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Editoriali

La politica tra DPCM e PPPP: il presidio di garanzia della Costituzione

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(A scanso di equivoci) Il fine giustifica i mezzi? Così suol dire.

di Angelo Lucarella*

Da diverse settimane si sente discutere delle presunte analogie tra il richiamo salviniano ai pieni poteri e l’aratura normativa contiana degli ultimi mesi.

Strategie politiche che parrebbero far intuire, a diversità di strumenti, medesimo fine: l’accentramento di poteri.

C’è una differenza quasi oceanica, soprattutto in termini di politica-giuridica, tra i c.d. “D.P.C.M.” (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministeri) ed i c.d. “P.P.P.P.” (acronimo dei ribattezzati Pubblici Proclami per Pieni Poteri).

I primi hanno una collocazione ferma nell’ordinamento giuridico italiano (ad esempio l’art. 2 legge n. 13/1991), i secondi con tutta evidenza e conoscenza no.

Dato che i PPPP hanno, fondamentalmente, una matrice storico politica, ci si limita a ricordare, solo per migliore esemplificazione, che a differenza di quanto accadde in occasione della legge “Pieni Poteri” approvata dal parlamento tedesco nell’anno 1933 (di cui una sorta di reviviscenza, pur non proprio simile, si sta registrando nello Stato ungherese), in Italia il tutto è rimasto lettera morta nell’agosto del 2019 non foss’altro perché la Repubblica italiana è dotata di una Costituzione che, soprattutto grazie alla lungimiranza dei nostri padri costituenti, prevede pesi e contrappesi tali per cui difficilmente il singolo individuo può assumere l’intera regia di Stato.

Farebbe al caso esclamare “God save the Quenn”?

Meglio rimanereun po’ piùautentici in questo drammatico periodo, segnato dalla diffusione del coronavirus, al massimo dicendo che “Dio ci salvi e basta” o che “la Scienza ci salvi e basta”.

Potremmo spingerci ancor più avanti, in una forma più contemperata e con toni certamente meno esagitati, nel dire che “il Dio di chiunque, la Politica di chiunque e la Scienza di chiunque possano salvare l’Umanità” (magari potrebbe fare al caso il concetto dell’henomènon di Pomponio).

A quanto sopra va unita imprescindibilmente la riflessione che, specie nell’ultimo periodo (da gennaio 2020 in poi), continua ad intensificarsi tra gli italiani fino a far pensare all’idea del presunto ritorno di un mostro del passato apparentemente o velatamente nascosto (secondo qualcuno) tra gli atti messi in piedi dal Governo Conte: ci si riferisce, per esser più chiari, all’ipotesi di una eventuale dittatura tecnocratica o meno.

C’è qualcuno che è davvero lì lì per dare una spallata alla democrazia a suon di DPCM?

Questo non si può sapere e, certamente, non è questa la sede per esprimersi senza dati certi o quantomeno elementi gravi, precisi e concordanti (giusto per fissare un richiamo giuridico); ciò anche perché le dittature non avvisano. Esse si insinuano nel sistema, da antisistema, per poi diventare il sistema stesso (mi si perdonerà per la ripetizione).

Ma stiamo all’analisi dell’evoluzione politica quale parte complementare essenziale del discorso, appena iniziato, al fine di comprendere al meglio ove risieda la radice giuridica di quanto sta avvenendo ai giorni nostri.

Ora, proprio a scanso di equivoci, tenuto conto dell’ultimo caso di PPPP (registrato nel vituperato periodo di stallo politico dell’agosto 2019 ovvero momento nel quale il primo Governo Conte, nato dall’accordo tra Lega e M5S, è entrato in crisi tanto da bloccare l’attuazione del c.d. “Contratto di Governo”) occorre valutare se, per certi versi, i c.d. DPCM del secondo esecutivo contiano siano non altro che un superamento dei PPPP in chiave moderna oppure se, più semplicemente, si tratti di atti istituzionalmente e temporalmente funzionali, nell’ottica delle prerogative del Presidente del Consiglio (di cui all’art. 95 della Costituzione), volti a mantenere l’unità di indirizzo politico ed amministrativo del paese con l’intuibile obiettivo di armonizzare il da farsi a più livelli (dal ministeriale al decentrato e fino al locale).  

Quale sarebbe, quindi, la genetica giuridica che hanno quest’ultimi?

Non siamo dinanzi ad atti legislativi (anche perché, oltre al disposto costituzionale, c’è l’art. 1 legge 13/1991 il quale prevede l’intervento del Presidente della Repubblica ove mai si trattasse di genetica normativa di tal fatta).

La Costituzione italiana fa chiarezza: gli artt. 76 e 77 ammettono che il Governo possa legiferare solo se delegato dal Parlamento (nella prima ipotesi) oppure autonomamente se vi ricorrano condizioni di urgenza e necessità (nella seconda ipotesi).

Il caso dei DPCM, quindi, fuoriesce dal dettato costituzionale benché, come intuibile, non possa discostarsi dalle ragioni di legalità, legittimità e trasparenza amministrativa quali essenze vitali tipiche di un sistema che si fonda su un ordinamento democratico; principi che, ad esempio, incarnano lo spirito (perdonando l’ossimoro) dell’art. 97 Cost..

Ad ogni modo, colgasi una particolarità dei DPCM in questione: non riportano alcuna firma del Presidente della Repubblica.

Il motivo è semplice, non banale, oggettivamente legato in maniera specifica al dettato della Carta fondamentale italiana che, ulteriormente, fa luce con l’art. 87, co. 5; quest’ultimo attribuisce al nostro Presidente della Repubblica il potere di promulgare le leggi, emanare decreti aventi valore di legge nonché i regolamenti.

Ed allora qual è il riflesso di politica-giuridica dei tanto discussi DPCM?

Sono potenzialmente idonei a squilibrare il rapporto tra poteri, esecutivo e legislativo in particolare, mediante un presunto disegno politico “nascosto” rispetto a quello giuridico?

Qualcuno, stando a quanto si legge ultimatamente, lo affermerebbe poiché attinto dal presumere che siano atti presidenziali tesi ad accentrare nelle mani dell’Uomo di comando il tutto.

Andiamo per gradi.

La legge n. 400/1988, menzionata nell’incipit di ogni DPCM pubblicato su Gazzetta Ufficiale, prevede all’art. 5, co. 1. lett. g) ed f) che spetti al Presidente del Consiglio dei Ministri esercitare le attribuzioni conferitegli dalla legge in materia di servizi di sicurezza potendo, al contempo, disporre con proprio decreto l’istituzione di particolari Comitati di ministri ed eventualmente anche di esperti non appartenenti alla pubblica amministrazione. In costanza dell’emergenza coronavirus si considerino, a titolo di esempio, i famosi gruppi di task force.

Ma si aggiunga di considerare anche l’ultimo comma dell’articolo 5 il quale, espressamente, stabilisce che spetta al predetto Presidente del Consiglio dei Ministri esercitare le altre attribuzioni conferitegli dalla legge (a prescindere dalla materia e dal tipo di strumento normativo e cioè Decreto Legge, Decreto Legislativo o Legge ordinaria).

Di tutta evidenza, quindi, risulta che i DPCM non solo siano stati emanati in forza di una legge deliberata dal Parlamento italiano (ci si riferisce alla n. 400/88), ma anche in virtù di appositi recentissimi D.L. (che, come detto, sono norme a tutti gli effetti).

Condivisibili potrebbero essere alcune preoccupazioni sollevate da autorevoli giuristi (in particolare, come ad esempio Cassese e Marini, illustri costituzionalisti) in relazione alla portata giuridica dei DPCM; preoccupazioni che, come opportunamente si precisa, vanno contestualizzate rispetto all’oggetto centrale della questione.

Nella fattispecie era necessario, all’inizio, differenziare la portata politico-giuridica tra DPCM e PPPP mentre, ora, è necessario chiudere il cerchio riguardo al collocamento normativo dei primi strumenti (in realtà già in parte definito).

È pur vero che l’abuso di Decreti presidenziali non farebbe altro che mortificare il rapporto di controllo tra legislativo e governativo; non foss’altro che forzare la fuoriuscita d’ambito, quanto a competenza, di atti vestiti di portata non normativa, ma sostanzialmente tali in radice, metterebbe in seria discussione la base della struttura democratico-costituzionale della Repubblica.

A questo punto, però, occorre ricordare a noi stessi che il Governo consolida una propria ragion d’essere legittimatoria nel rapporto di fiducia parlamentare, allo stato, immutato rispetto all’inizio del secondo esecutivo Conte.

Sicché il controllo politico parlamentare c’è tutto seppure, come si può facilmente constatare, a suon di colpi di “fiducia” e quindi quasi a luci spente.

Ma parlare di abuso dello strumento decretale da parte del Presidente del Consiglio è assai delicato e doloroso perché, togliendo per un attimo dal campo minato il retropensiero dei cavalieri di galoppo politico avventuriero, montare la piazza della competizione e dello schernimento è fin troppo facile.

Allora è bene cercare una chiave di lettura quanto più attendibile e comprensibile in termini di certezza del diritto: non va dimenticato, infatti, che è il diritto a servire l’Uomo e non il contrario.

Stiamo vivendo una fase storica dai tratti somatici indecifrabili, poco individuabili e scarsamente addomesticabili se non per auto-responsabilità che in altri termini si chiamerebbe, per gli amanti della scienza politica, in c.d. “autoconservazione”.

Occorre prudenza nelle affermazioni, specie quando si deve gestire qualcosa di molto labile in termini di discussione istituzionale (come sta accedendo con il COVID – 19), perché ne va senz’altro della salute di tutti soprattutto da un punto di vista mentale.

Non è un caso che la distonia tra Governo centrale e Regioni stia emergendo tutta proprio ora, salvo qualche rara eccezione.

Una distonia che si può tradurre, sotto un’altra ottica, in colpi e contraccolpi dell’autonomia non bilanciata dall’ultima riforma costituzionale in materia: il famoso art. 117 della Costituzione.

Qui va solo ricordato che in materia sanitaria (la più delicata in relazione sia all’art. 32 Cost. che a buona parte dei Principi Fondamentali della nostra Carta pilastro) si gioca il tutto per tutto certuna politica in perenne ricerca di affermazione o conservazione.

Buona critica giuridica ha fatto rilevare che il Governo, davanti alla diversità di regolamentazione sanitaria regionale, avrebbe potuto attivare le procedure sostitutive previste dall’art. 120 della Costituzione.

La scelta del Governo Conte è risaputa: mix di Decreti legge e DPCM (anche se c’è ancora altro).

Segno che una certa presenza istituzionale per fronteggiare la crisi da coronavirus, a torto o ragione, non si può certo disconoscere.

Parallelamente si assiste ad attribuire tutta la colpa dell’andamento politico complessivo ad un Presidente del Consiglio, senza storia politica alle spalle, per il semplice fatto di essere partoriente dei suoi decreti (tra l’altro previsti dalla legge).

Si badi bene, però, ad una differenza sottile: la colpa politica sistemica è un conto (poiché la determinano elettori e partiti secondo, grossomodo, gli schemi di cui agli artt. 1 e 49 Cost.) mentre la colpa in ordine a scelte governative è altra storia (poiché ricade, ovviamente, su chi ne sovrintende il consesso a ciò preposto in ossequio al già menzionato art. 95 Cost.).

Non si può, allo stesso tempo, sottacere che non c’è ad oggi molto equilibrio tra maggioranza e Governo.

Qualcuno maliziosamente potrebbe domandarsi perché mai, a questo punto, non giungere alle dimissioni consentendo al Presidente della Repubblica di individuare in seno al Parlamento una nuova maggioranza ovvero, pur con la stessa maggioranza, un nuovo esecutivo che sappia fronteggiare la crisi collegialmente invece di “delegare tutto” ad un Uomo che di certo “non può tutto”.

Quanto sta avvenendo in relazione ai DPCM, sicuramente, avrà dei deficit nel merito sul piano giuridico, ma in questo momento storico la legittimità di forma dei predetti decreti resta funzionale al doveroso “andare avanti” in termini di sistema.

Fintanto che ci sarà l’obbligazione politica che investe tutti si manterrà la democrazia.

Il punto di fondo che distingue la metodologia tra DPCM e PPPP sta proprio in questo: la scelta dell’obbligazione nei confronti dei cittadini.

Sfruttando le parole del celebre Norberto Bobbio, il quale magistralmente ci insegna tutt’oggi a cosa serva il potere nell’accezione della filosofia politica, si giunge alla conclusione del ragionamento con una domanda che premette da sé la riposta: “A chi devo ubbidire? E perché?”.

Il Decreto è presente, il Proclama è non altro che futurologia.

Si tratta di fare i conti con la realtà (finché ne avremo una da tutelare) cercando di evitare il più possibile di diventare vittima di noi stessi per un eccesso di credulità derivata dal tramutarsi della iniziale credibilità delle scelte fatte in sede elettorale.

Popper docet: egli direbbe che “La negazione del realismo porta alla megalomania.”

Oggi c’è una crisi devastante in atto. Perciò quando tutto finirà ci sarà tempo per andare a scovare dietrologie di potere o meno.

Per ora, se proprio dobbiamo ubbidire a qualcosa si tratta della Costituzione: la radice del verbo ubbidire deriva, d’altronde, da “ascoltare”. Non è quindi un verbo intendente allo sfruttamento del prossimo, ma di conformità alla regola.

Ubbidire, in ratio, non è da sudditi, ma da cittadini liberi che hanno scelto un Parlamento.

Comunque, legge elettorale permettendo, ne riparleremo più avanti.

Perché ubbidire quindi?

Perché ce lo chiede il nostro passato, senza con ciò dover rinunciare a vagliare, controllare, sindacare, criticare come si svolge il presente.

Però a questa funzione di sindacato abbiamo delegato tutti un “qualcuno” che siede tra gli scranni parlamentari di Camera e Senato; luoghi, quest’ultimi, nei quali, parafrasando, dovrebbe organizzarsi democraticamente la resistenza dei giorni nostri ove mai si ritenessero i DPCM fuori dagli schemi costituzionali o, comunque, al di là del confine di legalità.

E se ciò non avviene ognuno tragga le conclusioni.

Per ora non ci rimane che sperare nella responsabilità di ognuno per il bene di tutti: anche politicamente parlando.

*Avvocato tributarista, Presidente CLN AssoConsum, membro Commissione Giustizia MISE

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Editoriali

Da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni: 80 anni di percorso tra continuità e cambiamenti della destra italiana

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La politica italiana ha sempre ospitato una serie di correnti e movimenti, con la destra che ha attraversato varie fasi e trasformazioni nel corso del tempo. Da Giorgio Almirante, fondatore del Movimento Sociale Italiano (MSI), a Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia (FdI), la destra italiana ha attraversato un percorso complesso, caratterizzato da cambiamenti ideologici, sociali e politici.

L’eredità di Giorgio Almirante e il Movimento Sociale Italiano (MSI)

Giorgio Almirante è stato una figura di spicco della destra italiana nel secondo dopoguerra. Come fondatore e leader del MSI, Almirante incarnava un nazionalismo conservatore e anti-comunista. Il MSI, nato nel 1946, era erede del Partito Fascista di Benito Mussolini e rappresentava un’ala estrema della politica italiana. Tuttavia, negli anni ’70 e ’80, sotto la guida di Almirante, il MSI cercò di rinnovare la sua immagine, cercando di allontanarsi dall’etichetta di “fascista” e di inserirsi nel panorama politico mainstream.

Il passaggio dall’MSI a Alleanza Nazionale

Negli anni ’90, con la fine della guerra fredda e il crollo del comunismo, la destra italiana subì un cambiamento significativo. Nel 1995, il MSI si trasformò in Alleanza Nazionale (AN), sotto la leadership di Gianfranco Fini. Fini cercò di allontanare il partito dagli elementi più estremisti e fascisti, adottando una retorica più moderata e democratica. AN divenne parte integrante del sistema politico italiano, entrando a far parte di coalizioni di governo e accettando i principi della democrazia pluralista.

La rinascita della destra con Fratelli d’Italia

Tuttavia, il vento della destra italiana ha continuato a soffiare, e nel 2012 è stato fondato Fratelli d’Italia – Alleanza Nazionale (Fdl-AN), guidato da Giorgia Meloni, Gianni Alemanno e Ignazio La Russa. Il partito si è posizionato come l’erede ideologico dell’AN e ha abbracciato un nazionalismo conservatore e identitario. Meloni, in particolare, ha portato una ventata di freschezza alla destra italiana, attrattiva soprattutto per i giovani e per coloro che si sentono trascurati dalle élite politiche tradizionali.

L’ascesa di Giorgia Meloni e la nuova destra italiana

Giorgia Meloni, nata nel 1977, rappresenta una nuova generazione di leader della destra italiana. Con una retorica forte e decisa, Meloni ha saputo capitalizzare sul malcontento verso l’establishment politico e sulle preoccupazioni riguardanti l’immigrazione, la sicurezza e l’identità nazionale. Fratelli d’Italia ha ottenuto risultati significativi nelle elezioni politiche, consolidando la sua posizione come uno dei principali partiti di destra in Italia.

La destra italiana nel contesto europeo

Il percorso della destra italiana, da Almirante a Meloni, riflette anche le tendenze più ampie all’interno della destra europea. La crescente preoccupazione per l’immigrazione, l’identità nazionale e la sovranità statale ha alimentato la salita di partiti di destra in molti paesi europei. Tuttavia, ciascun paese ha le sue specificità e la sua storia politica unica, che influenzano il modo in cui la destra si presenta e agisce.

La Frammentazione della Destra Italiana: Un’Analisi Politica

La politica italiana è stata da sempre caratterizzata da una molteplicità di partiti e movimenti, ognuno con la propria ideologia e visione politica. Tra questi, la destra italiana non è stata immune dalla frammentazione, che ha avuto un impatto significativo sul paesaggio politico del Paese.

Origini della Frammentazione

Per comprendere appieno la frammentazione della destra italiana, è necessario analizzare le sue origini. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia ha visto la nascita di una serie di partiti politici di destra, che spaziavano dall’estrema destra nazionalista a movimenti conservatori più moderati.

Tuttavia, nel corso degli anni, la destra italiana ha subito numerose scissioni e divisioni interne, spesso dovute a conflitti personali, divergenze ideologiche e lotte di potere. Questi fattori hanno contribuito alla creazione di una serie di partiti e movimenti di destra, ognuno con il proprio leader carismatico e seguaci devoti.

Le Principali Fazioni

La frammentazione della destra italiana ha portato alla creazione di diverse fazioni e gruppi politici, ciascuno con le proprie caratteristiche e obiettivi. Tra i principali vi sono:

  1. Forza Italia: Fondato da Silvio Berlusconi nel 1994, Forza Italia è stato uno dei principali partiti di centro-destra in Italia per diversi decenni. Tuttavia, nel corso degli anni, il partito ha subito diverse scissioni e ha visto la nascita di nuove formazioni politiche.
  2. Lega Nord: Originariamente un movimento separatista del Nord Italia, la Lega Nord si è trasformata in un partito nazionale di destra sotto la leadership di Matteo Salvini. La Lega Nord è nota per le sue posizioni anti-immigrazione e euroscettiche.
  3. Fratelli d’Italia: Un partito di destra nazionalista fondato da Giorgia Meloni nel 2012, Fratelli d’Italia è diventato uno dei principali attori della destra italiana. Il partito si basa su un nazionalismo conservatore.
  4. Movimento Sociale Italiano (MSI): Originariamente un partito neofascista fondato nel dopoguerra, il MSI è stato successivamente trasformato in Alleanza Nazionale e infine assorbito da Forza Italia. Tuttavia, una parte dei suoi ex membri ha continuato a operare all’interno di movimenti di estrema destra.

Impatto sulla Politica Italiana

La frammentazione della destra italiana ha avuto un impatto significativo sulla politica del Paese. Innanzitutto, ha reso difficile per la destra italiana presentare un fronte unito e coeso, spesso conducendo a coalizioni fragili e instabili.

Inoltre, la frammentazione ha alimentato la polarizzazione politica in Italia, con i vari partiti di destra che competono per attirare l’elettorato con discorsi populisti e promesse di cambiamento. Questo ha contribuito a una maggiore instabilità politica e ha reso difficile per il Paese affrontare le sfide economiche, sociali e ambientali.

Prospettive Future

Il futuro della destra italiana rimane incerto, con molte domande sulla sua capacità di unirsi e presentare un fronte coeso. Tuttavia, con l’aumento del nazionalismo e del populismo in Europa, è probabile che la destra italiana continui a giocare un ruolo significativo nella politica del Paese. In conclusione, la frammentazione della destra italiana è stata una caratteristica persistente della politica italiana, con profonde implicazioni per il Paese nel suo complesso. Mentre la politica italiana continua a evolversi, sarà interessante osservare come la destra italiana si adatterà e influenzerà il futuro del Paese.

Conclusioni

Il percorso della destra italiana da Giorgio Almirante a Giorgia Meloni è stato caratterizzato da continuità e cambiamento. Mentre alcuni principi fondamentali, come il nazionalismo e il conservatorismo, sono rimasti costanti, il modo in cui questi principi sono stati interpretati e presentati è cambiato nel corso degli anni. Con Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia, la destra italiana si trova oggi in una fase di rinnovato vigore e ambizione, giocando un ruolo sempre più centrale nel panorama politico nazionale.

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Costume e Società

Famiglie allargate si o no?

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Le ricerche sociologiche, oggi, vedono un forte cambiamento nell’assetto familiare. Tale condizione ha origine sia da un mutamento nel concetto di genitorialità che nel ruolo della famiglia all’interno della società: cambiano le persone, si modificano le strutture familiari, mutano le coppie, si spostano gli interessi di ogni singolo individuo, passando dalla condivisione all’individualizzazione.

Molti aspetti legati alla natura psicologica del singolo soggetto subiscono un cambio repentino: si pensa più a sé stessi che agli altri. In questo scenario, siamo di fronte a molte trasformazioni che vanno ad incidere, inevitabilmente, sulla composizione della famiglia stessa.

Quello che cambia oggi rispetto a circa 50 anni fa è legato alle cause della nascita delle nuove famiglie “allargate”, “ricomposte” o “ricostituite. Mentre un tempo le famiglie ricostituite si formavano dopo la morte di un coniuge, dagli anni ‘70, invece, con la possibilità anche in Italia di ricorrere a separazione e divorzio, si sono verificati cambiamenti sociali e culturali che hanno portato ad una nuova struttura di queste famiglie.

Le famiglie “allargate”, ovvero le famiglie composte da due partners che hanno vissuto l’esperienza della fine di un precedente matrimonio, da cui almeno uno ha avuto figli che attualmente vivono con loro, hanno la caratteristica di avere confini più labili e incerti rispetto alla famiglia “tradizionale”, sia in termini biologici che legali. I processi relazionali sono sicuramente più complessi, sia nella comprensione che nella gestione, sono flessibili e hanno un inizio e un’evoluzione molto rapida.

Le famiglie ricostituite sono state definite “cespugli genealogici”, per la loro ampia estensione orizzontale anziché verticale. Mentre alcuni studiosi non appoggiano totalmente questi cambiamenti, altri fanno fronte alle nuove forme familiari che non possono essere ignorate, ma devono essere comprese e sostenute.

Le famiglie ricostituite vivono la crisi di chi, con storie diverse e diversi modi di affrontare i problemi, deve trovare dei compromessi per affrontare insieme nuove situazioni.
Gli studi affermano che i precedenti rapporti coniugali e la loro chiusura siano stati rielaborati, con una buona definizione delle attuali relazioni e con confini chiari, in modo che i partner possano iniziare un nuovo rapporto senza rancori passati. È importante che i figli non abbiano un atteggiamento oppositivo verso il nuovo partner, sperando in una riappacificazione tra i suoi genitori. Questo sarà direttamente proporzionale ai livelli di chiarezza e definizione raggiunti.

L’età dei figli è importante: i bambini in età prescolare potrebbero manifestare regressioni, nascondendo il desiderio di farsi accudire. Per i ragazzi la necessità di conferme da parte del genitore biologico potrebbe invece lasciare il posto alla rabbia verso il genitore acquisito, soprattutto nella fase adolescenziale, all’interno della quale avviene il processo di costruzione della loro identità e questo totale mutamento potrebbe essere percepito come un ostacolo.
In questa fase, per i figli, il formarsi di una famiglia allargata, sancisce definitivamente la fine della relazione tra i genitori biologici, e spesso questo può portare alla paura inconscia che affezionandosi al genitore acquisito, in qualche modo si “tradisca” quello biologico. La causa che ne consegue è che ciò potrebbe portare i figli ad allearsi con quest’ultimo e sviluppare un senso di protezione morboso.

In ogni caso la genitorialità è ancora più difficile poiché i genitori dovranno imparare a gestire eventuali conflitti e gelosie tra i fratelli acquisiti. Nelle famiglie allargate è opportuno costruire nuove identità familiari, nuove stabilità ed equilibri.
A tale proposito, non si può dare una risposta definitiva alla domanda “Le famiglie allargate sì o no?”, poiché essendo in continua espansione necessitano di sostegno e di supporto. Sicuramente nelle famiglie ricostituite possono innescarsi situazioni particolari, ma dare una “valutazione” negativa o positiva non è certo il modo migliore per andare verso un processo di accettazione.

Di concerto, le famiglie ricostituite possono racchiudere al loro interno grandi risorse ed elementi di ricchezza per tutti i componenti, i quali si troveranno a contatto con abitudini, tradizioni, modelli e storie diverse dalle proprie.

Tutto questo, se integrato con nuovi “ingredienti” e abitudini comuni diviene un elemento fondamentale per la crescita e il benessere di tutti, portando alla costruzione di nuovi equilibri.

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Riforma tributaria e abrogazione legge Pittella: l’Avvocato Lucarella presenta petizione alla Camera dei Deputati

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La legge Pittella da ormai due anni ha cambiato le carte in tavola per migliaia di contribuenti italiani: da un giorno all’altro anni di sacrifici economici e investimenti legali andati in fumo per effetto della legge 215/2021 (partorita dal Parlamento a seguito dell’emendamento che prese il nome dal suo proponente).
La questione, molto dibattuta in ambito giuridico, ha scatenato molti effetti sul piano umano e di vita reale per singoli cittadini ed imprese soprattutto medio-piccole: in pratica la legge, prevedendo la non impugnabilità dei famosi estratti di ruolo (rilasciati dalla ex Equitalia), comporta il non potersi più difendere da atti dell’amministrazione esattoriale ritenuti illegittimi se non quando una intimazione di pagamento, un pignoramento, una istanza di fallimento dovessero essere notificati.
L’Avv. Angelo Lucarella, già vice presidente coord. Commissione Giustizia del Ministero dello Sviluppo Economico, docente a.c. in Diritto processuale tributario – Università degli studi di Napoli Federico II e tra gli esperti giuristi italiani invitati dal World Justice Project 2023 (sostenuto dalla Commissione Europea), ha depositato il 30 dicembre 2023 una petizione per la riforma legislativa secondo quanto previsto dall’art. 50 della Costituzione italiana.
“Si tratta di un atto doveroso: bisogna rimettere i cittadini, che avevano promosso contenziosi per cartelle esattoriali ritenute illegittime, in condizione di difendersi.
Il fatto che una legge dello Stato, di punto in bianco, faccia blocco al diritto di difesa con un effetto retroattivo implicito è contro la Costituzione italiana perché crea disparità di trattamento e violazione del diritto di difesa. Principi e diritti, quest’ultimi, anche tutelati a livello europeo e internazionale.
Con la petizione, per quanto anzitutto fatto ed atto simbolico, si istruisce un procedimento legislativo che vedrà interessarsi della questione una Commissione parlamentare apposita.
La speranza è che si giunga alla abrogazione della legge Pittella o quantomeno ad una norma c.d. di interpretazione autentica affinché si dichiari, una volta per tutte, che non è possibile alcun effetto retroattivo implicito. Sulla scorta di questa ipotetica soluzione legiferare per la riapertura dei termini contenziosi per i contribuenti che vogliono continuare le cause all’epoca avviate o quantomeno consentire loro di conciliare con l’erario allo stato del giudizio prima della legge Pittella.
Inoltre è la stessa Corte Costituzionale con la recente decisone 190/2023 ad invitare il legislatore ad intervenire quanto prima sulla questione.
Quindi ne va dello stato di diritto e della credibilità del sistema delle leggi democratiche”.
È quanto commenta l’avv. Lucarella.

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