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Editoriali

LICENZA DI RAPINARE

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di Roberto Ragone

Visti gli accadimenti politici e sociali degli ultimi anni, ci stiamo forse rendendo conto che noi Italiani viviamo in una condizione che desta invidia, visto anche quante sono le forze che si vogliono impadronire – e in buona parte già l’hanno fatto – delle nostre eccellenze. Senza parlare del clima, dei paesaggi, della storia, delle opere d’arte, delle tradizioni, e così via.

La nostra nazione è quindi teatro di grandi cambiamenti, effetti della ‘globalizzazione’, non sempre positivi. Anche se non avremmo voluto che accadesse, tutto è cambiato, in meglio – raramente – o in peggio – più di frequente. Per esempio, la malavita, la delinquenza, quella categoria umana che vive delle fatiche altrui, rubando, rapinando, scippando, a volte uccidendo anche senza motivo. Gli omicidi in Italia erano rari, una volta, ve lo dice chi ha sempre seguito la ‘nera’ sui giornali. Oggi sono la regola quotidiana.

In parte perché abbiamo importato dall’estero un’altra maniera di agire, una diversa e sconosciuta crudeltà, che non era la regola dei nostri ladruncoli. Parliamo di piccola criminalità, del topo d’appartamento, dello scippatore, del rapinatore di tabaccherie e farmacie, oltre che di edicole, reati cosiddetti 'minori', ma socialmente i più allarmanti, che ci tolgono la sicurezza di noi stessi e la libertà di camminare a piedi per le nostre città, che colpiscono il tessuto sociale più debole, l'uomo della strada, il pensionato, il piccolo commerciante, colui che non ha abbastanza denaro da procurarsi sistemi d'allarme o scorte che gli consentano di proteggere sè stessi o i propri capitali, ben al sicuro nella banche, qualche volta fuori d'Italia. Prima regola era che la casa fosse vuota: bastava lasciare una luce, la radio o la TV accesa, e questo era sufficiente a scoraggiare il ladro. Oggi invece si va in casa quando si sa che la famiglia è presente, anzi, a volte la si aspetta sull’uscio per sequestrarla e farsi aprire quella cassaforte che nei miti balcanici è sempre presente nelle abitazioni degli Italiani, notoriamente ricchi.

Quanto alle conseguenze, nessuna. Basta prendere il primo autobus per la madrepatria, dove certamente queste cose non si farebbero mai, per tanti motivi, non ultimo quello della rudezza dei poliziotti e della durezza delle pene, certe e senza sconti buonisti. Gli omologhi Italiani stanno presto e facilmente apprendendo tutte queste tecniche, e soprattutto questa impunità che consente, dopo un periodo abbastanza breve di detenzione fra amici, di tornare al lavoro. Perchè per costoro, delinquenti abituali e pluripregiudicati, questo è un vero e proprio ‘lavoro’; visto che la disoccupazione è a livelli da record, bisogna darsi da fare, c’è la famiglia da mantenere, e la Magistratura a cui presentare il ‘caso di necessità’.

Finchè una sera tre compari vanno sotto l’appartamento, al terzo piano di una villetta – una mansarda – a Vaprio d’Adda, nella cintura milanese, ed uno di loro – presumibilmente il più agile e prestante – dopo aver indossato i calzini non sui piedi, come buona regola detta, ma sulle mani, per non lasciare impronte, si arrampica fino all’abitazione di una coppia ultrasessantenne, ben sapendo che i malcapitati – che hanno già subito altri furti – stanno dormendo nei loro letti; per nulla intimorito dalla loro presenza, ben sapendo che, data la giovane età – 22 anni, ma gliene avevano dati 28 e poi 30, segno del fatto che probabilmente era più sviluppato fisicamente di un ventenne qualsiasi (pluripregiudicato per reati specifici, già con decreto di espulsione completamente inutile in tasca, un’altra presa in giro per noi cittadini – o sudditi?) – avrebbe ben potuto sopraffare il padrone di casa, dando luogo ai suoi due compari che lo attendevano da basso.

Così il giorno dopo avremmo potuto leggere sui giornali dell’ennesima rapina finita in tragedia con due anziani all'ospedale o peggio – ma questo non fa impressione, ormai ci siamo abituati, e povero chi ci capita. Le cose, come sappiamo, sono andate diversamente. Il pensionato 65enne ha impugnato una pistola ‘regolarmente detenuta’, come certi giornali asserviti al potere si affrettano ad aggiungere, ha visto un’ombra con una torcia in mano, ha avuto paura, ha fatto fuoco. Presumibilmente il malvivente, colpito in pieno petto, s’è girato per fuggire, ma ha potuto fare solo pochi passi, ed è caduto fuori della porta dell’appartamento, porta che aveva – presumibilmente – già aperto per chiamare i due di sotto.


In America, terra – per quanto male se ne voglia dire – che è una culla di libertà e di democrazia, con tutti i suoi difetti, e che è stata fatta anche con l’uso delle armi, questo sarebbe stato un fatto che non avrebbe destato alcun clamore. Anzi, in USA il ladro non sarebbe entrato di notte in casa, conoscendo già che sorte avrebbe potuto avere. Da noi, no. Chi si difende dall'aggressione, dallo scippo, dalla rapina, colmando con un'arma – che la Costituzione ci dà il permesso di detenere per difendere la nostra costituzionalmente inviolabile incolumità – il divario di forze fra un anziano e tre malviventi giovani e aitanti, pur se non armati – (e che ne sappiamo se quelli di sotto non erano armati? ) – chi si difende in questo modo viene inquisito per 'omicidio volontario', come il peggiore degli assassini, come se uccidere fosse una cosa piacevole, un'aspirazione di tutti noi, uomini di pace, pensionati che vorrebbero soltanto vedere riconosciuto il proprio diritto a vivere sicuri e riposare di notte al sicuro in casa nostra, acquistata con il sudore della fronte e avendone pagato, e pagandone ancora, tutti i balzelli. Nessuno vuole uccidere un essere umano. Come in guerra, a volte si è costretti, non ad uccidere premeditatamente, ma a difendersi per non soccombere, e questo è il caso. Ma questa nostra Italia è il Paese dei paradossi: stranamente ci preoccupiamo più dell'incolumità dei delinquenti che di quella delle persone per bene. Guai ad uccidere, se pur in stato di necessità – quello stesso riconosciuto ai rom quando vanno a rapinare e a rubare – un prezioso violatore del codice penale, anche se recidivo e senza scrupoli!

Chi si permette di far questo sentirà addosso tutto il peso della 'Legge', arrogante e intransigente con gli onesti, molto più permissiva con i frequentatori abituali delle patrie galere. Sembra quasi che si tenda a proteggere questi ultimi a discapito di chi vive una vita di lavoro e di onestà. E a volte questo è avvenuto, e ancora avviene, con il colmo del ladro che chiede – e ottiene – un risarcimento da un tutore dell'ordine che lo ha arrestato – a sentir lui – troppo 'violentemente'.

Diciamo subito che chi delinque non ha più diritti, nel momento stesso in cui sta operando il crimine. La pena ormai non è più certa, e deve tendere alla rieducazione, non si sa perchè: questa regola va cambiata – la nostra Costituzione mostra i segni del tempo e i tempi sono cambiati –  e ne va introdotta un'altra: chi è recidivo nella stessa fattispecie di reato deve subire una pena proporzionalmente più elevata per quante volte ha compiuto lo stesso delitto, fino a rimanere in galera a vita. (Quel bel tomo che si è fatto sparare avrebbe dovuto essere in carcere, o fuori d'Italia: perchè non è andata così?) Evidentemente non recuperato, evidentemente un tarlo della società, bisogna metterlo in condizioni di non nuocere. Terzo: la responsabilità di questa situazione è soltanto, e completamente, di uno Stato che non sa svolgere il suo compito, che è quello di proteggere i cittadini. Si parla sempre di far West e di 'giustizia fai da te': bene è ora di finirla. La difesa personale non è nulla di tutto ciò. Se le condizioni si sono estremizzate, ciò è dipeso dalla latitanza dello Stato – tutto preso a proteggere i propri politici – che è bravo soltanto a prenderesela con i cittadini onesti. Al Far West ci stiamo arrivando, e la colpa non è dei cittadini, ma di chi ha messo le forze dell'ordine in condizioni di non poter agire e di non poter fare fino in fondo il proprio lavoro.

Potenziare i mezzi di Polizia e Carabinieri, dare al cittadino la possibilità di difendersi, eliminando l'eccesso in legittima difesa, mettere in galera i delinquenti e non farli uscire così facilmente, togliere ai giudici una discrezionalità che va contro lo spirito della legge, togliere dalla strada tutti coloro che causano disturbo o peggio, questa è una soluzione che bisogna adottare drasticamente, senza codazzi politici e ideologici, se non vogliamo che ognuno di noi si armi – con o senza autorizzazione, quella che ai banditi non serve – e si arrivi davvero al Far West.
In America un sindaco italiano ha reso sicura la città di New York con una sola espressione: tolleranza zero.
 

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Editoriali

Il Consiglio di Stato: “Non ci sono fondi per la disabilità” dobbiamo limitare l’inclusione scolastica

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Il titolo preannuncia una possibile “tragedia” che sta colpendo la dignità umana, questa è pura follia! L’inclusione della disabilità ha seguito un iter legislativo molto complesso che va consolidato ogni giorno con dei progetti validi a livello nazionale/europeo. Sentir parlare di limitare i fondi di bilancio che promuovono l’inclusione della disabilità è disfunzionale alla nostra etica morale.

La scuola italiana negli ultimi decenni si è impegnata sempre più in termini di inclusione, pertanto i “cantieri che si sono aperti” devono essere lavorati e non serrati. Sull’inclusione scolastica sono stati fatti numerosi studi, convegni e seminari; ad esempio l’Università Alma Mater di Bologna riconosce un grande merito al professore Andrea Canevaro, nonché il pioniere della prima cattedra di pedagogia speciale in Italia. Purtroppo, venuto a mancare da qualche anno, il professore Canevaro ha scritto i cardini su cui poggia la pedagogia speciale, ha studiato e fatto ricerca su molti punti chiave della disabilità: in particolare proprio sul concetto di inclusione.

È intervenuto con tecniche e strategie innovative tali da diffondere tre concetti chiave: il disabile non è diverso, ma tutti siamo uomini diversi, la consapevolezza dell’assenza di giudizio, il sostegno alla disabilità e le famiglie come fulcro del suo pensiero pedagogico.
Ostacolare oggi questi studi è come buttare una “mina” su tutto quello che è stato fatto da numerosi professionisti, insegnanti di sostegno e docenti. Inoltre, tutto quello che il Consiglio di Stato Italiano ha detto non ha fatto altro che creare malcontenti, delusioni e rabbia, nonché profonde ferite che colpiscono gli animi dei ragazzi/e, gli studiosi, le istituzioni e le famiglie stesse.
Il taglio dei fondi riguarderebbe non solo la disabilità certificata, ma anche le fragilità di alcuni ragazzi/e (i DSA e i BES). In tal caso, crollerebbe l’istituzione scuola, il ruolo degli insegnanti di sostegno e le progettazioni che si organizzano (es. i Piani Educativi Individualizzati).

Le famiglie sono molto preoccupate dopo la sentenza n° 1798/2024, poiché quest’ultima non riguarderebbe solo la violazione del diritto all’istruzione degli studenti disabili, ma anche di tanti altri servizi importanti come il trasposto, la riabilitazione e le cure. Le amministrazioni certificano, così, che il diritto allo studio per i disabili vale meno degli altri, riportando-ci ad un concetto terrificate: la discriminazione. Concetto, quest’ultimo, che non deve “esistere” in una repubblica democratica come l’Italia.


Se i fondi per l’assistenza scolastica stanno finendo, non bisogna certo infierire contro le situazioni più deboli. In tal caso si vanno ad infrangere i principi della nostra Costituzione Italiana quali, la dignità, l’uguaglianza, l’inclusione e le pari opportunità.

Pertanto, diciamo NO a questi possibili “tagli” ne va della nostra reputazione personale e collettiva.

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Giovani e lavoro: sfide e opportunità nell’era post-studi

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Tra aspettative, realtà del mercato e nuove competenze: come i neolaureati affrontano l’ingresso nel mondo professionale

Il passaggio dal mondo accademico a quello lavorativo rappresenta un momento cruciale nella vita di ogni giovane. Oggi, più che mai, questo transito è caratterizzato da sfide complesse e opportunità in rapida evoluzione. L’era digitale, la globalizzazione e i cambiamenti socio-economici hanno ridisegnato il panorama professionale, creando nuove aspettative e richiedendo competenze sempre più specifiche.

Secondo recenti studi dell’ISTAT, in Italia il tasso di disoccupazione giovanile si attesta intorno al 30%, un dato allarmante che sottolinea le difficoltà incontrate dai neolaureati nel trovare un’occupazione coerente con il proprio percorso di studi. La dott.ssa Maria Rossi, sociologa del lavoro presso l’Università di Milano, commenta: “I giovani di oggi si trovano di fronte a un paradosso: sono la generazione più istruita di sempre, ma faticano a trovare la loro collocazione nel mercato del lavoro.”

Uno dei principali ostacoli è il disallineamento tra le competenze acquisite durante il percorso di studi e quelle richieste dalle aziende. Il dott. Luca Bianchi, responsabile delle risorse umane di una multinazionale, spiega: “Spesso i neolaureati hanno una solida base teorica, ma mancano di competenze pratiche e soft skills essenziali nel mondo del lavoro, come la capacità di lavorare in team, la flessibilità e la gestione dello stress.”

Per colmare questo gap, molte università stanno implementando programmi di alternanza scuola-lavoro e stage curriculari. La prof.ssa Giulia Verdi, docente di Economia all’Università di Roma, afferma: “È fondamentale creare un ponte tra il mondo accademico e quello professionale. Gli stage e i tirocini offrono agli studenti l’opportunità di mettere in pratica le loro conoscenze e di familiarizzare con le dinamiche aziendali.”

Un altro aspetto cruciale è l’orientamento professionale. Molti giovani si sentono disorientati di fronte alla molteplicità di opzioni e alla rapida evoluzione del mercato del lavoro. Il dott. Marco Neri, psicologo del lavoro, sottolinea l’importanza di un approccio proattivo: “È essenziale che i giovani inizino a riflettere sul loro futuro professionale già durante gli studi, esplorando diverse opportunità e costruendo un network di contatti.”

L’era digitale ha anche aperto nuove strade per l’autoimprenditorialità. Sempre più giovani scelgono di avviare startup o di intraprendere carriere da freelance. Andrea Russo, 28 anni, fondatore di una startup nel settore tech, racconta: “Ho deciso di creare la mia azienda perché volevo mettere in pratica le mie idee e avere un impatto diretto. È una sfida enorme, ma anche un’opportunità di crescita incredibile.”

Tuttavia, non mancano le criticità. La precarietà lavorativa e i contratti a tempo determinato sono spesso la norma per i neoassunti. La dott.ssa Laura Bianchi, esperta di politiche del lavoro, evidenzia: “C’è il rischio di creare una generazione di lavoratori perennemente precari. È necessario un intervento legislativo per tutelare i giovani e incentivare le assunzioni a tempo indeterminato.”

Le aziende, dal canto loro, stanno cercando di adattarsi alle nuove esigenze dei giovani lavoratori. Flessibilità oraria, smart working e programmi di formazione continua sono alcune delle strategie adottate per attrarre e trattenere i talenti. Il dott. Paolo Verdi, CEO di una media impresa, spiega: “Investiamo molto nella formazione e nel benessere dei nostri dipendenti. I giovani oggi cercano non solo uno stipendio, ma un ambiente di lavoro stimolante e in linea con i loro valori.”

In conclusione, l’approccio dei giovani al mondo del lavoro è caratterizzato da una miscela di entusiasmo e preoccupazione. Se da un lato ci sono sfide significative da affrontare, dall’altro le nuove generazioni hanno a disposizione strumenti e opportunità senza precedenti. La chiave per il successo sembra risiedere nella capacità di adattarsi, di apprendere continuamente e di coltivare una mentalità aperta e flessibile.

Come sottolinea la prof.ssa Verdi: “Il mondo del lavoro sta cambiando rapidamente. I giovani che riusciranno a navigare queste acque turbolente, combinando competenze tecniche, soft skills e una buona dose di resilienza, saranno quelli che tracceranno il futuro del mondo professionale.”

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Diocesi di Roma e gestione patrimoniale: scelte controverse, cambiamenti interni e accuse di “furto” [INCHIESTA #3]

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Dalla gestione ecclesiastica a quella commerciale: i timori per il futuro del patrimonio diocesano

Negli ultimi mesi, la Diocesi di Roma è stata al centro di una serie di eventi che hanno suscitato preoccupazioni riguardo alla gestione del suo vasto patrimonio immobiliare. Diverse decisioni amministrative e nomine interne hanno alimentato il dibattito tra chi teme che la struttura stia subendo cambiamenti significativi, con ripercussioni sia sul patrimonio che sui rapporti interni.

Il Caso dell’immobile sul Lungotevere

Un esempio emblematico riguarda la stipula del contratto di locazione per un immobile situato in lungotevere dei Vallati, concesso alla società “Wellington Polo Fashion s.r.l.”.

Purtroppo c’è di mezzo una presunta falsificazione degli atti

L’operazione ha sollevato numerose domande e, tra l’altro, nonostante la firma del contratto, la società non ha ancora versato il primo e il secondo canone di locazione. La situazione ha destato perplessità, considerando che è stato accordato anche uno stralcio del debito preesistente e una dilazione del pagamento in cinque anni. Ci si chiede se le condizioni stabilite siano state realmente vantaggiose per la Diocesi o se vi siano state delle leggerezze nella stipula dell’accordo.

Riunioni a porte chiuse e preoccupazioni

La mancanza di comunicazioni ufficiali ha generato un clima di incertezza. Diverse riunioni si sono susseguite, con l’intento di affrontare la questione, e sembrerebbe che alcune figure chiave stiano cercando di individuare eventuali responsabilità.

Tra i nomi coinvolti, si parla del Vicegerente Mons. Baldassare Reina, della Cancelliera Maria Teresa Romano figure di rilievo nell’amministrazione della Diocesi e anche del Notaio Carlo Cavicchioni.

Le dimissioni e le nomine

In questo contesto, un altro evento significativo è stato quello delle recenti dimissioni del dott. Davide Adiutori, unico addetto dell’Ufficio Patrimonio della Diocesi. Adiutori lascerà il suo incarico il prossimo 30 settembre, un fatto che ha alimentato ulteriori dubbi su possibili difficoltà interne nella gestione del patrimonio. Le sue dimissioni sono viste da molti come un segnale preoccupante, poiché potrebbero lasciare spazio a cambiamenti significativi nella gestione delle risorse immobiliari.
Parallelamente, è stata resa pubblica la nomina di Don Renato Tarantelli Baccari a Vicario episcopale giuridico-amministrativo, con poteri straordinari nella gestione degli enti della Diocesi. La nomina, firmata dal Santo Padre in data 24 giugno 2024, conferisce a Don Tarantelli un ruolo di grande responsabilità, oltre a diversi altri conferiti in precedenza, con l’autorità di coordinare gli ambiti giuridici e amministrativi della Diocesi di Roma.

La Diocesi di Roma potrebbe presto trasferire tutto il suo patrimonio immobiliare nelle mani dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), l’ente che gestisce i beni e le risorse economiche della Città del Vaticano. C’è anche il timore che, oltre agli immobili, il Santo Padre possa acquisire presto anche il controllo del patrimonio mobiliare (cioè i beni non immobili come titoli finanziari o denaro) della Diocesi.
Inoltre, con una logica che sembra più vicina a quella di un’impresa commerciale che a una struttura ecclesiastica, è stato deciso di smembrare il settore centro della Diocesi di Roma. Questo settore sarà suddiviso tra gli altri settori presenti a Roma, senza tener conto delle specificità e delle necessità di questa particolare e speciale realtà della Diocesi. Questo cambiamento potrebbe dare al Vicario Episcopale un maggiore controllo sugli enti che si trovano nel centro di Roma, come le rettorie e altre strutture religiose. L’obiettivo sembrerebbe essere quello di consolidare il potere e appropriarsi del patrimonio accumulato nel corso di tanti anni grazie ai contributi dei fedeli. In futuro, anche questi beni potrebbero essere trasferiti sotto la gestione diretta del Santo Padre.

Cambiamenti al vertice e riorganizzazione Interna

L’inchiesta giornalistica che sta portando avanti questo quotidiano mette in luce anche altre dinamiche interne, come la nomina di Don Alessandro Caserio a direttore dell’Ufficio Amministrativo.

Caserio, amico di lunga data di Don Tarantelli, ha assunto il ruolo dopo la partenza della dott.ssa Cristiana Odoardi, che si era precedentemente dimessa e anche lui come la Odoardi non ha competenze economiche avendo forse una laurea in architettura.

Questi spostamenti interni sollevano domande sull’effettiva indipendenza delle nomine e sui possibili conflitti di interesse.
In aggiunta, vi sono segnali di una riorganizzazione del personale all’interno del Vicariato. Alcuni dipendenti e sacerdoti che non si sono allineati con la nuova linea amministrativa sarebbero stati gradualmente allontanati, alimentando un clima di tensione tra chi teme un progressivo accentramento del potere.
Mentre la Diocesi di Roma attraversa questo periodo di cambiamenti, molti fedeli e osservatori restano in attesa di capire quali saranno le implicazioni a lungo termine delle recenti decisioni. Le domande sulla gestione del patrimonio e le dinamiche interne sollevano interrogativi che potrebbero influenzare la fiducia nella trasparenza e nell’amministrazione della Chiesa a livello locale.
Resta da vedere come si evolveranno gli eventi nei prossimi mesi e se le scelte attuate porteranno ad ulteriori divisioni all’interno della Diocesi. La gestione del patrimonio, un tema delicato e cruciale, continua a essere un argomento di grande interesse per chi segue da vicino le vicende della Chiesa romana.

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