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1 mese faon
Le immagini delle città italiane bloccate, occupate, invase da manifestanti aggressivi e da piccole fazioni di facinorosi stanno diventando una costante troppo frequente per essere ignorata. Dopo i cortei di ieri sera, terminati nella notte, questa mattina molte città si sono risvegliate con università e scuole paralizzate, strade occupate, spazi pubblici trasformati in teatri di guerriglia urbana. Da La Sapienza a Roma fino alla Statale di Milano, passando per Bologna, Torino e Genova, il copione è sempre lo stesso: facoltà vuote, rettorati occupati, strade bloccate da barricate improvvisate, picchetti e studenti che rivendicano la “giustificazione morale” delle loro azioni. Sedie, copertoni, tende all’interno di rettorati e presidi di polizia sfidati con arroganza: questa non è più protesta, ma un attacco organizzato alla legalità e alla vita civile.
Chi osserva dall’esterno potrebbe essere tentato di parlare di manifestazioni studentesche o di dissenso legittimo, ma basta guardare i fatti per capire la gravità della situazione. La mobilitazione non si limita a occupare pacificamente un’aula o uno spazio pubblico per discutere le proprie ragioni. Non c’è dialogo, non c’è confronto: c’è paralisi, ci sono aggressioni, ci sono comportamenti che sfiorano la violenza pura. A Bologna, ad esempio, gli studenti delle superiori e dell’università, durante un corteo verso la stazione, si sono scontrati con i carabinieri in tenuta antisommossa e hanno reagito alla repressione con manganellate reciproche e barricate improvvisate. A Milano, la Statale è stata occupata e bloccata in nome di una protesta legata a eventi internazionali, mentre studenti proclamano scioperi generali e minacciano di “bloccare tutto” se le loro richieste non vengono ascoltate.
Il problema, in realtà, non è più la legittimità o meno della protesta politica. Il problema è la modalità con cui viene portata avanti, che ha ormai superato ogni limite di tolleranza. Le città italiane non possono più permettersi di essere paralizzate per ore, giorni, settimane da piccole fazioni che agiscono come se fossero al di sopra della legge. Famiglie costrette a rimanere a casa, studenti impossibilitati a seguire le lezioni, pendolari bloccati, lavoratori intrappolati nel traffico: tutti questi cittadini pagano il prezzo della ribellione di una minoranza che crede di avere il diritto di imporre il proprio volere attraverso il caos e l’intimidazione.
E mentre la gente comune osserva, esasperata, le immagini dei blocchi e degli striscioni che proclamano slogan aggressivi, qualcuno continua a minimizzare o giustificare queste azioni come “proteste studentesche”. Ma se il diritto alla protesta è un principio fondamentale, esso non può trasformarsi in diritto a paralizzare città intere o a sfidare le forze dell’ordine senza conseguenze. Esiste una linea tra dissenso civile e violenza urbana, e quella linea è stata superata da tempo. Le istituzioni hanno il dovere di fermare chi la calpesta, con la fermezza che la legge impone.
Serve una risposta chiara e immediata: leggi dure, applicazione rigorosa delle pene, deterrenti efficaci. Non è più tempo di tolleranza verso chi occupa facoltà, blocca stazioni, costruisce barricate e si scontra con le forze dell’ordine. Chi commette queste azioni deve sapere che la conseguenza inevitabile è la galera, senza eccezioni. È una questione di rispetto per la legalità, ma soprattutto di rispetto per i cittadini onesti che vivono e lavorano nelle nostre città.
Le università e le scuole, i luoghi dello studio e della formazione, devono tornare ad essere spazi di crescita e non teatri di battaglia. Le strade devono essere spazi di circolazione sicura, non piste per manifestazioni aggressive e barricate improvvisate. Le forze dell’ordine devono poter operare senza essere continuamente aggredite o ostacolate, e i responsabili di ogni violenza devono essere perseguiti e puniti con la massima severità.
La tolleranza ha un limite, e quel limite è stato ampiamente superato. È evidente che parte della protesta non nasce da un reale interesse civile, ma da motivazioni ideologiche estremiste, che usano l’alibi della mobilitazione internazionale o di eventi politici lontani per giustificare comportamenti antisociali. Blocco della didattica, scioperi generali, picchetti aggressivi: tutto questo non è più accettabile. È ora di dire basta, senza se e senza ma.
Chi minaccia la città e la popolazione civile deve capire che le conseguenze saranno concrete. Le pene devono essere certe, la legge deve intervenire senza esitazioni, e chiunque scelga di violare lo spazio pubblico e le norme civili deve sapere che la giustizia non tollererà più queste azioni. Lo Stato deve riaffermare la sua autorità, perché solo così si potrà restituire ai cittadini la libertà di vivere senza paura, di studiare senza essere interrotti da barricate improvvisate, di lavorare senza essere ostacolati da blocchi e proteste violente.
È un momento cruciale per le istituzioni, per le università, per le forze dell’ordine e per tutta la società civile. La pazienza dei cittadini è finita. Le città non possono più essere ostaggio di minoranze aggressive che credono di imporre le proprie regole a suon di barricade e manganellate. È il momento di leggi dure, pene certe, interventi immediati. È il momento di dire chiaramente che chi distrugge, aggredisce, paralizza e sfida la legalità non ha più spazio nelle nostre città. Non c’è più tempo per compromessi o giustificazioni. È ora di fermare i teppisti e restituire normalità, sicurezza e rispetto della legge a chi ogni giorno contribuisce a far vivere la città, senza gridare slogan o occupare facoltà.
La mobilitazione violenta, i blocchi generalizzati, le aggressioni alle forze dell’ordine: tutto questo non è protesta, è criminalità urbana. E come ogni forma di criminalità, va combattuta con decisione. I cittadini italiani meritano rispetto. Le città meritano sicurezza. È ora di intervenire, è ora di farlo con la fermezza che serve: galera, pene severe, applicazione immediata della legge. Il diritto alla protesta si difende, ma non a spese del diritto alla sicurezza e alla vita normale degli altri. È ora di dire basta.