Burkini sì, burkini no

di Roberto Ragone

Siamo alle solite. Agli Italiani piace perdere tempo a discorrere del sesso degli angeli. Anzi, più le notizie sono vuote di contenuto, solo un falso scopo teso a distrarre la nostra attenzione dalle notizie importanti – come, ad esempio, la prossima ‘manovra’ segreta di trentasette miliardi da parte del governo, e che Dio ce la mandi buona – più i media ci si buttano; e più i nostri compatrioti si sentono chiamati a trinciare giudizi, esprimendo una loro personalissima linea di tendenza, condita con argomentazioni le più disparate e colorite: TV docet, con le interviste stradali inserite nei Tiggì per ‘alleggerire’ le notizie da ‘necrogiornale’. Insomma, questo spiega il grande successo del gossip, per dirlo in inglese, o del più nostrano pettegolezzo, e il successo delle riviste ad esso legate, con le notizie che interessano veramente la massa di coloro che poi, ahinoi, dovranno entrare in cabina per mettere una crocetta su di un quadratino, il più delle volte senza una vera e propria informazione. Questo il nostro governo-Renzi lo sa bene, e le notizie importanti, quelle che dovrebbero essere meglio analizzate, sondate e soppesate, ce le passa, con la complicità della Rai, e non solo, in modo che il cittadino ‘comune’ – un termine che appartiene alla politica e non a noi – possa farsi un’idea della faccenda, senza andare a fondo, insomma un piatto pronto e confezionato, come un catering.  Nel dubbio, astieniti, recita un detto. Chi non capisce, o s’interessa di altri argomenti – il calcio è diventato l’oppio dei popoli – non va a votare. Così si creano le correnti astensioniste, quelle che ogni politico, Berlusconi in testa, vorrebbe arruolare nel proprio partito. Per la polemica del burkini, niente di nuovo. Ognuno s’è fatto la sua opinione. C’è chi dice che le islamiche sono padrone di andare in spiaggia come vogliono; c’è chi proibisce, come in Francia, il burkini sulle spiagge; c’è chi, come l’imam che ne ha pubblicato le foto, scoprendo d’un tratto che in Italia abbiamo le suore, dichiara che dopotutto anche loro vanno vestite come se indossassero un burkini, e quindi tutto è lecito. Senza pensare che magari una suora non fa il bagno, o non lo fa vestita a quella maniera. Oggi le suore non sono più come una volta. Hanno seguito le orme dei loro colleghi maschi, che per lo più vanno in giro in clergyman, quando non addirittura in borghese, e li distingui solo dall’eloquio, dal tono della voce, e dalla crocetta sul bavero della giacca. Così, le suore cattoliche, secondo il loro ordine, oggi possono andare in giro con i capelli corti, le scarpe con un tacco basso e massiccio e un sobrio tailleur scuro. Come i preti, appunto. Che poi si rivestano in abito tradizionale – diciamo così – per andare sulla spiaggia e magari tuffarsi nelle onde del mare è quanto meno fantasioso; a parte il fatto che così abbigliate risulterebbe loro impossibile nuotare e molto possibile affogare, e che poi si tratta di religiose, ciò che non sono le islamiche, essendo l’Islam una religione maschilista e riservata ai soli uomini. Vogliamo dire che le islamiche sono osservanti? Certo, indossano quegli indumenti che sono una vera e propria prigione ambulante soltanto per tradizione; a volte per paura d’essere indicate come persone poco serie e molto disponibili. E visto il livello di stupri da parte di ‘immigrati’ di colore, sembra che l’abbigliamento delle nostre donne sia un richiamo al sesso qui e subito. Avere il capo scoperto non significa, in Italia, essere una prostituta da trascinare nel primo cespuglio disponibile.  L’idea del burkini in spiaggia ci disturba. E non perché così non possiamo ammirare le bellezze scoperte di un corpo femminile, ma per una ragione ben più profonda, che non si vuole evidenziare, per motivi accampati di ‘accoglienza’ e ‘integrazione’, gli argomenti preferiti della Boldrini, e non solo i suoi: più che altro di tutti coloro che non vogliono guardare una realtà che è sotto gli occhi di tutti.  Il vero motivo per cui il cosiddetto burkini – termine orribile – ha suscitato tante polemiche è che in presenza di una donna abbigliata in quel modo noi occidentali ci sentiamo violentati. Violentati da presenze di una etnia e di una religione che si sono presentate nella nostra nazione in modo invasivo e prepotente, sconvolgendone gli equilibri e la storia millenaria. Il costume da bagno delle nostre donne, che sia due pezzi o intero, è la summa di una serie di passaggi di civiltà e progresso, attraverso l’evoluzione della concezione del comune senso del pudore. Ciò che oggi è normale, negli anni ’50 era oggetto di contravvenzione. Chi ha i capelli grigi, ricorderà i vigili urbani sotto il sole d’agosto con la divisa, giacca e cravatta abbottonata fino al collo arrancare con le loro scarpe bianche nella sabbia – sempre in coppia – con il metro in mano, per misurare la distanza fra l’ombelico della malcapitata e l’inizio degli slip. Contravvenzione sicura al di sopra di una certa quota, anche se, detto fra noi, elevata a malincuore. Dopo sessant’anni, vediamo questi fantasmi con il capo coperto che impongono la loro presenza sulle spiagge, come i loro uomini ci hanno imposto le loro moschee e a volte la conversione dal cristianesimo all’Islam, ‘religione di pace’. A questo ultimo proposito i pareri sono discordi, e il discorso sarebbe troppo lungo, e non pertinente. Rimane il fatto che le presenze di donne trasformate in tanti Belfagor che si aggirano sulle nostre spiagge sono uno schiaffo alla nostra civiltà, un’ennesima violenza alla società occidentale, cioè esattamente ciò che vogliono essere. Al mare si va per svago, per fare una salutare nuotata e per prendere il sole. Coprirsi fino ai polsi e alle caviglie per gettarsi in acqua per noi non ha senso. Non si tratta di qualche centimetro, o metro di stoffa in più. Questa operazione dimostra una volta di più, che quando si parla di ‘integrazione’, si usano parole vuote, a proposito di un popolo che non ha nessuna intenzione di integrarsi con la società occidentale, anzi. Siamo in Occidente, e chi viene da noi deve adeguarsi ai nostri usi, costumi, e storia, altrimenti, come si predica in Australia, può rifare al contrario la strada che ha fatto per arrivare fin qua. Se vado a casa di un altro, non pretendo di dettar legge, come invece fanno taluni che abbiamo accolto con una filosofia deleteria di falso, o reale, buonismo, e che non si integreranno mai. La prova? L’abbiamo sotto gli occhi da settimane, il burkini.