Le note disciplinari a scuola: perché?

Secondo il parere di alcuni docenti, da quando si utilizza il registro elettronico si è più propensi a cliccare sulla voce note per richiamare il comportamento non corretto di alcuni alunni.

Questa modalità è molto più diffusa nelle scuole secondarie di II grado piuttosto che negli altri gradi scolastici. Il perché di questo spartiacque rispetto agli altri gradi d’istruzione dipende dall’età degli alunni.

Nell’immaginario collettivo l’adolescente attua comportamenti più atipici rispetto ad altre età, nonché “degni” di una nota disciplinare in cui viene esplicato l’errore del comportamento dell’alunno da parte del docente.

Perché l’adolescente?

L’adolescente è maggiormente coinvolto nella fragilità del suo cambiamento e pertanto più volubile nel mettere in atto atteggiamenti non coerenti. È un’età di passaggio tra la pubertà e l’adolescenza costellata dai primi amori, le prime relazioni e i primi atteggiamenti di rivalsa sociale.

Un’età in cui il ragazzo/a si pensa in un’ottica di indipendenza da tutto e da tutti, in cui l’ego si esprime in modo alto, pensando di essere leader e di poter assumere comportamenti di ogni tipo. A volte la scaltrezza di un adolescente è peggiore di quella che può assumere un adulto.
In tutto ciò, la genitorialità e, a volte nemmeno la scuola, riesce a scalfire atteggiamenti non congrui alla convivenza sociale da parte di alcuni adolescenti.

È una fase di vita in cui ci si sente “grandi”, in cui ci si oppone alla correttezza e alla presa di coscienza di sé e dell’altro. Un passaggio difficile per la maggioranza dei ragazzi/e: alcuni adolescenti non riescono a darsi una collocazione nel mondo circostante, cadendo spesso in situazioni poco sicure (es. alcool, droga, fumo etc …).

Di concerto tali atteggiamenti vengono riflessi nel contesto domestico e scolastico.
In quest’ultimo caso, il docente è costretto a segnalare, mediante una nota disciplinare, il comportamento incoerente dell’alunno/a.

È in tal senso che il giovane mette in atto comportamenti spesso oppositivi e ribadisce la sua “innocenza”. Qui nascono i dissapori tra alunni e docenti e si spezza una sorta d’incantesimo che segna il percorso dello studente. Nascono raffronti con il docente che ha segnalato una nota disciplinare sia da parte dell’alunno che dei genitori. Quest’ultimi “pretendono” spiegazioni dall’insegnante e spesso sono contrari alla nota assegnata al figlio/a. In casi più sporadici, invece, è lo stesso genitore che chiede aiuto agli insegnanti poiché non riesce a tollerare il comportamento del figlio/a.

In questo contesto, i docenti e i genitori ricoprono un ruolo essenziale per la crescita e l’evoluzione del ragazzo/a. Queste due figure educative devono premunirsi di pazienza, stabilendo le regole da seguire e cercando di accompagnare il giovane verso la strada migliore per lui/lei.




Essere vegani: una realtà contestabile?

L’art. 11 e l’art. 21 della Costituzione Italiana recitano la libertà di pensiero e di parola nel rispetto dell’altro. Questi due articoli di legge affermano che ogni cittadino italiano ha diritto di unirsi liberamente per manifestare il proprio pensiero mediante i mezzi che ritiene più idonei (es. la parola, lo scritto o la stampa).

Pertanto, dinanzi alla legge, nel caso dei “vegani”, essi possono esprimere le loro credenze e le modalità con cui le mettono in atto; possono quindi decidere di non mangiare prodotti animali e i loro derivati come carne, pesce, latticini, uova e prodotti di alveare (es. miele). Di fronte a tali decisioni nessuno deve permettersi di contestare un diritto ufficialmente legale. Il vegano è colui che, per scelta etica o di salute, ha deciso di eliminare dalla sua alimentazione quotidiana determinati alimenti. Tuttavia, ogni decisione, in tal senso, va rispettata poiché non danneggia nessuno.

Secondo Vincent, poeta e scrittore, “il vegano è colui che mangia tutto senza mangiare nessuno”. Nella sua semplicità, questa frase ha molto senso e rispetta la “diversità alimentare”.
Ma chi non è vegano si chiede, da cosa deriva il termine vegano? Com’è nato?
A coniare la parola “vegano” è stato Donald Watson, inglese venuto a mancare nel 2005 all’età di 95 anni. A lui si deve la fondazione della “Vegetarian Society”, nata a Londra. Già vegetariano, Watson decise di modificare e rendere più “severe” le sue abitudini alimentari, rendendole ancora più dogmatiche. È stato lui a coniare il termine “vegan”, nato dalla parola “vegetarian” di cui rimangono solo poche lettere e che metaforicamente indicano l’inizio e la fine del vegetarianesimo. Fu una scelta molto drastica in cui molti membri della “Vegetarian Society” si sono astenuti.

Date le discrepanze con il gruppo, Watson decise di dissociarsi e condurre una vita e una società che rispecchiasse le sue nuove idee e le sue scelte di alimentazione alternativa. Il termine “alternativo” racchiude in sé la non obbligatorietà della scelta, pertanto il soggetto anti-vegano può concedersi di non approvare questo tipo di alimentazione, ma senza ritorsioni verso l’altro.

I sostenitori di questa scelta sono fieri, ma fortemente disillusi da chi insorge contro di loro. Di base, come per la religione, la scelta o meno di essere vegani è indipendente dal pensiero altrui. L’invito, in tal senso, è non fare “rumore” di fronte a chi fa delle scelte che reputa essenziali per sé stesso. Non serve denigrare, non è corretto offendere, non è costituzionalmente equo accanirsi verso scelte avverse dalle proprie. Lo afferma la legge italiana, lo dichiarano i sostenitori, ma soprattutto lo determina un diritto. Sarebbe opportuno evitare guerriglie che non portano a nulla.

Tuttavia, chi decide con la propria testa è fondamentalmente consapevole delle proprie scelte e nessuno può confutarle. Chi è onnivoro può diventare vegano e viceversa, ma nessuno può permettersi di protestare contro una decisione se non limitarsi a chiedere un parere, una spiegazione o un consiglio. Questa affermazione vale per chi mangia carne e non. Non si deve essere ostili verso chi la pensa in modo differente: non è umanamente accettabile.
Ognuno di noi è degno di prendere le sue decisioni alimentari purché tutto avvenga nel rispetto delle convinzioni etiche altrui.




Il maternage: una pratica educativa di crescita individuale

La relazione madre-figlio rappresenta il primo legame affettivo di un neonato.

Come afferma Bowlby, è in questa fase che la madre mette in atto una serie di comportamenti come, coccolare il proprio bambino, contenerlo e nutrirlo affinché si possa instaurare un attaccamento sicuro o insicuro.

Nell’ambito psicologico il maternage è un complesso di atteggiamenti ed azioni implicati nel rapporto madre-figlio. Tali comportamenti possono creare relazioni di dipendenza o di indipendenza. Da questi atteggiamenti il bambino costruisce il proprio io nonché la propria personalità.

Nell’ambito psicoterapico il maternage è considerato una tecnica per curare le psicosi avvenute nella prima infanzia. In questo caso il rapporto di cura si crea tra terapeuta e paziente. Il maternage, come cura del paziente da parte del terapeuta, è stato individuato da Racamier, Sechehaye e anche da Winnicott nel secolo scorso.

Il maternage nell’accezione complessa del termine è considerato un approccio, una filosofia di vita basata sulla condivisione emotiva tra due soggetti sia nell’ambito familiare, educativo che terapeutico.

Il termine maternage sottintende il prendersi cura dell’altro con delicatezza, con gentilezza e con rispetto. La tecnica del maternage è un cammino sia per il bambino che per l’adulto, è come dire “sono qui con te”, è una sorta di “formula magica”.
Il soggetto che si prende cura dell’altro funge da contenitore emotivo.
Lo studio del maternage analizza differenti pratiche diffuse nel mondo, in funzione dei modelli di riferimento definiti in base al livello di contatto: il maternage ad alto contatto, caratterizza le società tradizionali, mentre il maternage a basso contatto è tipico dei paesi industrializzati.

Tale affermazione pone in evidenza le differenziazioni culturali. Ad esempio, pensiamo ai bambini africani rispetto a quelli svedesi: i primi, per usanze e tradizioni hanno maggior contatto con la propria madre, mentre i secondi, data la frenesia quotidiana, hanno un minor coinvolgimento nelle cure materne.
È proprio in base alle attenzioni che si danno ad un soggetto che si riceveranno altrettante risposte differenti.

Il maternage è una tecnica di cura e di empatia, deve essere svolta nel modo più attento e sensibile possibile. In questo atteggiamento sono implicate le emozioni di entrambi i soggetti.
Tuttavia, un comportamento adeguato crea momenti di simbiosi unici, in particolare nel rapporto madre e figlio nei primissimi anni di vita. È un rapporto di esclusività che deve dar vita a sicurezza, serenità, fiducia e bidirezionalità relazionale: una sorta di gioco di sguardi che coinvolge i due soggetti in un rapporto sano, equilibrato e disposto a proseguire nel tempo.




L’amore ai giorni nostri…

Oggi l’amore ha subito numerose variazioni. Rispetto al passato i sentimenti d’amore sono diventati più labili e superficiali.

Questo mutamento è dovuto anche ai nuovi sistemi tecnologici: dichiararsi con un messaggio whatsapp, lasciarsi con una telefonata e via dicendo…

L’amore oggi è come giocare a scacchi, l’essere umano vuole premeditare ogni mossa avversaria con lo scopo di risultare il più forte. Oggi è difficile riconoscere i propri sentimenti, mentre è diventato più facile fingere l’indifferenza.

L’aspetto che fa la differenza è legato anche all’incapacità emotivo-relazionale e affettivo-empatica. Non si piange più sulle spalle degli amici quando si soffre per amore, ma ci si chiude in sé stessi. Quando i nostri sentimenti sono feriti e quando le nostre aspettative vengono meno, cadiamo in pianti, urla e disperazione.

Un tempo questo scenario era maggiormente accettato dalla società, ma oggi purtroppo non lo è più: viviamo in un mondo fatto di solitudine, sensi di colpa e inquietudine.
Oggi l’amore è “liquido”, afferma Bauman, cioè è immaturo; è un amore scisso tra il desiderio di emozionarsi e la paura di legarsi. L’amore viene narrato come qualcosa di passeggero, futile, da non prendere troppo sul serio.

Il romanticismo non esiste più, al suo posto c’è la volgarità. Il corpo delle donne è uno strumento da usare e gettare via. La sessualità e il desiderio temporaneo del corpo dell’altro hanno la maggiore rispetto ai concetti legati all’amore e al sentimento duraturo e profondo.
I termini come matrimonio e procreazione sono fortemente messi alla prova: i giovani si sposano meno e temporeggiano sull’avere figli.

Questo fenomeno, in Italia, sta vedendo un calo della natalità e un progressivo aumento della popolazione anziana. L’amore rompe i propri schemi e riproduce il degrado della nostra società.

La nostra generazione pensa che la non curanza ed il disinteresse siano i concetti chiave di una relazione. Non è così; lo sforzo, l’interesse, la fedeltà, lo sono.
Oggi, cambiare le prospettive sul concetto di amore risulta molto difficile se non irraggiungibile. Sarebbe opportuno dare maggiore attenzione alle relazioni anche se questo a volte significa sacrificare il proprio orgoglio, bisognerebbe osservare le persone attorno a noi e non lasciarle andare facilmente.

Prima di arrenderci di fronte ad una difficoltà, dovremo assicurarci di aver lottato fino in fondo. Ognuno di noi dovrebbe custodire l’amore e farne qualcosa di prezioso. Bisognerebbe riconoscere il proprio modo di amare e fortificarlo ogni giorno di più.
Il pianto, il dolore e la vulnerabilità fanno parte dell’amore e in parte contribuiscono a renderlo magico.

Resistere alle tentazioni, al giorno d’oggi, è molto difficile, ma dovremo scindere il desiderio sessuale dal sentimento vero.

La società vulnerabile e superficiale dei nostri giorni non lascia il tempo di riflettere e meditare, è tutto più veloce e rapido. La cura e la parsimonia di avere una relazione stabile e continuativa, ricca di valori è un ideale che si sta sempre più allontanando.
Sarebbe adeguato essere più stabili sentimentalmente per garantirci una società meno legata alla “materia” e più aperta ai valori e ai sogni.




Ricerca scientifica, come diventare esperti

La ricerca scientifica o sperimentale rappresenta un ottimo metodo per conoscere elementi riguardo un argomento che si vuole approfondire.

Gli argomenti di analisi scientifica possono essere di varia natura: linguistica, storica, letterale, matematica, biologica, chimica, digitale etc …

La ricerca può riguardare diversi ambiti, da quello umanistico, scientifico, economico ed informatico.

L’attività di analisi sperimentale consente al ricercatore di conoscere e di approfondire, mediante strumenti idonei, concetti ancora non troppo chiari o poco studiati di un determinato ambito di una specifica disciplina.

La ricerca si considera attiva poiché non ha una fine, ma può durare mesi, anni o decenni.
La fase preliminare della ricerca è circoscrivere l’ambito e la disciplina di analisi; successivamente lo studioso si pone una o più domande, che rappresentano “le problematicità” da conoscere, scoprire, indagare e valutare di un determinato argomento.
Individuata la domanda/e su cui far ricerca è opportuno costruire “un impianto” teorico della tematica scelta con relative citazioni di altri autori.

Da questa fase in poi, lo studioso definirà il tipo di indagine e di strumenti che utilizzerà:
1.la ricerca quantitativa attraverso i questionari;
2.la ricerca qualitativa mediante i focus group e/o l’intervista e/o la progettazione;
3.la ricerca mista cioè sia quantitativa che qualitativa.

La ricerca quantitativa dà vita a dei risultati numerici o a delle percentuali che possono essere trasformate in grafici (es. istogrammi, aerogrammi); la ricerca qualitativa ci consente di ottenere dati descrittivi; infine la ricerca mista permette di ottenere esiti sia di tipo quantitativo che qualitativo.

Dopo aver definito questi punti fondamentali, si individua il campione su cui verrà svolta l’indagine. Il campione, nella ricerca scientifica, non è altro che un sottoinsieme estratto da un’intera popolazione, dal quale trarre, indicazioni sulle caratteristiche dell’intera popolazione stessa.

Dopo questi passaggi lo studioso decide cosa e come somministrare gli strumenti al campione/i definiti in precedenza. Al termine, il ricercatore ottiene dei dati/risultati che analizzerà e trasformerà in numeri e/o descrizioni.

La ricerca non si conclude con i dati raccolti e descritti, ma continua spostandosi anche su altri fronti rispetto l’argomento scelto.

Indagare scientificamente non è un’operazione fine a sé stessa, ma è continua. Ad esempio sull’argomento scelto, si può decidere di far ricerca anche su altri elementi e campioni.
Questa caratteristica evidenzia la peculiarità dell’indagare, dell’analizzare e del ricercare nuovi aspetti di una data tematica.

I risultati che vengono raccolti in ogni ricerca potrebbero servire ad altri studiosi o semplicemente ad “esplorare” quella parte di indagine ancora vuota e priva di dati.
Ricercare è come fare un “viaggio”, possiamo trovare degli ostacoli oppure no, si esplorano e si scoprono cose nuove positive o negative, si conosce e nello stesso tempo si apprende.




Cooperative learning: coinvolgere i ragazzi e formarli per il futuro

Insegnare è una missione e in quanto tale il docente non deve assumere atteggiamenti da gerarca nei confronti degli allievi. L’insegnante deve supportare l’allievo e la classe nella sua unicità.

Una lezione, che sia alle scuole elementari o alle scuole superiori di I e II grado, deve appassionare il singolo alunno, ma anche l’intera classe.

Molteplici esperienze didattiche confermano che più si crea empatia con i ragazzi tanto migliori sono i rapporti tra docenti-alunni e nel contesto classe. Entrambi gli aspetti fanno sì che la lezione risulti meno pesante del solito.

L’insegnante rappresenta, non solo, l’istituzione presso cui lavora, ma la classe; tuttavia è compito del docente essere un facilitatore e un sostegno valido per l’intero gruppo classe.

Come affermava Dewey, la classe è come un laboratorio dove gli alunni devono scoprire, appassionarsi, porsi delle domande e vivere il senso del gruppo.

Un bravo docente deve saper tirar fuori da ogni singolo alunno le potenzialità creative, inventive e di ragionamento; ma ciò deve avvenire in un contesto attivo in grado di offrire agli alunni metodi e strumenti idonei.

Tuttavia, l’insegnante non solo deve spiegare la lezione, ma la deve rendere co-partecipativa. Di concerto reputo fondamentale che 20 minuti di lezione siano sufficienti, dopodiché è utile dare vita al confronto con gli alunni sul tema trattato, dare loro la possibilità di esprimersi senza il timore di dover essere giudicati.

Osservando le classi spesso si nota che gli alunni hanno timore della valutazione del docente; in tal senso per essere “giusti” gli insegnanti devono intendere la valutazione non solo come un elemento che conclude un percorso e che va a convalidare o meno il raggiungimento di determinati obiettivi.

“Cari studenti voi non siete un voto” voi siete quello che decidete di voler essere

Siamo tutti d’accordo che alla fine di un quadrimestre si deve “dare un voto” a ogni singolo alunno, ma in quell’azione un docente non dovrebbe essere influenzato dagli aspetti negativi o positivi dell’allievo, l’insegnante deve in modo imparziale valutare delle conoscenze/competenze acquisite o meno dallo studente.

Perciò, al di fuori della scienza che studia il come attribuire i voti agli allievi, la docimologia, il docente dovrebbe essere dotato di quell’intelligenza emotiva che va oltre ogni valutazione di tipo oggettivo.

Per garantire ai ragazzi e quindi alla società del futuro un mondo giusto, reale e coinvolgente da un punto di vista esperienziale, sono gli insegnanti docenti che devono costruire un terreno fertile alla collaborazione.

Riprendendo quanto detto all’inizio i docenti non devono valutare in termini rigorosi, ma devono tener conto di tutto quel mondo che ha a che fare con le emozioni, i sentimenti, l’empatia e la collaborazione.

Un docente deve insegnare la via del futuro, non ostruirla; quando si valuta bisogna tener conto del mondo interiore ed esteriore dell’allievo. Solo così possiamo creare “flotte” di ragazzi che vanno a scuola con piacere e interesse.




Adolescenti, la crisi e la crescita

L’adolescenza è un periodo di grandi difficoltà poiché rappresenta un passaggio fisico e psicologico che fa sentire i ragazzi delle specie di “ibridi” tra l’essere ancora fanciullo e l’inizio dell’età adulta. Essere adolescenti è quel periodo della vita nel quale il giovane è molto vulnerabile. Tuttavia, l’essere adolescente comporta sia momenti di crisi che di crescita.

Al contrario di quanto si possa credere l’adolescenza è una fase della vita molto delicata: le modifiche corporee, sessuali e organizzative derivanti dalla pubertà, portano i ragazzi a dover riorganizzare la propria personalità e di conseguenza ritrovare nuovi equilibri in rapporto al proprio sé, all’ambiente che lo circonda (familiare, sociale e gruppi di riferimento) e in relazione alle trasformazioni corporee e cognitive.

Questa fase della vita è vissuta dai ragazzi come una sorta di “catastrofe” poiché i vari mutamenti a livello corporeo e mentale, portano l’adolescente ad allontanarsi dall’ambiente familiare e ad avvinarsi maggiormente al gruppo dei pari.

L’adolescente si ritrova a dover rielaborare una sorta di “lutto” conseguente la perdita del corpo infantile, da qui il ragazzo comincia a prendere il controllo del proprio essere allontanandosi dalla supervisione dei genitori. Di concerto, l’adolescente vuole e pretende di vivere mediante le sue capacità e le sue energie senza che nessuno (es. genitori, adulti) le diano dei consigli.

Diciamo che l’adolescente si definisce come una sorta di eroe. Questa frenesia adolescenziale deve essere rielaborata anche dalle figure genitoriali, in particolar modo dalla madre, per la perdita del prestigio dei valori materni e dell’esclusiva sul controllo del figlio avuto fino adesso.

L’ingresso dei figli nell’adolescenza segna l’inizio di un distacco dalla figura materna. Il giovane comincia a svincolarsi da questo dominio, prendendo le distanze dalla madre. Questo processo è chiamato di separazione, e non concerne il lato relazionale, bensì una questione di autonomia e indipendenza.

Il parere dello psichiatra

A tale proposito, lo psichiatra Daniel Siegel afferma che l’adolescenza è una fase della vita che va valorizzata il più possibile e supportata dagli adulti; a volte però le resistenze all’adolescenza ricadono fortemente sul ragazzo tanto da voler rifiutare qualsiasi tipo di aiuto. Nel suo processo di crescita l’adolescente comincia a vedere l’adulto non più come “mito”, ma come una persona normale con propri limiti e difetti. Questa nuova visione dell’adulto ne favorirà l’allontanamento e l’autonomia personale; allontanamento che risulterà indispensabile per fare nuove esperienze di vita.

I ragazzi entrano a far parte di un gruppo di coetanei con il quale poter affrontare le difficoltà di questa particolare fase; è dall’appartenenza a un gruppo che scaturisce un senso di sicurezza.

Il genitore troverà in questo distacco un elemento quasi di minaccia, farà qualsiasi cosa per riportare il ragazzo indietro, fino al momento in cui secondo il proprio parere non
sarà pronto per affrontare il mondo, dall’altra parte l’adolescente cercherà in tutti i modi di liberarsi da questa stretta adottando varie tecniche e mezzi di difesa.

Si crea una conflittualità tra adulto e adolescente che comunque è sinonimo di “maturazione” e che porterà il ragazzo al raggiungimento dell’indipendenza desiderata e alla formazione del sé. I genitori spesso si sentono in difficoltà, mentre gli adolescenti sono alla costante ricerca di novità, di coinvolgimento sociale, di maggiore intensità delle emozioni e di un’esplorazione creativa.

Per instaurare un buon rapporto tra adolescente e adulto è necessario che il genitore sia presente e che rispetti il proprio essere. Essere presenti vuol dire entrare in empatia con ciò che accade nella mente dell’adolescente e capire le sue emozioni senza giudicarle.
Presenza e sintonizzazione creano fiducia nel ragazzo, consentendogli di vivere il più serenamente possibile la sua adolescenza.




Famiglie allargate si o no?

Le ricerche sociologiche, oggi, vedono un forte cambiamento nell’assetto familiare. Tale condizione ha origine sia da un mutamento nel concetto di genitorialità che nel ruolo della famiglia all’interno della società: cambiano le persone, si modificano le strutture familiari, mutano le coppie, si spostano gli interessi di ogni singolo individuo, passando dalla condivisione all’individualizzazione.

Molti aspetti legati alla natura psicologica del singolo soggetto subiscono un cambio repentino: si pensa più a sé stessi che agli altri. In questo scenario, siamo di fronte a molte trasformazioni che vanno ad incidere, inevitabilmente, sulla composizione della famiglia stessa.

Quello che cambia oggi rispetto a circa 50 anni fa è legato alle cause della nascita delle nuove famiglie “allargate”, “ricomposte” o “ricostituite. Mentre un tempo le famiglie ricostituite si formavano dopo la morte di un coniuge, dagli anni ‘70, invece, con la possibilità anche in Italia di ricorrere a separazione e divorzio, si sono verificati cambiamenti sociali e culturali che hanno portato ad una nuova struttura di queste famiglie.

Le famiglie “allargate”, ovvero le famiglie composte da due partners che hanno vissuto l’esperienza della fine di un precedente matrimonio, da cui almeno uno ha avuto figli che attualmente vivono con loro, hanno la caratteristica di avere confini più labili e incerti rispetto alla famiglia “tradizionale”, sia in termini biologici che legali. I processi relazionali sono sicuramente più complessi, sia nella comprensione che nella gestione, sono flessibili e hanno un inizio e un’evoluzione molto rapida.

Le famiglie ricostituite sono state definite “cespugli genealogici”, per la loro ampia estensione orizzontale anziché verticale. Mentre alcuni studiosi non appoggiano totalmente questi cambiamenti, altri fanno fronte alle nuove forme familiari che non possono essere ignorate, ma devono essere comprese e sostenute.

Le famiglie ricostituite vivono la crisi di chi, con storie diverse e diversi modi di affrontare i problemi, deve trovare dei compromessi per affrontare insieme nuove situazioni.
Gli studi affermano che i precedenti rapporti coniugali e la loro chiusura siano stati rielaborati, con una buona definizione delle attuali relazioni e con confini chiari, in modo che i partner possano iniziare un nuovo rapporto senza rancori passati. È importante che i figli non abbiano un atteggiamento oppositivo verso il nuovo partner, sperando in una riappacificazione tra i suoi genitori. Questo sarà direttamente proporzionale ai livelli di chiarezza e definizione raggiunti.

L’età dei figli è importante: i bambini in età prescolare potrebbero manifestare regressioni, nascondendo il desiderio di farsi accudire. Per i ragazzi la necessità di conferme da parte del genitore biologico potrebbe invece lasciare il posto alla rabbia verso il genitore acquisito, soprattutto nella fase adolescenziale, all’interno della quale avviene il processo di costruzione della loro identità e questo totale mutamento potrebbe essere percepito come un ostacolo.
In questa fase, per i figli, il formarsi di una famiglia allargata, sancisce definitivamente la fine della relazione tra i genitori biologici, e spesso questo può portare alla paura inconscia che affezionandosi al genitore acquisito, in qualche modo si “tradisca” quello biologico. La causa che ne consegue è che ciò potrebbe portare i figli ad allearsi con quest’ultimo e sviluppare un senso di protezione morboso.

In ogni caso la genitorialità è ancora più difficile poiché i genitori dovranno imparare a gestire eventuali conflitti e gelosie tra i fratelli acquisiti. Nelle famiglie allargate è opportuno costruire nuove identità familiari, nuove stabilità ed equilibri.
A tale proposito, non si può dare una risposta definitiva alla domanda “Le famiglie allargate sì o no?”, poiché essendo in continua espansione necessitano di sostegno e di supporto. Sicuramente nelle famiglie ricostituite possono innescarsi situazioni particolari, ma dare una “valutazione” negativa o positiva non è certo il modo migliore per andare verso un processo di accettazione.

Di concerto, le famiglie ricostituite possono racchiudere al loro interno grandi risorse ed elementi di ricchezza per tutti i componenti, i quali si troveranno a contatto con abitudini, tradizioni, modelli e storie diverse dalle proprie.

Tutto questo, se integrato con nuovi “ingredienti” e abitudini comuni diviene un elemento fondamentale per la crescita e il benessere di tutti, portando alla costruzione di nuovi equilibri.




Essere genitori ieri e oggi: cosa è cambiato nel rapporto con i figli?

Come è cambiato negli ultimi anni il rapporto tra genitori e figli? Questa domanda oramai è divenuta oggetto di studio di molti esperti. Non solo sono stati scritti numerosi libri in merito, ma anche molte trasmissioni televisive dedicano a questa tematica molti spazi di discussione, invitando in studio esperti dell’infanzia, psicologi, psicoterapeuti, neuropsichiatri etc …

Come dimostrano molti studi, quello che oggi è cambiato non è solo la relazione tra genitori e figli, ma il concetto stesso di “essere genitori” ed “essere figli”.

Oggi ci troviamo di fronte ad un’involuzione della genitorialità, condizionata anche dalle modifiche repentine della società. Rispetto a ieri, dove la frenesia della quotidianità era meno preponderante, oggi i genitori sono molto presi dal loro lavoro e vivono il presente in modo “tempestoso”. Tale atteggiamento crea una sorta di “vuoto” incolmabile sia nel bambino che nell’adulto, poiché la scarsa qualità della genitorialità interrompe anche i processi di crescita del ragazzo/a. Molti bambini oggi si ritrovano a guardare la televisione o il cellulare per ore intere, poiché il genitore non ha tempo di sedersi vicino ai propri figli per ascoltarli.

Fin dalla nascita il piccolo d’uomo necessita di attenzioni e di risposte ai suoi bisogni per poter creare in lui la sensazione di fiducia nel mondo che lo circonda. Questo processo iniziale costituirà il fondamento dell’identità futura di quel bambino/a.

Di concerto, le grandi sollecitazioni che gli adulti ricevono dalla società, in continua trasformazione, non consentono loro di sviluppare dei rapporti sani con i propri figli, tutto ciò va a discapito di una genitorialità costante e ben “costruita”. La frenesia del tempo va a scontrarsi anche con la crescita del bambino che spesso si ritrova da solo a dover gestire le proprie emozioni.

Pertanto, saper “educare” i propri figli, nonché fornire loro dei “contenitori” attraverso cui leggere la realtà circostante, rappresenta un requisito genitoriale inevitabile.
Ciò che è cambiato nella famiglia di oggi, rispetto a quella di ieri, è l’assetto nonché l’organizzazione stessa della famiglia e dei suoi ritmi. I genitori spesso fuori casa e questo li costringe a delegare ad altri la gestione dei figli.

Tuttavia, il bambino/a si ritrova ad avere a che fare con i nonni, le baby sitter e quindi con un mondo diverso dal suo contesto familiare dove è nato, cresciuto e sviluppato. Tale contrapposizione mette in crisi il concetto di essere genitore, nascono mille paure, ansie e tensioni che inevitabilmente hanno una ricaduta negativa sulla coppia e sul bambino/a.
Sarebbe opportuno che il genitore si fermasse un attimo per rivisitare il suo ruolo in vista di un’infanzia che cresce e che non può metabolizzare aspetti nocivi nella sua crescita psico-fisica. La mancanza “mentale” di un genitore può provocare danni irreparabili nello sviluppo del bambino. Quest’ultimo potrebbe trovarsi in un circolo vizioso dal quale non riesce ad uscirne.

Tuttavia, per contrariare tali aspetti negativi, bisognerebbe che il genitore si ritagliasse spazi di qualità per giocare, parlare, ascoltare e anche osservare i suoi figli. In questo senso, la genitorialità acquisirebbe maggiore qualità.

L’importanza del sentirsi e dell’essere genitori sta nel mettere da parte la propria vita quotidianità, anche quel poco che basta, per creare empatia con i propri figli.
L’uso del tempo condizionale sta ad indicare non tanto un consiglio quanto una pratica educativa che deve essere ripresa il più presto possibile se si vuole assistere ad una crescita del bambino che dia frutti positivi alla sua vita presente e futura.

L’impegno della genitorialità deve essere costante, autorevole, non variabile e autoritaria. Per contro il genitore non deve essere permissivo, ma semplicemente deve creare un giusto equilibrio tra l’autorevolezza e il permissivismo.
Queste componenti, seppur basilari, servono a cambiare la rotta dell’educazione, dell’essere genitori e dell’essere figli.

La pedagogia, la mediazione in questo senso possono dare una mano ai genitori di oggi e del futuro a modificare la loro vita per dare più spazio alla loro genitorialità.
Una genitorialità di qualità e di stima nei confronti di una società che tenta, in sordina, di modificare i ruoli dell’essere genitore.




Gesualdo, la “Città del Principe dei Musici”: ecco il segreto della perla irpina

Gesualdo, paesino situato nella verde Irpinia, in provincia di Avellino, di appena 3500 abitanti, è stato per anni e lo è tutt’ora l’attrazione di molti visitatori; i dati comprendono sia i gesualdini emigrati che, nelle festività (Natale, Pasqua), non mancano a ritornare nel loro paese d’origine che dai turisti provenienti da regioni più o meno vicine (es. Romani, Napoletani, Calabresi e anche Siciliani).

Questa verde “perla” irpina vede il suo splendore in molti aspetti legati sia alla sua storia che alla sua cultura.

Gesualdo è chiamato la “Città del Principe dei Musici” e conserva una storia e una tradizione di grande spessore di cui gli abitanti ne vanno molto orgogliosi. La “Città del Principe dei Musici” è così denominata in onore di Carlo Gesualdo, l’ultimo importante esponente della polifonia rinascimentale.

Il paese e le campagne limitrofe ruotano intorno ad un fulcro portante: il leggendario “Castello di Gesualdo”, ritenuto il perno che domina il paese dall’alto e offre una visuale emozionante. Attorno al 1550, fu proprio da questa altura stupefacente che il poeta Torquato Tasso dedicò alcuni versi al paese.

Il Castello di Gesualdo risale all’Alto Medioevo: alcune fonti dichiarano che il castello è dell’epoca longobarda, costruito su incarico di Romualdo, duca di Benevento nel VII secolo, mentre altri affermano che il castello venne costruito su ordine di Radelchi, Principe di Benevento, durante il IX secolo.

Il Primo signore ad abitare la fortezza fu Guglielmo d’Altavilla e poi, nella seconda metà del ‘500, divenne la dimora del Principe Carlo Gesualdo che qui si rifugiò da Napoli, dopo aver ucciso la moglie Maria d’Avalos e il suo amante, per sfuggire alla vendetta delle due potenti famiglie. La leggenda narra che il Principe visse presso il castello nel senso di colpa per l’atto compiuto e che il fantasma di Maria d’Avalos si aggiri ancora oggi tra le stanze durante le notti di luna piena. Successivamente, per volere di Carlo Gesualdo, il castello si trasformò da fortezza militare in una splendida dimora signorile in stile rinascimentale.

Dopo secoli di abbandono, nel 1855 il Castello di Gesualdo divenne proprietà della famiglia Caccese che lo riportò a vita nuova. Tuttavia, a seguito del “famoso” sisma dell’1980, fu dichiarato inagibile fino a quando, nei primi anni del XXI secolo, venne acquisito dal Comune e dalla provincia di Avellino, per restaurarlo.

Oggi si presenta in tutta la sua bellezza, con la facciata che richiama l’architettura ottocentesca e gli interni, dagli ampi soffitti a volta, in stile rinascimentale con elementi gotici. Al piano terra si possono visitare le cucine e le stanze della servitù, mentre al primo piano è esposta la mostra di “Carlo Gesualdo da Venosa: gli strumenti musicali” con fedeli riproduzioni degli strumenti musicali appartenuti al Principe, partiture a stampa o manoscritte e riproduzioni degli abiti utilizzati nelle corti nobiliari napoletane del ‘500.
Dopo il restauro del Castello, terminato nel 2015, il paese ha riacquistato vigore e soprattutto ha registrato un notevole incremento turistico.

Gesualdo è un’attrazione ricca di monumenti storici tra cui, le piccole case costruite secondo i canoni dell’architettura feudale, con pochi vani e tetti spioventi, gli eleganti palazzi signorili del XVII secolo e l’autentico stile barocco delle fontane, dei grandiosi portali, delle piazze e delle ampie scalinate che accompagnano il visitatore in scorci affascinanti. Altri monumenti attraenti sono i Palazzi Pisapia e Mattioli, la Fontana dei Putti, Piazza Umberto I e Piazza Neviera.

Il paese è anche ricco di edifici religiosi tra i quali spiccano la Chiesa di San Nicola e la Chiesa di Santa Maria delle Grazie. La prima risale al XII secolo, sorge nei pressi delle mura del castello e all’interno si possono ammirare la tela raffigurante la Madonna della Neve, commissionata nel XVI secolo dal Principe Carlo Gesualdo all’artista napoletano Taurella, le statue in legno e le numerose reliquie che ne fanno meta di pellegrinaggio. La seconda chiesa, invece, venne edificata nel 1592 insieme al Convento dei Cappuccini. Quest’ultima presenta un’unica grande navata con altari rivestiti in marmo policromo ed è considerata una delle chiese più frequentate e amate.

Gesualdo è un paese affascinante anche per i suoi eventi culturali e per le sue tradizioni culinarie.

Gli eventi storici più importanti sono:

Il Volo dell’Angelo – Manifestazione religiosa molto partecipata che si tiene ogni anno, in occasione dell’ultima domenica di agosto. L’evento mette a confronto il bene (rappresentato da un bambino-angelo) e dal male (raffigurato da un uomo/donna travestito/a da diavolo). I due personaggi sono persone in carne ed ossa scelte, durante l’anno solare, tra gli abitanti del paese; le due personalità interpretano il confronto tra Dio e il Diavolo. La rappresentazione dura all’incirca 30 minuti con la conquista del bene sul male;

Il Presepe Vivente – Affascinante rappresentazione di religiosità, tradizione e storia che prosegue dal 1991;

La Passione e la Morte di Cristo – Percorso teatrale che, dal Cappellone, sede del Pretorio di Pilato, risale verso il Golgota, rappresentato dall’imponente castello longobardo

L’evento estivo Saperi & Sapori – Kermesse di arte, musica, mostre, convegni, enogastronomia e laboratori, finalizzata alla valorizzazione del bellissimo centro storico di Gesualdo;

Il Gesualdo Folk Event – Rassegna di musica popolare del Centro-Sud Italia. La protagonista in assoluto è la musica con ospiti ricercati, artisti locali e internazionali, il tutto è accompagnato da una piacevole degustazione di birra e prodotti gastronomici della tradizione irpina.

La tradizione culinaria prevede alcuni piatti e prodotti tipici tra cui:

Il Pomodorino seccagno di Gesualdo PAT – Di forma tonda squadrata e di un colore rosso intenso;

Il Sedano di Gesualdo PAT – Sedano di colore verde intenso, per l’esposizione delle piante alla luce solare nelle fasi di sviluppo, e dalle particolari proprietà organolettiche e nutrizionali;

L’Irpinia Colline dell’Ufita DOP – Olio extravergine di oliva derivante in gran parte dalla varietà Ravece, caratterizzato da un piacevole gusto amaro e piccante;

L’Aglio dell’Ufita PAT – Prodotto dal sapore aromatico e caratterizzato da un’alta quantità di oli essenziali e principi attivi.

Queste particolarità hanno fatto si che, negli anni scorsi, Gesualdo diventasse uno fra i cinque comuni irpini che fanno parte della collana “Borghi più Belli d’Italia”.

La peculiarità di mantenere vive le tradizioni, fanno di Gesualdo un paese autentico e vero. L’impegno costante della Proloco di Gesualdo (associazione di volontariato del paese) in collaborazione con i cittadini si occupa di mantenere vive le tradizioni storiche, culturali e culinarie.

Per tali motivi, l’orgoglio dei paesani è quello di sapere che anche solo per un giorno un turista che, per esempio passa in quelle zone, si fermi a Gesualdo per una visita e un pranzo/cena da raccontare e da ricordare.




Mezzogiorno, lo sviluppo economico nella rivoluzione digitale

Il 19 Ottobre 2023, FONDITALIA in collaborazione con l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, ha svolto un seminario dal titolo “Innovazione, formazione e sviluppo
economico.

Il Mezzogiorno di fronte alla rivoluzione digitale”. Già dal titolo si può dedurre la vastità dell’argomento nonché una tematica che tocca da vicino questioni molto attuali.
Tra i relatori del seminario il Professore Marco Zaganella (Università degli studi
dell’Aquila, CNR-ISEM) che ha sviscerato un argomento davvero interessante e degno di essere citato in una testata giornalistica.
“L’obiettivo del mio intervento è quello di analizzare come il Mezzogiorno si rapporti
con gli attuali processi di modernizzazione, – ha detto Zaganella – tenendo conto delle trasformazioni che il lavoro sta registrando dall’avvio della rivoluzione digitale a partire dagli anni ’70 e ’80 del XX secolo”.

Come si può dedurre dai giornali e dalla politica, il XX secolo è stato definito come il
secolo della terza e della quarta rivoluzione industriale. Le informazioni che riceviamo,
dai media e dagli economisti, non fanno altro che ricalcare come le trasformazioni
economiche del nostro Paese stanno accelerando a fronte di un altrettanto potente
sviluppo dei processi tecnologici e di innovazione.

Il professore Zaganella a sostegno di ciò ha dichiarato che, “il mio è un intervento che trae spunto da un’indagine condotta nell’ambito dell’Osservatorio, con il supporto dei TCR di Fonditalia, finalizzata ad analizzare il rapporto esistente, all’interno delle imprese aderenti al Fondo, tra innovazione, formazione e sviluppo economico.”

Dalla documentazione dell’indagine emerge come molte imprese, soprattutto del
Mezzogiorno, faticano a comprendere i cambiamenti del mondo del lavoro a seguito
della rivoluzione digitale. In effetti, il Sud Italia registra un’economia aziendale ad alta
intensità di lavoro, ma una bassa produzione e uno scarso approccio all’innovazione.
La situazione economica del Mezzogiorno risale alle prime aziende dell’800, dove gli
aspetti peculiari erano: le materie prime e l’uso di infrastrutture legate al territorio. In
quel periodo lo sviluppo del Sud Italia non era negativo, ma con la crisi (es. motivi
politici, economici, istituzionali e internazionali) degli anni ’70 dello scorso secolo le
imprese meridionali si sono disinteressate al concetto di modernità economica.

Si sono registrati, ha detto il professore Zaganella, una serie di situazioni sfavorevoli
allo sviluppo economico del Mezzogiorno, tra cui:

  • uno scarso interesse del capitale culturale;
  • la rottura tra disponibilità di materie prime e industrializzazione;
  • la nascita di un’economia della conoscenza (l’uso della digitalizzazione);
  • l’aumento della concorrenza e la rivoluzione informatica.

Di fronte a questi elementi, il Mezzogiorno non ha saputo reagire alle nuove sfide
economiche e digitali, rilevando incapacità di organizzazione imprenditoriale (es.
mancato investimento nella formazione dei dipendenti).
Tali aspetti hanno evidenziato una forte spaccatura tra Nord e Sud Italia; mentre nelle
regioni settentrionali (es. Vento, Emilia-Romagna, Marche e Toscana) lo sviluppo della
piccola-media impresa ha rilevato notevoli risultati, nelle regioni meridionali le
aziende hanno registrato gravi difficoltà.
Tra le problematiche del Mezzogiorno si annoverano:

  • il collegamento ad una civiltà agraria;
  • sviluppi economici disgregati;
  • il peso del latifondo come sistema economico statico e per nulla innovativo.

Questi aspetti hanno messo in crisi anche la formazione imprenditoriale e la nascita di
una cultura che si muove verso l’innovazione e l’informatizzazione. Perciò, il Mezzogiorno necessita di una “restaurazione imprenditoriale” sia a livello economico che produttivo. Il Sud deve ricorrere a nuovi stimoli e a nuove prospettive per volgere il proprio sguardo verso un futuro economico più innovativo. Sarebbe opportuno investire sull’aumento del capitale umano e culturale e, inoltre, riparare le basi economiche per arrivare a vertici aziendali più competitivi sia sul piano industriale-imprenditoriale che internazionale.