Omicidio Lidia Macchi: rinviato a giudizio Stefano Binda

 
di Angelo Barraco

 
VARESE – Stefano Binda, accusato di aver ucciso con 29 coltellate Lidia Macchi, è stato rinviato a giudizio dal Gup di Varese. La madre della giovane massacrata il 5 gennaio del 1987 ha commentato così: “Mi auguro solo che la verità venga a galla, sono distrutta” e ha aggiunto che “In aula Binda mi ha guardata ma non ha parlato. Se è stato lui spero che prima o poi confessi. Chiedo solo che emerga la verità, ci spero fino all'ultimo”. Ricordiamo inoltre che la famiglia si è costituita Parte Civile. I difensori di Stefano Binda hanno depositato un esame calligrafico che lo scagionerebbe  e che dimostrerebbe la non compatibilità della sua scrittura con quella della persona che circa trent’anni fa ha inviato alla famiglia la lettera anonima dal titolo “In morte di un’amica”. Un elemento importante poiché uno degli elementi che inchioda Binda è proprio la scrittura del componimento che, secondo quanto sostiene l’accusa, sarebbe stato redatto dall’assassino. La consulenza calligrafica è stata acquisita dal gup e inoltre i difensori hanno presentato una nuova richiesta di scarcerazione. Il tutto ruota attorno ad alla lettera che in quei giorni concitati e di dolore di quel lontano 1987 fu recapitata alla famiglia Macchi, una lettera dai toni sinistri e precipua nella descrizione che fu resa nota anni dopo da un giornale e da quel momento si è innescata definitivamente la miccia che ha portato al consequenziale iter processuale. Determinante è stata una testimonianza di un’amica sentita il 24 luglio del 2014 “Mi colpiva la grafia in quanto da subito mi sembrava familiare così andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano e con sorpresa notavo una grande somiglianza nella grafia”, così la donna ricorda le sue impressioni confermate poi dalla perizia calligrafica. 
 
La giovane studentessa di Varese, ricordiamo, fu uccisa con 29 coltellate il 5 gennaio del 1987. L’inchiesta, ricordiamo, ha avuto una svolta il 15 gennaio scorso, poiché dopo 30 anni dal terribile delitto è stato arrestato un ex compagno di liceo di Lidia Macchi, Stefano Binda. Binda nega ogni coinvolgimento nel delitto e si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti al sostituto pg di Milano e continua a gridare la sua innocenza. Binda è imputato di omicidio volontario aggravato dai motivi abietti e futili, dalla crudeltà, dal nesso teleologico e dalla minorata difesa. Il 48enne avrebbe violentato Lidia e poi l’avrebbe uccisa. E’ descritto come un uomo colto, laureato in Filosofia e all’epoca dei fatti era ben rispettato per le sue doti intellettive. L’uomo non ha un lavoro fisso e negli anni 90 ebbe problemi di droga. Ricordiamo che nel pomeriggio del 5 gennaio 1987, Lidia Macchi andò a trovare un’amica in ospedale, si fece prestare dal padre anche 10.000 lire per la benzina. Raggiunge dopo 20 minuti l’ospedale di Cittiglio e incontra l’amica, rimanendo con lei fino alle 8.15, poi la saluta dicendo che doveva andare a  casa a cenare. Da quel momento Lidia scompare. La sua auto viene trovata il 7 gennaio in Via Filzi, il suo corpo è coperto da cartone, come se il killer avesse voluto occultarla. Uccisa con 29 coltellate e violentata. In quei giorni di dolore, giunge  casa Macchi una lettera anonima intitolata “In morte di un’amica”, dove vi sono versi come: “la morte urla contro il suo destino. Grida di orrore per essere morte: orrenda cesura strazio di carni. Perché io. Perché tu. Perché in questa notte di gelo, che le stelle son così belle, il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace”. Lidia sarebbe morta per le ferite, ma anche per l’agonia e il freddo. Il pg di Milano attribuisce questa lettera a Binda, lettera riconosciuta da un’ex amica di Binda grazie alla trasmissione tv “Quarto Grado” che ha mandato in onda alcune lettere giunte alla famiglia Macchi. In fondo alla lettera c’era un disegno che somigliava ad un’ostia, un elemento che ha fatto entrare nell’inchiesta Don Antonio Costabile, responsabile del gruppo scout che frequentava Lidia. Su di lui si era creato il sospetto in un primo momento, ma la sua posizione è stata archiviata. In questa torbida vicenda è subentrato anche Giuseppe Piccolomo, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Carla Molinari. Le figlie riferivano che l’uomo, quando erano piccole, si vantava dell’omicidio di Lidia Macchi. 
 
Spunta un’altra lettera anonima che è stata firmata “Una mamma che soffre” e che fu inviata 29 anni fa ai genitori di Lidia Macchi. La lettera è stata mandata in onda in alcune trasmissioni tv con lo scopo di aiutare gli inquirenti e di fare in modo che qualcuno, riconoscendo la calligrafia, si faccia avanti. Tale letter fu imbucata il 21 gennaio 1987 a Vercelli giunse in casa Macchi. La lettera riporta frasi relative alla registrazione di un nastro magnetico di origine paranormale che avrebbe pronunciato Lidia dopo la morte “So chi è stato ad uccidermi, è stato un mio amico di Comunione e Liberazione” prosegue “C’era anche lui quando mi hanno trovato è stato proprio lui a trovarmi ed è stato costretto a fingere un grande sgomento e dolore”. Sulla busta è stato rilevato dna femminile, che però non corrisponde a tutti i campioni ad oggi sotto analisi.