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Editoriali

CORANO: I MUSULMANI NON SONO TUTTI TERRORISTI

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Tempo di lettura 6 minuti Più che altro, dovremmo tutti quanti mettere nelle nostre bacheche Facebook i volti degli innocenti

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di Domenico Leccese

Indignazione, sgomento, difficoltà a comprendere e paura che ricominci la caccia al musulmano. Parliamone con Eliana Positano, giornalista ed esperta di fenomeni islamici.
 
Parigi, come New York. Gli attacchi terroristici scatenano di nuovo paura e terrore.
Parigi come new York, ma anche come la Tunisia. Paesi messi a ferro e fuoco dall'Isis, da una 'jihad' che ha una sua personalissima filosofia di guerra e morte. Una cosìdetta ‘Guerra Santa’ che di fatto è un'interpretazione errata rispetto a quello che è realmente.
 
Cosa significa ‘Jihad’? 
Il termine significa ‘sforzo’ e non morte come la intendono i terroristi. La jihad al tempo della rivelazione a Maometto rappresentava la lotta, quella non violenta e personale. Quindi, rappresentava lo sforzo interiore necessario per la comprensione dei misteri divini.
 
Ma il Corano si dice che contempli il combattimento…
Il Corano autorizza il combattimento ma solo quando esso è difensivo. E’ chiaramente spiegato nel libro sacro dell’Islam che Allah non ama chi eccede e considera illegali gli atti omicidi e suicidi per mezzo di bombe. L’Islam non ammette i kamikaze, non ne condivide la loro opera. In alcune pagine del Corano si legge che «chiunque deliberatamente si getti da una montagna uccidendosi, starà nel Fuoco (il nostro Inferno cristiano) eternamente cascandovi dentro e rimanendovi in perpetuo; e chiunque beva veleno per uccidersi lo porterà con sé e lo berrà nel Fuoco, dove rimarrà per sempre; e chiunque si uccida col ferro porterà con sé quell'arma e con essa si pugnalerà l'addome nel Fuoco dove rimarrà in eterno».
 
I kamikaze non sono quindi autorizzati ad uccidere nel nome di Allah?
Assolutamente. Non hanno avuto il lasciapassare del loro Dio, un Dio in cui probabilmente non credono nemmeno loro ma che utilizzano come scudo per giustificare la loro barbarie. I kamikaze , i terroristi, sono solo ‘esaltati’, delinquenti, schifosi parassiti. Bisognerebbe ricordargli che ‘Allah u Akbar’, è grande, e darà loro la giusta punizione che meritano.
 
Quindi il Corano non è un libro di morte, un libro che incita all’odio e alla distruzione?

Certo, il Corano non è nulla di tutto ciò, non è la fonte d'ispirazione di ogni male.  Dice che non bisogna uccidere, facendoci ricordare la comunione d’intenti con i nostri comandamenti. Il Corano non nasconde alcun messaggio subliminale evocante morte e distruzione e chiunque colpisce nel nome di un Dio che si chiami Allah o in qualsiasi altro modo lo fa per sua diretta e libera interpretazione. Diciamolo una volta per tutte che l'islamismo è una religione di misericordia e pace e considera l'omicidio come il secondo di tutti i peccati. "Chi uccide un uomo è come se avesse ucciso tutta l'umanità"…
Non è una frase ad effetto di politici e religiosi d'ogni grado.
È una frase scritta nel Corano che ci dice anche che nel cosiddetto giorno del giudizio (che non esiste solo per i cristiani cattolici ma anche per i musulmani), i primi ad essere giudicati saranno coloro che hanno sparso il sangue.
Che si sono macchiati del sangue degli innocenti commettendo delle stragi.
 
Quindi per i kamikaze nessuna pace eterna? 
Assolutamente. Ogni terrorista che si macchia di omicidio, di strage, che uccide un proprio simile anche se di religioni differenti non troverà nessuna pace eterna e non avrà nessuna vergine come ricompensa. La salvezza, ci insegna il Corano, si otterrà con le buone azioni e esisterà una ricompensa per la gentilezza verso ogni forma di vita, umana o animale che sia. Non a caso, il libro sacro dell’Islam indica che anche gli animali, quando devono esser uccisi, non devono soffrire. Perché la sofferenza è ‘haram’, quindi è proibita. E dunque, è grave peccato incitare al terrore, distruggere edifici, bombardare ogni dove e chi si macchia di questi crimini è detestabile.
 
Chi sono realmente i musulmani?
Già, i musulmani. Uomini e donne guardati a vista, integrati nella nostra Europa ma mai completamente accettati. Ho avuto la fortuna di lavorare con qualcuno di loro, di conoscerne tanti, di apprezzarne la loro umanità e il loro essere più intrinseco. Le mie figlie vanno a scuola con i loro figli, i loro amici sono arabi e alle mie ragazze stanno insegnando davvero tanto.
Sono persone come noi, sono uomini e donne meravigliosi e dalla sensibilità conclamata. Ti aprono il cuore se sai farti accettare. E per farti accettare, devi necessariamente accettare per prima il loro essere, la loro cultura, il loro modo di vivere.
 
Perché invece li si odia così tanto?
Su di loro incombe l'odio, la generalizzazione che se sei musulmano sei terrorista. È un po’ come la considerazione che se sei rumeno sei delinquente, e se eri albanese negli anni '90, eri necessariamente un trafficante di droga, uno stupratore. Purtroppo, i mass media in questi anni non hanno agevolato l’integrazione, hanno puntato il dito contro lo straniero e hanno inevitabilmente calcato la mano se un reato, foss’anche minimo, veniva commesso da un immigrato. Vi pare deontologicamente professionale quello che ha scritto il quotidiano ‘Libero’, titolando dopo le stragi, ‘Bastardi islamici’?
E’ una generalizzazione che nuoce gravemente all’integrazione.
E poi la generalizzazione è anche frutto dell’Europa.
 
Perché?
Perché l’Europa è stata ed è questo. E forse lo sarà ancora: un'entità che per sopravvivere ha bisogno di combattere un nemico. Qualsiasi esso sia. Oggi sono gli arabi dei quali però nessuno dice che di fatto seguono una religione di pace, misericordia e perdono e che la maggior parte di essi non ha nulla a che vedere con i violenti e con gli esaltati. Come per ogni popolo, le menti pensanti sanno che è così. Quelli non pensanti continuano a seguire una massa di ignoranti che danno al loro libro sacro un'interpretazione del tutto personale perché fa comodo nascondersi dietro al nome di Allah per commettere atti deprecabili e deplorevoli. Certo, fa comodo dire in Occidente che il Corano incita all'odio. Si trova il capro espiatorio e possiamo bombardare tutti insieme appassionatamente i luoghi in cui si pensa si nascondano i terroristi. Continuando a commettere stragi di innocenti, ad uccidere bambini e donne che nulla hanno a che fare con i terroristi e che di essi sono le prime vittime.
 
In questi giorni i profili dei social sono stati colorati dalle bandiere francesi. Il suo no. Perché?
Perché dovremmo cambiare ogni giorno la nostra immagine del profilo ed ogni giorno dovremmo colorarla con i colori di una bandiera. Non sono stata ‘Charlie’ al momento della strage alla redazione del giornale francese e non sono un vessillo francese nemmeno oggi. Più che altro, dovremmo tutti quanti mettere nelle nostre bacheche i volti degli innocenti, i volti dei tanti bambini uccisi dalle bombe nel malsano tentativo di uccidere i terroristi. Sparare nel mucchio non serve. Bombardare i civili non è un atto eroico. E’ un atto più vile di quello commesso dal terrorismo.
 
Spesso parli di ‘mani insanguinate’. Cosa rappresentano?
Nell’immaginario collettivo le mani insanguinate sono quelle di chi ha commesso un crimine. Sono le mani di chi, rifiutando l'integrazione, porta le nuove generazioni musulmane ad esser allontanate dagli altri, continuando invece a garantire ai jihadisti di trovare un motivo in più per dichiarare la loro guerra. Le mani insanguinate, nella mia spiegazione, sono anche quelle dei francesi che per decenni hanno protetto i terroristi pensando che questa fosse la cosa giusta da fare per non avere problemi. E invece, le dafaillance sono state tante e le serpi hanno potuto proliferare, conoscere il nemico da vicino e attaccarlo nel momento in cui si è most¬rato vulnerabile. Le mani insanguinate sono anche quelle di noi italiani. Non io o tu, ma quelle dei nostri politici: c'è chi inneggia ai bombardamenti, chi chiede di radere al suolo i rom e i musulmani (come se fossero la stessa cosa…), chi addirittura condivide l'opera malvagia di questi esaltati. Tutti siamo responsabili del nostro destino, se poi insultiamo il nemico non possiamo lamentarci se esso prima o poi ci attacca. Non è una giustificazione, ma un dato di fatto.
 
Cosa ci dici sugli attacchi terroristici al Bataclan, al ristorante cambogiano, allo stadio e al centro commerciale?
Sono tutti scenari di guerra per punire i francesi delle derisioni ad Allah.
E i francesi Allah lo hanno deriso e lo hanno fatto anche con le vignette di Charlie Hebdo….Forse quello è stato l’inizio, il messaggio per far capire che si stava andando oltre. Mi chiedo perché in Europa, in quei luoghi in cui vige la religione cattolica  non si sia mai pensato di deridere Gesù Cristo allo stesso modo in cui si è deriso Allah. Probabilmente perché un Dio forse per qualcuno non è come un altro… Ogni popolo che si rispetti ha la sua religione, il suo Dio e non spetta a noi cattolici o ai terroristi islamici provare a far cambiare idea a qualcuno. Ci sono ‘intolleranze’ anche da parte della nostra religione cattolica che non sono condivisibili eppure nessuno uccide nel nome di nessuno. Semmai si prova a far ragionare, a far cambiare gli status indotti.
Credo che prima di parlare e di accusare le altre religioni, bisognerebbe capire la nostra e probabilmente cambiare le menti e i pensieri di chi impone determinate direttive che non sono scritte da nessuna parte.
Anche quella è un’interpretazione personale da parte di qualcuno.
 
Dopo gli attacchi di Parigi, la minaccia a Londra, a Washington e a Roma in vista del Giubileo.
Il mondo è sotto assedio e sotto attacco dei terroristi. Nessuno ha parlato della stage all’università del Kenya immediatamente dopo  quella di Parigi. Roma sarà il prossimo obbiettivo dei jihadisti? Perfetto. La loro guerra la combatteremo da italiani, da europei e l’affronteremo di petto. Ma soprattutto la combatteremo accanto a quei tanti musulmani onesti che hanno il diritto di non essere associati a beceri terroristi.

 

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Editoriali

Il Consiglio di Stato: “Non ci sono fondi per la disabilità” dobbiamo limitare l’inclusione scolastica

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Il titolo preannuncia una possibile “tragedia” che sta colpendo la dignità umana, questa è pura follia! L’inclusione della disabilità ha seguito un iter legislativo molto complesso che va consolidato ogni giorno con dei progetti validi a livello nazionale/europeo. Sentir parlare di limitare i fondi di bilancio che promuovono l’inclusione della disabilità è disfunzionale alla nostra etica morale.

La scuola italiana negli ultimi decenni si è impegnata sempre più in termini di inclusione, pertanto i “cantieri che si sono aperti” devono essere lavorati e non serrati. Sull’inclusione scolastica sono stati fatti numerosi studi, convegni e seminari; ad esempio l’Università Alma Mater di Bologna riconosce un grande merito al professore Andrea Canevaro, nonché il pioniere della prima cattedra di pedagogia speciale in Italia. Purtroppo, venuto a mancare da qualche anno, il professore Canevaro ha scritto i cardini su cui poggia la pedagogia speciale, ha studiato e fatto ricerca su molti punti chiave della disabilità: in particolare proprio sul concetto di inclusione.

È intervenuto con tecniche e strategie innovative tali da diffondere tre concetti chiave: il disabile non è diverso, ma tutti siamo uomini diversi, la consapevolezza dell’assenza di giudizio, il sostegno alla disabilità e le famiglie come fulcro del suo pensiero pedagogico.
Ostacolare oggi questi studi è come buttare una “mina” su tutto quello che è stato fatto da numerosi professionisti, insegnanti di sostegno e docenti. Inoltre, tutto quello che il Consiglio di Stato Italiano ha detto non ha fatto altro che creare malcontenti, delusioni e rabbia, nonché profonde ferite che colpiscono gli animi dei ragazzi/e, gli studiosi, le istituzioni e le famiglie stesse.
Il taglio dei fondi riguarderebbe non solo la disabilità certificata, ma anche le fragilità di alcuni ragazzi/e (i DSA e i BES). In tal caso, crollerebbe l’istituzione scuola, il ruolo degli insegnanti di sostegno e le progettazioni che si organizzano (es. i Piani Educativi Individualizzati).

Le famiglie sono molto preoccupate dopo la sentenza n° 1798/2024, poiché quest’ultima non riguarderebbe solo la violazione del diritto all’istruzione degli studenti disabili, ma anche di tanti altri servizi importanti come il trasposto, la riabilitazione e le cure. Le amministrazioni certificano, così, che il diritto allo studio per i disabili vale meno degli altri, riportando-ci ad un concetto terrificate: la discriminazione. Concetto, quest’ultimo, che non deve “esistere” in una repubblica democratica come l’Italia.


Se i fondi per l’assistenza scolastica stanno finendo, non bisogna certo infierire contro le situazioni più deboli. In tal caso si vanno ad infrangere i principi della nostra Costituzione Italiana quali, la dignità, l’uguaglianza, l’inclusione e le pari opportunità.

Pertanto, diciamo NO a questi possibili “tagli” ne va della nostra reputazione personale e collettiva.

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Giovani e lavoro: sfide e opportunità nell’era post-studi

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Tra aspettative, realtà del mercato e nuove competenze: come i neolaureati affrontano l’ingresso nel mondo professionale

Il passaggio dal mondo accademico a quello lavorativo rappresenta un momento cruciale nella vita di ogni giovane. Oggi, più che mai, questo transito è caratterizzato da sfide complesse e opportunità in rapida evoluzione. L’era digitale, la globalizzazione e i cambiamenti socio-economici hanno ridisegnato il panorama professionale, creando nuove aspettative e richiedendo competenze sempre più specifiche.

Secondo recenti studi dell’ISTAT, in Italia il tasso di disoccupazione giovanile si attesta intorno al 30%, un dato allarmante che sottolinea le difficoltà incontrate dai neolaureati nel trovare un’occupazione coerente con il proprio percorso di studi. La dott.ssa Maria Rossi, sociologa del lavoro presso l’Università di Milano, commenta: “I giovani di oggi si trovano di fronte a un paradosso: sono la generazione più istruita di sempre, ma faticano a trovare la loro collocazione nel mercato del lavoro.”

Uno dei principali ostacoli è il disallineamento tra le competenze acquisite durante il percorso di studi e quelle richieste dalle aziende. Il dott. Luca Bianchi, responsabile delle risorse umane di una multinazionale, spiega: “Spesso i neolaureati hanno una solida base teorica, ma mancano di competenze pratiche e soft skills essenziali nel mondo del lavoro, come la capacità di lavorare in team, la flessibilità e la gestione dello stress.”

Per colmare questo gap, molte università stanno implementando programmi di alternanza scuola-lavoro e stage curriculari. La prof.ssa Giulia Verdi, docente di Economia all’Università di Roma, afferma: “È fondamentale creare un ponte tra il mondo accademico e quello professionale. Gli stage e i tirocini offrono agli studenti l’opportunità di mettere in pratica le loro conoscenze e di familiarizzare con le dinamiche aziendali.”

Un altro aspetto cruciale è l’orientamento professionale. Molti giovani si sentono disorientati di fronte alla molteplicità di opzioni e alla rapida evoluzione del mercato del lavoro. Il dott. Marco Neri, psicologo del lavoro, sottolinea l’importanza di un approccio proattivo: “È essenziale che i giovani inizino a riflettere sul loro futuro professionale già durante gli studi, esplorando diverse opportunità e costruendo un network di contatti.”

L’era digitale ha anche aperto nuove strade per l’autoimprenditorialità. Sempre più giovani scelgono di avviare startup o di intraprendere carriere da freelance. Andrea Russo, 28 anni, fondatore di una startup nel settore tech, racconta: “Ho deciso di creare la mia azienda perché volevo mettere in pratica le mie idee e avere un impatto diretto. È una sfida enorme, ma anche un’opportunità di crescita incredibile.”

Tuttavia, non mancano le criticità. La precarietà lavorativa e i contratti a tempo determinato sono spesso la norma per i neoassunti. La dott.ssa Laura Bianchi, esperta di politiche del lavoro, evidenzia: “C’è il rischio di creare una generazione di lavoratori perennemente precari. È necessario un intervento legislativo per tutelare i giovani e incentivare le assunzioni a tempo indeterminato.”

Le aziende, dal canto loro, stanno cercando di adattarsi alle nuove esigenze dei giovani lavoratori. Flessibilità oraria, smart working e programmi di formazione continua sono alcune delle strategie adottate per attrarre e trattenere i talenti. Il dott. Paolo Verdi, CEO di una media impresa, spiega: “Investiamo molto nella formazione e nel benessere dei nostri dipendenti. I giovani oggi cercano non solo uno stipendio, ma un ambiente di lavoro stimolante e in linea con i loro valori.”

In conclusione, l’approccio dei giovani al mondo del lavoro è caratterizzato da una miscela di entusiasmo e preoccupazione. Se da un lato ci sono sfide significative da affrontare, dall’altro le nuove generazioni hanno a disposizione strumenti e opportunità senza precedenti. La chiave per il successo sembra risiedere nella capacità di adattarsi, di apprendere continuamente e di coltivare una mentalità aperta e flessibile.

Come sottolinea la prof.ssa Verdi: “Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente. I giovani che riusciranno a navigare queste acque turbolente, combinando competenze tecniche, soft skills e una buona dose di resilienza, saranno quelli che tracceranno il futuro del mondo professionale.”

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Cronaca

Diocesi di Roma e gestione patrimoniale: scelte controverse, cambiamenti interni e accuse di “furto” [INCHIESTA #3]

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Dalla gestione ecclesiastica a quella commerciale: i timori per il futuro del patrimonio diocesano

Negli ultimi mesi, la Diocesi di Roma è stata al centro di una serie di eventi che hanno suscitato preoccupazioni riguardo alla gestione del suo vasto patrimonio immobiliare. Diverse decisioni amministrative e nomine interne hanno alimentato il dibattito tra chi teme che la struttura stia subendo cambiamenti significativi, con ripercussioni sia sul patrimonio che sui rapporti interni.

Il Caso dell’immobile sul Lungotevere

Un esempio emblematico riguarda la stipula del contratto di locazione per un immobile situato in lungotevere dei Vallati, concesso alla società “Wellington Polo Fashion s.r.l.”.

Purtroppo c’è di mezzo una presunta falsificazione degli atti

L’operazione ha sollevato numerose domande e, tra l’altro, nonostante la firma del contratto, la società non ha ancora versato il primo e il secondo canone di locazione. La situazione ha destato perplessità, considerando che è stato accordato anche uno stralcio del debito preesistente e una dilazione del pagamento in cinque anni. Ci si chiede se le condizioni stabilite siano state realmente vantaggiose per la Diocesi o se vi siano state delle leggerezze nella stipula dell’accordo.

Riunioni a porte chiuse e preoccupazioni

La mancanza di comunicazioni ufficiali ha generato un clima di incertezza. Diverse riunioni si sono susseguite, con l’intento di affrontare la questione, e sembrerebbe che alcune figure chiave stiano cercando di individuare eventuali responsabilità.

Tra i nomi coinvolti, si parla del Vicegerente Mons. Baldassare Reina, della Cancelliera Maria Teresa Romano figure di rilievo nell’amministrazione della Diocesi e anche del Notaio Carlo Cavicchioni.

Le dimissioni e le nomine

In questo contesto, un altro evento significativo è stato quello delle recenti dimissioni del dott. Davide Adiutori, unico addetto dell’Ufficio Patrimonio della Diocesi. Adiutori lascerà il suo incarico il prossimo 30 settembre, un fatto che ha alimentato ulteriori dubbi su possibili difficoltà interne nella gestione del patrimonio. Le sue dimissioni sono viste da molti come un segnale preoccupante, poiché potrebbero lasciare spazio a cambiamenti significativi nella gestione delle risorse immobiliari.
Parallelamente, è stata resa pubblica la nomina di Don Renato Tarantelli Baccari a Vicario episcopale giuridico-amministrativo, con poteri straordinari nella gestione degli enti della Diocesi. La nomina, firmata dal Santo Padre in data 24 giugno 2024, conferisce a Don Tarantelli un ruolo di grande responsabilità, oltre a diversi altri conferiti in precedenza, con l’autorità di coordinare gli ambiti giuridici e amministrativi della Diocesi di Roma.

La Diocesi di Roma potrebbe presto trasferire tutto il suo patrimonio immobiliare nelle mani dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), l’ente che gestisce i beni e le risorse economiche della Città del Vaticano. C’è anche il timore che, oltre agli immobili, il Santo Padre possa acquisire presto anche il controllo del patrimonio mobiliare (cioè i beni non immobili come titoli finanziari o denaro) della Diocesi.
Inoltre, con una logica che sembra più vicina a quella di un’impresa commerciale che a una struttura ecclesiastica, è stato deciso di smembrare il settore centro della Diocesi di Roma. Questo settore sarà suddiviso tra gli altri settori presenti a Roma, senza tener conto delle specificità e delle necessità di questa particolare e speciale realtà della Diocesi. Questo cambiamento potrebbe dare al Vicario Episcopale un maggiore controllo sugli enti che si trovano nel centro di Roma, come le rettorie e altre strutture religiose. L’obiettivo sembrerebbe essere quello di consolidare il potere e appropriarsi del patrimonio accumulato nel corso di tanti anni grazie ai contributi dei fedeli. In futuro, anche questi beni potrebbero essere trasferiti sotto la gestione diretta del Santo Padre.

Cambiamenti al vertice e riorganizzazione Interna

L’inchiesta giornalistica che sta portando avanti questo quotidiano mette in luce anche altre dinamiche interne, come la nomina di Don Alessandro Caserio a direttore dell’Ufficio Amministrativo.

Caserio, amico di lunga data di Don Tarantelli, ha assunto il ruolo dopo la partenza della dott.ssa Cristiana Odoardi, che si era precedentemente dimessa e anche lui come la Odoardi non ha competenze economiche avendo forse una laurea in architettura.

Questi spostamenti interni sollevano domande sull’effettiva indipendenza delle nomine e sui possibili conflitti di interesse.
In aggiunta, vi sono segnali di una riorganizzazione del personale all’interno del Vicariato. Alcuni dipendenti e sacerdoti che non si sono allineati con la nuova linea amministrativa sarebbero stati gradualmente allontanati, alimentando un clima di tensione tra chi teme un progressivo accentramento del potere.
Mentre la Diocesi di Roma attraversa questo periodo di cambiamenti, molti fedeli e osservatori restano in attesa di capire quali saranno le implicazioni a lungo termine delle recenti decisioni. Le domande sulla gestione del patrimonio e le dinamiche interne sollevano interrogativi che potrebbero influenzare la fiducia nella trasparenza e nell’amministrazione della Chiesa a livello locale.
Resta da vedere come si evolveranno gli eventi nei prossimi mesi e se le scelte attuate porteranno ad ulteriori divisioni all’interno della Diocesi. La gestione del patrimonio, un tema delicato e cruciale, continua a essere un argomento di grande interesse per chi segue da vicino le vicende della Chiesa romana.

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