stato detti dagli utenti “Alexa, ti voglio bene”. Insomma, l’assistente vocale di Amazon è a tutti gli effetti un componente delle famiglie italiane che aiuta a vivere meglio e aiuta le persone. Tanti auguri Alexa.

F.P.L.

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Ufo Robot Goldrake: Il Banchetto dei Lupi è esattamente ciò che un bambino cresciuto a cavallo tra la fine degli anni ‘70 e la prima metà degli anni ’80 ha sempre desiderato. Il titolo, disponibile su Pc, Nintendo Switch e su tutte le piattaforme della famiglia PlayStation e Xbox, è il videogame sviluppato da Microids che rappresenta una fantastica “operazione nostalgia” legata a uno dei più grandi successi creati dal maestro Go Nagai. Ufo Robot Goldrake: Il Banchetto dei Lupi è, di base, un mix tra uno sparatutto a scorrimento verticale, un’avventura in terza persona (si può comandare Actarus con una telecamera dall’alto) e un open world alla guida del possente Goldrake, che si pone come obbiettivo quello di combattere i robot nemici come fosse un vero e proprio action. Il titolo ripercorre le tappe più importanti dell’anime: Vega ha distrutto il pianeta Fleed, e il principe Actarus ha trovato rifugio sulla Terra. Accolto dal Dottor Procton, il nostro eroe inizia una seconda vita nel Ranch Betulla Bianca. Con l’invasione della Terra da parte di Vega ormai alle porte, Actarus si deve però preparare a imbracciare nuovamente le armi per difendere il pianeta con l’aiuto di Goldrake, un gigantesco robot custodito nelle profondità dell’osservatorio di Procton. Con l’aiuto di Koji Kabuto, il principe del pianeta Fleed dovrà quindi fronteggiare la nuova minaccia, respingendo gli attacchi di Vega e dei letali robot inviati per sconfiggere Actarus una volta per tutte. Lo stile grafico ed estetico, la colonna sonora e – incredibile ma vero – anche il doppiaggio in italiano che ricalca in tutto e per tutto le voci originali del cartone animato, sono tutto ciò che un fan storico di Goldrake potrebbe chiedere da un videogioco ispirato al leggendario gigante d’acciaio. L’intera messa in scena ricrea perfettamente l’atmosfera dell’anime che ha segnato i pomeriggi di moltissimi quarantenni di oggi e tutto sembra ricreare alla perfezione i combattimenti visti in televisione. Purtroppo, Ufo Robot Goldrake: Il Banchetto dei lupi inciampa sul piano ludico, o meglio lo fa per chi si aspetta una produzione tripla A.

Il gameplay risulta nel complesso piuttosto scarno è infatti la ragione per cui, nonostante siamo rimasti tanto colpiti da doppiaggio e direzione artistica, il voto in calce non va oltre il 7. Non è una questione legata all’impatto grafico, ve lo anticipiamo. Il motore, per quanto non modernissimo, fa il suo dovere per rendere vivi i fondali su cui Goldrake si muove e combatte. Le texture sono pulite, coloratissime e sature come nel cartone animato. Per ricordare ulteriormente i flash degli anime di quel periodo, l’effettistica è sfavillante e sempre molto luminosa, e i particellari non mancano di riempire la scena. Su Xbox Series X, piattaforma su cui abbiamo effettuato il nostro test, la fluidità si mantiene stabile e i modelli si caricano quasi sempre senza fenomeni di pop-up a breve distanza. Ogni tanto si è presentata una compenetrazione di troppo tra personaggi e fondali e qualche bug, che però sarebbero, a detta di Microids, già in fase di fix tramite prossimi aggiornamenti. Gli sviluppatori ce l’hanno messa tutta per diversificare l’offerta ludica, dividendo i capitoli della trama in tre porzioni separate, ciascuna appartenente a un genere diverso. Ci sono le fasi shooter in tre dimensioni, nelle quali controllare il robot mentre vola lungo i binari di un percorso prefissato, disseminato da nemici a cui sparare e ostacoli da evitare. In alternativa, se siamo a bordo del TFO (Test Flying Object) del giovane pilota Alcor (Koji Kabuto in Giappone) lo sparatutto passa alla visuale a volo d’uccello, come gli shoot’em up di una volta. Infine c’è la parte principale, nonché più riuscita, di Goldrake, ossia la sua natura da action 3D in terza persona, con la telecamera posta alle spalle di Atlas Ufo Robot. Ciascuna di queste nature del gioco è ambientata in arene dai confini ben delineati, eppure abbastanza estese per riempirle con collezionabili nascosti e piccoli eventi secondari. Ci sarebbe piaciuto spostarci sulla mappa volando, ma il famigerato UFO di supporto in cui il mech si fonde non è utilizzabile a piacimento nelle sezioni action. Il level design, comunque, è basilare e sembra di avere a che fare con un prodotto di qualche anno fa. Pur con la diversificazione in tre generi distinti, purtroppo, il gameplay di Il banchetto dei lupi è molto elementare, anche nelle sezioni che abbiamo definito più interessanti, quelle Action in 3D, che regalano qualche soddisfazione sempre e solo in ottica nostalgica. Goldrake può dare pugni esibendosi in una sola combo, usare le lame spaziali a distanza, compiere una sorta di presa e sfruttare mosse finali iconiche come l’Alabarda Spaziale. Infine può schivare i colpi, e se ci riesce col giusto tempismo, si attiva un classico “bullet time”. Sentire Actarus urlare i nomi delle mosse prima di accanirsi però, specialmente per chi ha vissuto gli anni dell’anime, è comunque sempre molto appagante, però siamo certi che le nuove generazioni non apprezzeranno la ripetitività dei combattimenti e delle mosse. Come dicevamo, questo titolo è una vera e propria lettera d’amore ai fan di vecchia data e non di più.


Le animazioni di Goldrake sono numerose, diversificate e ben caratterizzate. Anche il feedback dei colpi messi a segno è decisamente convincente. Benché il gioco proponga sempre un grado di sfida semplicissimo, capita comunque di trovarsi ogni tanto con la barra della salute prossima all’esaurimento senza rendersene conto, dato che l’impatto dei colpi avversari è poco avvertibile. Il discorso non varia più di tanto nemmeno per le Boss Fight, che si combattono in arene apposite. Gli antagonisti sono ovviamente gli iconici Mostri robotici di Vega, gli unici che nel cartone riescono a mettere Actarus con le spalle al muro. Tentacolati e con teste di drago sputafuoco, a forma di disco volante o di tartaruga, comunque sono tutti ben rappresentati, ma non temibili in game. Il combattimento si risolve il più delle volte schivando al momento giusto ed effettuando una serie di colpi fin troppo ripetitivi. L’IA dei boss poi non spicca per nulla, ma anzi lasciano il tempo di ricaricare l’energia e di evadere nelle situazioni più critiche con eccessiva semplicità. Stesso discorso va fatto per quello che concerne i momenti shooter. Essi soffrono la ripetitività persino più delle fasi action. Tali sequenze infatti avrebbero potuto essere un po’ più mozzafiato, se il gioco non avesse distribuito medikit in quantità industriale, azzerando ancora una volta ogni sensazione di sfida. Persino i giovanissimi o i meno esperti potrebbero sentirsi troppo facilitati nel proseguire nei vari livelli. È chiaro, arrivati a questo punto, che Ufo Robot scelga volutamente di abbandonare qualunque ricchezza ludica per rivolgersi a uno specifico pubblico di riferimento. Crediamo sia importante però non utilizzare il “fanservice” come giustificazione per rilasciare un titolo con un potenziale immenso ma che è davvero troppo semplice da ogni punto di vista. E in questo caso, Ufo Robot Goldrake: Il Banchetto dei lupi avrebbe potuto garantire un livello di sfida davvero molto più profondo. Tirando le somme quindi possiamo dire che il titolo, nonostante la grandissima cura per i dettagli e il fattore nostalgia, nonostante le musiche e il doppiaggio si avvicinino molto a quello dell’anime, non riesce a essere un prodotto che può essere apprezzato da tutti. Peccato, in quanto si vede che dietro la produzione c’è l’amore di chi ha vissuto quegli anni.

GIUDIZIO GLOBALE:

Grafica: 7

Sonoro: 9

Gameplay: 6

Longevità: 6

VOTO FINALE: 7

Francesco Pellegrino Lise

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