Editoriali
POTENZA, CORTE PENALE INTERNAZIONALE E SOCIETÀ CIVILE: L'INCONTRO CON IL CANCELLIERE SILVANA ARBIA
Tempo di lettura 28 minuti Silvana Arbia è la cancelliera della Corte penale internazionale alla quale fanno capo alcuni meccanismi fondamentali per il funzionamento della giustizia penale internazionale
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9 anni fail
di Domenico Leccese
Potenza – Si è tenuto a Potenza, venerdì scorso, l'importante appuntamento sul tema “Corte penale internazionale e società civile ”; che ha visto come relatrice la dottoressa Silvana Arbia, Cancelliere della Corte penale internazionale,
Silvana Arbia, dopo la laurea in giurisprudenza conseguita presso l’Università di Padova, si è specializzata in diritto europeo presso l’Accademia di Diritto Europeo di Firenze e in diritto internazionale presso l’Accademia dell’Aia di Diritto Internazionale.
Entra in magistratura alla fine degli anni 70 e percorre tutti i gradi della carriera di magistrato. Nel 1998 fa parte della delegazione italiana alla conferenza intergovernativa che adotta lo statuto della corte penale internazionale. Dal 1999 al 2007 è procuratore presso il tribunale penale internazionale per il Ruanda, dove rappresenta l’accusa in alcuni tra i casi più importanti. Al 2008 risale la sua elezione, da parte dei giudici della Corte penale internazionale, a Registrar (cancelliere) della corte stessa. In questa veste è attualmente coinvolta nel sostegno alle attività investigative e giudiziarie relative ai casi che la Corte sta attualmente trattando, tra cui il procedimento contro il presidente sudanese el Bashir, le indagini sulle violenze commesse nel 2008 in Kenia e quelle che potrebbero essere avviate nei prossimi tempi sul recente conflitto in Libia.
L'INTERVENTO DELL'ASSESSORE DEL COMUNE DI POTENZA ANNALISA PERCOCO
ESTRATTO INTERVENTO CANCELLIERE SILVANA ARBIA
Trascrizione integrale audio dell'incontro ed intervista "Corte penale internazionale e società civile: le sfide dell'equità, dell'efficienza e della credibilità"
Salve a tutte e a tutti, ben ritrovati in questa nuova realtà nel borgo antico della nostra Città per questo incontro sulla Corte penale internazionale e la società civile con un’ospite illustre: la dottoressa Silvana Arbia, cancelliere della Corte penale internazionale.
Il tema che ha presentato la dottoressa Arbia è un tema di grande interesse anche per gli studi che si fanno presso l'Università della Basilicata e per l’attività didattica delle nostre scuole superiori, ma ancora più interessante se vogliamo è proprio l’argomento scelto per questa conferenza “Corte penale internazionale e società civile ”; alcune brevi considerazioni sul tema perché la Corte penale internazionale, almeno dal mio punto di vista, nasce soprattutto grazie al ruolo svolto dalle organizzazioni della società civile: siamo nel 1995 quando viene creata la Coalizione internazionale per la Corte penale internazionale, quindi un gruppo di Ong internazionali si mettono insieme per dar vita appunto a una rete, ad un network, a una coalition con il compito di premere sui governi e sulle istituzioni internazionali per far convocare una conferenza diplomatica per l’elaborazione di uno Statuto, dello Statuto della Corte penale internazionale. E questa Coalizione lavora per circa tre anni, si rafforza aumentando il numero delle Ong che aderiscono alla Coalizione e svolgendo, come dicevo prima, una intensa, intensissima attività di lobby nei confronti dei governi e si riesce, grazie anche all’impegno di alcuni governi “Like-minded States” come si dice tecnicamente, in particolare anche del governo italiano schierato in prima fila a favore della creazione della Corte penale internazionale.
Le Organizzazioni della società civile partecipano attivamente alla conferenza di Roma, la dottoressa Arbia ha fatto parte della delegazione dell’Italia alla conferenza e quindi conosce molto meglio di me e di noi come sono andati, come sono stati trascorsi, come si è lavorato in quelle giornate molto molto intense. Ma le Organizzazioni non governative non si sono poi limitate, una volta adottato lo Statuto di Roma, così, non hanno messo i remi in barca anzi, hanno continuato a lavorare e hanno lanciato una campagna per raggiungere rapidamente il numero di ratifiche che erano necessarie affinché lo Statuto di Roma entrasse in vigore e ci voleva, e lo Statuto prevedeva, gli Stati avevano voluto che il numero delle ratifiche fosse molto alto, non mi vorrei sbagliare, sessanta ratifiche: penso che fosse stata la Convenzione internazionale che richiedeva il maggior numero di ratifiche nella storia dei trattati internazionali. E quindi tutti pensavano, gli Stati e i governanti, che lo Statuto sarebbe entrato in vigore chissà quando. In realtà, grazie ancora una volta al ruolo della società civile, lo Statuto entrò in vigore rapidamente, mi pare nel 2002 se non sbaglio. E poi ovviamente le Ong continuano a lavorare, a questo punto, per contribuire, se vogliamo usare questo verbo, all’inizio delle attività della Corte penale internazionale.
Volevo anche ricordare che lo stesso Statuto della Corte penale internazionale prevede un riferimento alle Organizzazioni non governative: l’articolo 44, al paragrafo 4 recita “La Corte può, in circostanze eccezionali, impiegare del personale messo gratuitamente a disposizione da Stati parti, Organizzazioni intergovernative o Organizzazioni non governative per aiutare qualsiasi organo della Corte nei suoi lavori. Il Procuratore può accettare questa offerta per quanto riguarda etc. etc.”. Quindi, già nello Statuo di Roma c’è un riferimento esplicito al ruolo delle Organizzazioni della società civile ma è interessante anche notare che questo riferimento noi lo trovavamo già nello Statuto del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, non so se c’era anche in quello per il Ruanda, però per l’ex Jugoslavia c’era un riferimento nello Statuto. Ed è interessante poi, sottolineare il fatto che il ruolo delle Organizzazioni non governative è entrato anche nelle regole di procedura, è vero, e anche qui c’è una regola, la numero 83, che fa riferimento esplicito alle Organizzazioni non governative, alla Coalizione etc.
voglio sottolineare che la Coalizione per la Corte penale internazionale è nata e ha potuto svolgere l’attività che ha svolto in maniera così virtuosa e così proficua grazie soprattutto al sostegno che la Coalizione ha avuto da parte della Commissione Europea. Noi in queste settimane e in questi giorni sentiamo molto criticare l’Unione Europea per altre ragioni, sulla questione della Corte penale internazionale l’Unione Europea aveva una posizione, devo dire, abbastanza chiara fin dall’inizio decise, c’è una bellissima posizione comune sulla Corte penale internazionale.
E ha sostenuto l’attività delle Organizzazione non governative, io ho un dato riguardo al periodo 1995-2002, cioè il periodo in cui la società civile ha lavorato per la creazione della Corte e in questi anni la Commissione europea ha finanziato con oltre dodici milioni di euro l’attività della Coalizione, quindi significativo è stato questo impegno della Commissione e oggi, a dir la verità fin dall’inizio, fin dal 2002, cioè da quando la Corte ha iniziato i suoi lavori funziona, all’interno del gruppo del consiglio dell’Unione competente per gli affari giuridici, una subarea dedicata alla Corte penale internazionale alla quale partecipano, ripeto: fin dall’inizio, anche i rappresentanti delle Organizzazioni non governative.
Insomma, quello che ho voluto sottolineare è che la Corte penale internazionale nasce in un contesto di civil society e quindi forti sono anche le aspettative che oggi la società civile ha nei confronti della Corte penale internazionale.
La Dottoressa Arbia ci raggiunge qui a Potenza dopo che nelle ultime settimane, mesi è stata duramente impegnata per sviluppare, contribuire allo sviluppo delle attività della Corte, in un momento particolarmente critico della Corte. Critico nel senso che si trova, la Corte penale internazionale, a fronteggiare una serie di richieste che vengono dagli Stati, che vengono dai Consigli di sicurezza, oltre che dalla normale pressione che, come abbiamo detto, proviene dalla società civile che guarda alla Corte penale internazionale come a qualcosa di più di un simbolo per la giustizia penale internazionale:
è un’istituzione che macina indagini, attività giudiziaria e attività anche, tra virgolette, diplomatica.
In tutta questa grande macchina che si impegna per la giustizia penale internazionale, per la giustizia internazionale tout court, sul fronte globale sono spesso in prima linea alcuni attori: il Procuratore naturalmente, i giudici nel momento in cui prendono delle decisioni di un certo peso e di un certo significato per chi fa giurisprudenza; dietro le quinte, e con una però rilevanza che man mano appare sempre più forte, opera anche un terzo organo, una terza struttura fondamentale della Corte (si chiama Corte ma in realtà è tutto un apparato, un tribunale esteso) che è appunto la Cancelleria.
Silvana Arbia è la cancelliera della Corte penale internazionale, la registrar, quindi ad essa e alle sue funzioni fanno capo alcuni meccanismi fondamentali per il funzionamento della giustizia penale internazionale che sono, per esempio, faccio soltanto alcuni esempi poi lei stessa entrerà nel merito, la garanzia della difesa per le persone accusate o imputate davanti alla Corte: è la cancelleria che procura loro i difensori, i collegi di difesa; la cancelleria si occupa della protezione dei testimoni e delle vittime di questi reati e vuol dire meccanismi di protezione, meccanismi che consentano a queste persone di recarsi all’Aia, incontrare il Procuratore, i suoi delegati sotto la copertura senza dover rischiare la vita una volta che rientrano a casa, situazioni di questo genere, ecco, potete immaginare quale sia l’importanza fondamentale di avere questo tipo di lavoro gestito al meglio per un’organizzazione come la Corte penale internazionale.
Poi si occupa di, come posso dire, far conoscere la Corte presso le realtà istituzionali e di società civile nei Paesi con i quali la Corte entra in rapporto, un rapporto che spesso è complesso: la Corte si inserisce negli affari di uno Stato, certo con il suo consenso, su sua richiesta in molti casi, ma mettendo il dito sulla piaga e quindi il tipo di, il modo in cui questo tipo di funzione è recepita a livello di istituzioni e a livello di società civile è fondamentale per garantire il successo stesso delle azioni di tipo investigativo e poi per garantire che le decisioni, una volta prese dai giudici, abbiano un accoglimento, un riconoscimento effettivo nel Paese, nella realtà politica dove vanno a incidere in maniera più precisa.
Silvana Arbia non è nuova a questo tipo di impegno a livello internazionale. Nasce come giudice nel nostro Paese ma, fin dalla fine degli anni ‘90 e con l’inizio di questo processo di creazione, di attivazione della Corte penale internazionale, è rapidamente coinvolta in questa dimensione della giustizia penale internazionale poco praticata nel nostro Paese, ne parlavamo prima, poco anche praticata nelle nostre aule universitarie in realtà, sia in giurisprudenza sia in altri ambiti, e dove però c’è molto bisogno di innovare, c’è bisogno di inventare in alcune circostanze.
L’Italia ha avuto dei personaggi importanti in questi anni che si sono, che hanno contribuito a disegnare la realtà del diritto penale internazionale: tutti conoscono il giudice Cassese. Silvana Arbia ha partecipato fin dalle prime fasi ai momenti di elaborazione dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, come abbiamo sentito la nostra delegazione alla conferenza di Roma del ’98 ha alle spalle una lunga attività al tribunale speciale per, al tribunale ad hoc per il Ruanda dove ha svolto delle funzioni nell’ambito della Procura e dove è stata titolare di una serie di inchieste tra le più importanti, tra le più significative, che quel tribunale ha svolto. Dopo credo 8 anni, forse più: 9 anni ecco ad Arusha e Kigali, l’incarico che le è arrivato alla Corte penale internazionale. Quindi direi che è una persona che non solo può testimoniare e raccontarci di come sia l’azione della Corte penale internazionale in questo momento, in questi mesi di fronte alle sfide che le sono poste, ma credo abbia la statura e l’esperienza adeguata per fare un discorso ancora più ampio, cioè che tiene conto del complessivo sviluppo di questa dimensione del diritto penale internazionale nella prospettiva istituzionale, ma non solo, politica dei rapporti con le realtà locali, con le realtà dei Paesi che sono in fase di transizione e che quindi vivono l’impatto con i tribunali ad hoc, con la Corte penale internazionale come un tassello del loro processo di uscita da una situazione di dittatura o di guerre civili.
Silvana Arbia: Grazie per questo invito perché, nonostante, è vero, l’attività frenetica di questi giorni a volte, quando ho ricevuto l’invito ne ho apprezzato l’entità e l’iniziativa che si colloca nel momento in cui gli Stati si sono resi conto che bisogna tener conto del dovere che gli Stati hanno di o di perseguire loro stessi e di attrezzarsi loro stessi per perseguire i crimini internazionali o di aiutarsi reciprocamente. Quindi a Kampala (anno 2010) nel momento in cui c’è stata la prima revisione, la prima conferenza di revisione dello Statuto di Roma gli Stati hanno discusso cosa fare, e dopo aver affermato che la Corte deve continuare perché sono stati soddisfatti, cosa fare? E questo, uno dei temi discussi è questo della complementarietà, cosa fare per la complementarietà.
E in una di queste risoluzioni l’esito della discussione che è stata in Kampala la risoluzione che riguarda la complementarietà, queste risoluzioni sono accessibili si trovano nei siti internet quindi per chi è interessato, e inviterei chi è interessato a leggersele perché ci sono molti spunti interessanti.
Nella risoluzione sulla complementarietà gli Stati hanno invitato gli Stati, ma non solo gli Stati ma la società civile, a fare tutto quello che si può fare, tutto quello che è possibile fare per fare in modo che gli Stati, e tutti gli Stati possibilmente, si attrezzino per indagare o per perseguire il crimine internazionale, quindi per non lasciare spazi all’impunità. Voi sapete, voi siete esperti di diritti fondamentali e questi diritti umani, diritti fondamentali della persona sono indivisibili, non si possono proteggere, ma si devono proteggere allo stesso modo perché dopo, quindi sono diritti che ineriscono al fatto che l’individuo è un essere umano, una persona umana, ha diritti universalmente riconosciuti e gli Stati e le istituzioni devono fare in modo che questa protezione, questi diritti sono indivisibili e riconosciuti come tali ed è per quello che c’è una grande azione, specie delle organizzazioni non governative, perché lo Statuto di Roma sia accettato, sia riconosciuto e quindi ci sia l’adesione di tutti gli Stati. Quindi questa vocazione all’universalità della Corte penale internazionale è legata a questa esigenza di riconoscere sullo stesso piano, lo stesso livello, la stessa protezione dei diritti fondamentali, e quindi questo impegno di Kampala che, come dicevo, coinvolge non solo gli Stati che sono impegnati a prendere delle iniziative a iniziare dei progetti, vi è anche un invito molto espresso: si parla di società civile nella risoluzione. Quindi è chiaro che si riconosce il ruolo importante della società civile,
che appunto chi ha vissuto questo iter di costruzione della Corte, sa benissimo che si deve quasi tutto alle Organizzazioni non governative: se la Corte esiste oggi lo dobbiamo in gran parte alle Organizzazioni non governative le quali sono sempre presenti nelle nostre discussioni, nelle nostre conferenze; e ormai vi è questo riconoscimento, gli Stati riconoscono che la società civile e le Organizzazioni non governative, ma la società civile in generale che lì vorrei comprendere tutto quello che l’Università anche di Basilicata può fare come contribuzione per fare in modo che le nuove generazioni crescano con queste convinzioni, con questi impegni di far progredire questa giustizia particolare.
Perché particolare?
Perché si occupa di crimini internazionali.
Questo non è una malattia endemica di alcune regioni, come la malaria o altre malattie, questo è un rischio che tutte le società, tutte le civiltà, tutte le parti del mondo possono correre e io, per quello che ho imparato nei 9 anni che ho speso a Arusha come Procuratore del genocidio che è accaduto nel ’94 in Ruanda.
In Ruanda cosa ha imparato?
Che se si vuol davvero prevenire una tragedia così grave, così, si parla di genocidio come crimine più grave, il crimine dei crimini perché in effetti lo è; se si vuol prevenire bisogna saper fin dall’inizio, quando ci sono i primi segnali di una discriminazione o di una persecuzione di un gruppo più debole, con questo mi riferisco alla convenzione sul genocidio che, ripresa pari pari negli Statuti del tribunale ad hoc della Corte penale internazionale se si vuole davvero fare qualcosa bisogna essere capaci, avere l’abilità di riconoscere i segni fin dall’inizio e di cercare di non farli sviluppare.
Questo è quello che è accaduto in Ruanda, prima del ’94 c’erano dei segni evidenti che qualcosa si stava preparando, discriminando il gruppo etnico tutsi, però questo non è stato capito, cosa che invece è stata capita benissimo e tempestivamente nelle situazioni in tempi recenti, non parliamo di che tipo di crimine, perché è troppo presto, però il grande progresso che ha segnato questa esperienza, di avere una Corte penale internazionale è di fare proprio questa comparazione tra quello che è successo per il Ruanda, e parlo del Ruanda perché lo conosco meglio, posso parlare anche dell’ ex Jugoslavia, ma un ritardo, un ritardo grave negli interventi della comunità internazionale, interventi delle Nazioni Unite che si sono, specialmente per il Ruanda, hanno cercato di trovare delle soluzioni mettendo delle differenti decisioni, differenti interventi di missioni inviate sul luogo che però sono fallite, e alla fine dopo, dopo la commissione dei crimini.
Dopo la commissione dei crimini, dopo la perpetuazione dei crimini del ’94 è stato istituito questo Tribunale speciale per perseguire il genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra commessi nell’anno 1994. Quindi un rimedio tardivo?
Un rimedio che non ha potuto sortire l’effetto che si sarebbe potuto raggiungere.
Quindi la situazione si è completamente cambiata?
Se uno considera la risoluzione sulla Libia, la risoluzione del Consiglio di sicurezza sulla Libia ha un carattere assolutamente tempestivo: se voi considerate i tempi di questa risoluzione, immediatamente si riferisce la situazione della Libia alla Corte penale internazionale.
Ci sono altre misure prese nella risoluzione?
Altri interventi, ma per la giustizia, per quello che è il progetto di evitare che il crimine, che verosimilmente è già stato commesso, che il crimine si perseveri nel futuro.
Quindi riconoscere la giustizia?
La giustizia penale internazionale questa giustizia che la Corte penale internazionale ha dimostrato di poter assicurare per il suo funzionamento,
è stato individuato immediatamente dalla comunità internazionale come rimedio e bisogna fare attenzione a questa risoluzione 1970 perché gli Stati che hanno deciso questa risoluzione comprendono anche Stati che non sono Stati parte dello Statuto di Roma, soprattutto gli Stati permanenti del Consiglio di sicurezza che esercitano una influenza molto importante,
e parlo della Cina, della Russia e degli Stati Uniti, questi tre Paesi membri del Consiglio di sicurezza hanno un diritto di veto, non solo non l’hanno esercitato per questa risoluzione, ma hanno votato questa risoluzione e gli altri membri non permanenti hanno votato unanimemente questa risoluzione.
Cosa significa tutto questo?
Questo significa che, indipendentemente dal fatto di far parte, di aderire allo Statuto di Roma, quindi di divenire uno Stato parte, oggi la Corte è riconosciuta come uno strumento che può non solo porre fine alle impunità, e questa è la grande novità della Corte penale internazionale.
In concreto qual è il ruolo della Corte penale internazionale?
La Corte penale internazionale è una Corte internazionale che si occupa di individui e che tratta gli individui allo stesso modo, quindi non riconosce più delle immunità per l’autorità degli Stati, non riconosce privilegi, non riconosce criteri differenti, quindi tutti gli individui che commettono crimini, o che si presume abbiano commesso crimini, quindi hanno di fronte al sistema della Corte penale internazionale lo stesso trattamento.
E questo è molto importante perché nei Paesi in cui prima chi soprattutto pianificava e ordinava i crimini e li giustificava perché aveva l’autorità politica di farlo che li giustificava per il bene del Paese, per la ragione di Stato o per altre ragioni, oggi questo non è più proponibile dunque qualsiasi autorità di uno Stato, se è presunto responsabile di certi crimini, crimini internazionali sui quali la corte esercita la sua competenza, deve far fronte alle stesse procedure, quindi è sottoposto alle indagini secondo le regole della Corte naturalmente, processi davanti a giudici indipendenti, giudici internazionali, e evidentemente alle sentenze della Corte penale internazionale.
Quindi un grosso progresso?
Rispetto anche a quanto è avvenuto nella prima esperienza di giustizia penale internazionale, una Corte vera e propria, quindi dove il principio di legalità è affermato perché la Corte esercita la sua competenza a partire dall’entrata in vigore dello Statuto, quindi dal 2 luglio 2002, come è stato evocato dal professor Mascia, e sui crimini quindi commessi dopo tale data, quindi non c’è una retroattività come si era sperimentata per il tribunale Ruanda, e era appunto una delle ragioni critiche dell’esistenza di questo Tribunale. Quindi la Corte non può intervenire, non può perseguire crimini commessi prima dell’entrata in vigore dello Statuto e per gli Stati che aderiscono dopo tale data, quindi da una data successiva, per i crimini commessi nei territori di questi Stati dopo la data di adesione o a meno che lo Stato accetti che la giurisprudenza, la competenza si esercitino retrodatandoli al 2 luglio 2002. Una corte vera e propria con crimini in cui elementi son ben delineati e gli elementi dei crimini sono stati stabiliti dagli Stati parte, quindi dal legislatore e la stessa cosa per il regolamento di procedura e di prova che è stato elaborato dagli Stati parte e non dai giudici come invece è accaduto per i tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda.
L’altro cardine di questa, comunque novità, di questa Corte penale internazionale qual è?
La novità è che per la prima volta a livello interazionale, a livello nazionale sappiamo che esiste, ma a livello internazionale è finalmente riconosciuto il diritto delle vittime di questi crimini internazionali sui quali la Corte esercita la sua competenza, richiama ancora una volta il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra e, quando sarà il momento, il crimine di aggressione, quando il numero sufficiente di adesioni degli Stati che aderiranno a questo emendamento di Kampala dell’anno scorso probabilmente ci sarà anche la possibilità di perseguire l’aggressione ma, per il momento, ci occupiamo di questi crimini, o meglio, tre categorie di crimini, e quindi le vittime di questi crimini sono, hanno il diritto, questo ancora una volta questo diritto ad accedere a questo tipo di giustizia è stato affermato non solo dallo Statuto di Roma ma è stato ancora più enfatizzato dalla Conferenza di revisione di Kampala dell’anno scorso quindi è un diritto, un diritto delle vittime di partecipare nei procedimenti davanti alla Corte penale internazionale.
Cosa significa partecipare?
Qui per chi vuole, per essere precisi dal punto di vista procedurale e giuridico, le parti del processo sono l’accusa e la difesa mentre le vittime hanno il ruolo di partecipanti quindi non hanno spesso un ruolo nel processo, nelle parti del processo. Però partecipano, quindi è un loro diritto accedere, partecipare, fare domanda di partecipare, e la domanda sarà esaminata dai giudici e se sono ammesse queste vittime hanno diritto di partecipare.
Cosa significa?
Che hanno diritto a essere rappresentati da avvocati nei procedimenti davanti alla Corte. Questo diritto è molto ampio e ci sono nello Statuto, nelle regole di procedura e di prova delle definizioni molto precise sull’ambito, sull’estensione di questa partecipazione.
E cosa significa?
E lì bisogna far riferimento alla giurisprudenza, che già è numerosissima nonostante i pochi anni di funzionamento della Corte.
E cosa si intende per partecipare?
Cosa può fare un avvocato che rappresenta le vittime, in quali limiti puoi interrogare i testimoni dell’accusa o della difesa e altri argomenti, su quali questioni. E lì, posso dire, se si considera la giurisprudenza finora della Corte, l’interpretazione della Corte è piuttosto larga, piuttosto liberale nell’ammettere sempre i legali, gli avvocati delle vittime a rappresentare i loro argomenti. E questo è stato anche autorizzato, e questa è anche una cosa molto particolare, nelle discussioni sulla libertà provvisoria che si può pensare sia una cosa che riguardi solamente l’imputato ma anche nella discussione sulla libertà provvisoria dell’imputato il giudice ha ammesso gli avvocati delle vittime a rappresentare i loro argomenti. E questo, se c’è una curiosità su quale argomento, se si può presentare un argomento che l’imputato se libero potrebbe mettere a rischio la vita o la sicurezza dei testimoni, questo è uno degli argomenti molto frequenti.
Ecco, quindi c’è una larga interpretazione su come intendere la partecipazione?
Poi c’è questa prospettiva di questa partecipazione perché ci sono due aspetti: la partecipazione in sé, quindi la vittima può chiedere solo di partecipare; o può chiedere di partecipare e ottenere la riparazione se l’imputato sarà condannato, sarà riconosciuto colpevole.
Qual è la situazione attuale?
Oggi la Corte non ha ancora concluso alcun processo e sappiamo che il primo processo che è il processo contro crimini, i crimini di questo processo sono molto particolari: sono il reclutamento di bambini soldato quindi è un crimine di guerra che è oggetto di questo processo e sappiamo adesso che la data per la conclusione di questo processo sarà quest’anno, quest’estate, ad agosto, quindi recentemente la data è stata fissata.
Se dopo, quando il giudice delibererà o non troverà da qualche parte i responsabili dei crimini di cui è stato imputato ci sarà un’altra fase separata?
La fase della riparazione, dove i giudici difenderanno le ragioni, gli argomenti delle vittime, e quindi dei loro avvocati, sulla riparazione.
Qui c’è un’area che è completamente nuova dove il Tribunale non può sostenere alcun precedente e dove, ancora una volta, la società civile è chiamata a dare un grande contributo e noi alla Corte organizziamo dei seminari e invitiamo ovviamente le organizzazioni non governative o dei gruppi che sono esperti nella materia, specie in materia della riparazione delle vittime: cosa, che tipo di danno la vittima in questi contesti, che tipo di basi, di conflitti, di atrocità indescrivibili, cosa, quale è la riparazione adatta per questi danni morali o fisici delle vittime, molte vittime?
Perché oggi, dopo pochissimi anni di funzionamento della Corte, registriamo più di 4000 domande di persone vittime che ci chiedono di esser messe a partecipare e abbiamo più di 2000 di queste domande accolte, quindi più di 2000 vittime partecipano oggi ai processi davanti alla Corte.
Quindi, che tipo di riparazione i giudici determineranno?
Qui c’è l’impegno e la Corte chiama, chiama e chiede il contributo di diversi esperti, non solo giuristi, non solo persone esperte in cosa significa il nesso di causalità tra il danno subito o qual è la conseguenza dal punto di visto giuridico, ma anche esperti nella materia della biologia, della psicologia, della psichiatria che è molto vicina a questo tipo di danni psicologici di vittime, di persone traumatizzate probabilmente per sempre: nei casi del Ruanda ricordo che il problema era proprio questo: noi procuratori chiamavamo i testimoni, i testimoni prendevano questa decisione così difficile di testimoniare: anche se protetti c’era sempre il rischio che rimaneva, un rischio residuale, decidevano di testimoniare ma poi non c’era niente per loro, cioè non c’era la possibilità per loro di chiedere di essere ammessi a partecipare come vittime e di ottenere probabilmente la riparazione. Avrebbero dovuto utilizzare una sentenza di condanna emessa dal Tribunale penale internazionale per il Ruanda, e andare in Ruanda dal giudice ruandese, cosa che non è mai avvenuta perché ovviamente queste vittime sono in situazioni molto difficili.
Quindi rappresentanza di queste vittime da avvocati?
Avvocatimche sono avvocati ammessi nella stessa lista di cui è responsabile il registrar, quindi io, e con gli stessi requisiti non c’è differenza di qualità o di livello professionale fra gli avvocati che difendono gli interessi dell’imputato e gli avvocati che difendono gli interessi delle vittime.
Questa lista è una lista che è appunto tenuta dal registrar e quindi ogni avvocato che ha i requisiti può chiedere di essere ammesso e quindi viene esaminato il suo dossier e viene ammesso o non ammesso.
Poi però la scelta spetta all’imputato, e rispettivamente alla vittima e quindi il diritto a scegliersi il proprio difensore è un diritto ben preciso nel nostro Statuto e Regolamento di procedura.
Si può dire: ma queste vittime o imputati che non hanno i mezzi per, appunto, poter avere una difesa adeguata?
C’è un sistema molto ben articolato dalla Corte, secondo il quale il registrar, ancora una volta, decide se è una persona indigente dopo aver fatto delle indagini sulla situazione finanziaria su queste persone decide se deve dichiararlo indigente o meno.
Questa decisione è appellabile?
Questa decisione è appellabile però davanti alla Presidenza della Corte, quindi è un ruolo questo, quello del registrar sulla difesa, molto importante non solo ma, una volta che ha ammesso l’avvocato nella lista, una volta che ha dichiarato indigenza, il registrar deve anche riconoscere delle risorse sufficienti alla difesa perché la difesa sia adeguata.
La stessa cosa ovviamente per le persone che devono assistere, per i legali che devono assistere le vittime ammesse a partecipare ai procedimenti.
Difesa quindi si parla di più alto standard di qualità.
Questo è l’obiettivo che la Corte si è posta nella sua strategia: il più alto standard in modo da assicurare l’effettivo processo equo, o fair trial e quindi cosa significa questo?
Che non solo la Corte può riconoscere liberamente i diritti, i diritti fondamentali universalmente riconosciuti, ma mette molta enfasi sul fair trial, quindi sul processo equo.
Cos’è un processo equo?
Molti diritti fanno parte di questa espressione “processo equo”, ma prima di tutto una difesa adeguata e la Corte si è dato carico, quindi il registrar si è dato carico di fare, di organizzare ogni anno dei training per gli avvocati; perché un avvocato a livello nazionale può esser molto esperto però è chiaro che quando ha a che fare con un sistema così complicato come il sistema della Corte, processuale e sostanziale, non è facile anche per un avvocato esperto di essere pronto a difendere gli interessi delle parti nei processi in corso.
Quindi il training per gli avvocati, per chi è interessato, gli avvocati possono iscriversi a questo training che viene finanziato dalla Commissione Europea, quindi ogni anno c’è questa opportunità di queste formazioni continue per gli avvocati?
Non solo, ma gli avvocati ricevono anche un’assistenza di uffici, li chiamiamo gli uffici pubblici di difesa, quindi per la difesa e per le vittime. Sono due uffici dove ci sono dei funzionari della Corte che devono assistere gli avvocati esterni: quindi fornire la giurisprudenza, aiutarli nelle questioni che sono state già decise, sulle quali ci sono già precedenti, quindi è un’assistenza ulteriore che si aggiunge in modo da consentire a questi avvocati di fare il meglio possibile il loro dovere di rappresentare sia la difesa che le vittime.
Questo processo equo naturalmente non si limita alla difesa?
Tutto il sistema della Corte ruota intorno a questo fair trial e anche i diritti delle vittime che sono così solennemente consacrati nello Statuto di Roma, quindi questa partecipazione delle vittime, riparazione delle vittime, protezione e assistenza trova sempre un limite.
Tutto questo sistema di protezione delle vittime trova sempre il limite della incompatibilità con il processo equo, quindi fuori dal processo, davanti alla Corte, e a livello nazionali la difesa dei diritti, i diritti dell’imputato che sono indicati nello Statuto, che sono sviluppati nel Regolamento di procedura e di prova, e dalla pratica della Corte, e questo è molto importante per la giurisprudenza della Corte, sono stati interpretati secondo anche, facendo riferimento anche a quello che è il riconoscimento, ormai ben consolidato da parte di Corti deputate a definire che cosa significa questo processo equo.
Quindi è un esempio evidente?
Quando il primo processo contro il Ruanda è cominciato nel 2008, nel giugno 2008 è stato immediatamente subito sospeso.
Perché è stato sospeso?
Perché il Procuratore non era all’epoca in grado di fare una valutazione completa di tutti gli elementi che aveva in suo possesso alla difesa.
E il collegio, nonostante il processo fosse guidato, nonostante il processo fosse iniziato, ci fosse già un piano del processo, ha disatteso naturalmente le ragioni del procuratore e ha sospeso il processo.
Quindi, finché il procuratore non è stato in grado di divulgare alla difesa tutti gli elementi, il processo non è continuato?
Questo è uno, ma un altro esempio è il caso del Bemba, quindi Bemba è il caso di un imputato di grande livello perché lui è il vicepresidente della Repubblica democratica del Congo, quindi un imputato eccellente se possiamo dire, e a cui non mancano le risorse finanziarie, quindi le nostre inchieste finanziarie ci dicevano che appunto questa persona non può essere indigente mentre questa persona aveva chiesto di esser dichiarato indigente perfino è offensivo, per uno come lui, essere dichiarato indigente; quindi secondo i criteri della Corte, la Corte non doveva pagare l’onorario agli avvocati, non doveva dare delle risorse agli avvocati eccetera, però siccome c’erano dei problemi di liquidità finanziaria di Bemba, che aveva un sacco di beni però non a sua disposizione, gli avvocati avevano quasi dichiarato di rinunciare al mandato.
Quindi la Corte ha immediatamente deciso che nonostante non fosse indigente, nonostante ci fossero delle risorse bisognava appunto anticipare, questa è una cosa molto strana dal punto di vista giuridico: anticipare le spese di difesa e con la possibilità di vedere, di recuperare dopo?
Ecco quindi, questo però sempre basandosi sul principio, come dicevo, che sta a cuore del processo penale, del diritto di difesa.
Quindi non c’è nessuna possibilità di derogare o di limitare questo diritto di difesa. Naturalmente questo ha riflessi nelle condizioni di detenzione, per cui ancora una volta il registrar è responsabile delle condizioni di detenzione degli imputati detenuti, quindi deve fare, deve organizzare tutto in modo che l’accordo con lo Stato ospite, quindi per la detenzione preventiva gli imputati rimangono in queste celle di detenzione all’Aia e se sono poi condannati devono essere trasferiti verso Paesi che hanno l’accordo, che hanno firmato un accordo con la Corte penale internazionale per i fini appunto di esecuzione delle pene.
Quindi questi detenuti che sono oggi all’Aia e che sono persone che vengono da Paesi molto lontani dall’Europa e che hanno le loro culture, le loro tradizioni, le loro abitudini, bisogna stare attenti a fare in modo che questa loro condizione di detenzione non violi quelli che seppure nei fatti, negli aspetti pratici, dà la presunzione di innocenza?
Quindi bisogna che il trattamento riservato a queste persone sia adeguato e assicuri che i diritti di questi detenuti siano completamente protetti.
Quindi dare tutte le condizioni necessarie e applicare se è il caso questa giurisprudenza questi strumenti normativi convenzionali per i diritti umani, i diritti fondamentali della persona universalmente riconosciuti.
Quindi questo profilo, questi aspetti dei diritti della persona universalmente riconosciuti non solo è scritto nell’articolo 21 dello Statuto, come fonte di diritto della Corte, del sistema della Corte, quindi si applica lo Statuto, il Regolamento di procedura e i principi che riguardono i diritti fondamentali universalmente riconosciuti nel caso in cui non ci siano altre fonti.
Quindi è scritto espressamente nello Statuto, è applicato nella nostra vita quotidiana anche quando incontriamo un testimone, quando dobbiamo proteggere un testimone o se del caso, perché il rischio è così alto da suggerire al registrar di dover addirittura trasferire il testimone con tutta la famiglia da un remoto paese (le nostre situazioni sono in Africa) fino anche in Norvegia.
Questo è un altro trauma che si aggiunge a questi testimoni e vittime dovute proprio a questa terribile, a questo terribile cambiamento nella loro vita?
Quindi trattare le persone anche rispettando la loro dignità e questo, dicevo all’inizio, è una fonte che ha a che fare con individui imputati, con individui testimoni, con individui vittime come altri individui, quindi questo è l’interesse di questa Corte, una Corte complessa perché non fa solo processi penali ma ha a che fare con individui in queste diverse situazioni e deve tener conto, e deve assicurare al più moderno livello, al più sviluppato livello, questi diritti della persona che universalmente sono riconosciuti.
La sfida che l’Unione Europea può e deve esercitare?
La sfida certamente copre tutte le attività della Corte, perché non solo la Corte è nuova, ma la Corte è complicata, non è facilmente accessibile a chi non ha una formazione particolare quindi richiede una conoscenza approfondita perchè prima di tutto la Corte è un trattato, è basata su un trattato, lo Statuto di Roma è un trattato quindi bisogna tenerne conto, non è qualcosa di diverso: è un trattato, quindi è soggetto a tutte le norme di diritto internazionale sui trattati multilaterali, quindi quando c’è una modifica dello Statuto di Roma questa modifica è come una modifica di qualsiasi altro trattato multilaterale. Il fatto che la Corte non ha propri mezzi, quindi non ha un’autorità di esecuzione delle decisioni, questo può sembrare un limite ed è un limite in effetti ma dal mio punto di vista, la mia osservazione è la chance di questo sistema.
Perché?
Perché la Corte è complementare, questa è la definizione dello Statuto di Roma, quindi la giurisdizione della Corte è di competenza alle giurisdizioni nazionali quindi la Corte interviene quando lo Stato, che è competente a perseguire i crimini internazionali di competenza della Corte, non può perché non ha i mezzi, perché non ha una situazione adeguata o perché le istituzioni non funzionano, magari perché c’è una guerra o un conflitto in atto o non c’è l’indipendenza del giudice, questo è un problema molto serio quindi ci sono i giudici in uno Stato, però non sono indipendenti quindi non potrebbero mai assicurare un esercizio giurisdizionale penale indipendente come necessario.
Quindi non può, c’è un’incapacità, un’impossibilità?
Questa impossibilità potrebbe esistere anche per il fatto che in un sistema, anche in un sistema ben composto come non so, il sistema italiano, il sistema di un Paese che ha alle spalle secoli di tradizioni giuridiche, potrebbe essere il caso di un Paese simile non abbia incluso nel proprio diritto penale sostanziale i crimini internazionali e quindi l’incapacità di perseguire i crimini internazionali, incapacità istituzionali o altri tipi: una mancanza di formazione dei giuristi, dei magistrati, degli avvocati, quindi una mancanza.
Quell’altra ipotesi è la non volontà: uno Stato può perseguire i crimini internazionali ma non vuole per ragioni politiche o per altre ragioni.
Quindi in queste due situazioni è la Corte che può, è legittimata a esercitare l’azione penale, a fare delle indagini, a fare i processi però rimane questo problema, cioè la Corte ha questa autorità ma non ha l’autorità di eseguire direttamente le proprie decisioni, quindi i mandati di arresto che la Corte emette hanno bisogno della protezione degli Stati perché siano eseguiti.
Le altre decisioni della Corte?
Parlavo prima dell’esecuzione della pena, l’esecuzione della pena non può avvenire nel centro di detenzione all’Aia che serve per la detenzione preventiva quindi deve avvenire in uno Stato che accetti di far espiare la pena a un condannato per la Corte penale internazionale quando sarà il momento; quindi questo sembra ed è un limite però bisogna vederlo in una prospettiva positiva. Questa, il dovere degli Stati di perseguire i crimini internazionali è anch’esso un dovere ben preciso, un obbligo ben preciso, e il fatto che la corte non ha la polizia, non ha un’autorità appunto di polizia in grado di far eseguire le decisioni, un’autorità esecutiva, è molto positivo a mio avviso.
Perché?
Perché questo tipo di giustizia deve vedere, deve essere una integrazione, abbiamo bisogno di due giurisdizioni, non è possibile che una sola agisca.
Quindi la complementarietà ha anche questo senso, le due dimensioni, le due autorità devono dialogare, devono fare in modo che il risultato sia il migliore?
Però la realtà naturalmente è difficile: la cooperazione è molto difficile, voi sapete che i mandati di arresto sono importanti e non sono eseguiti, come il Presidente Al-Bashir e molti altri mandati.
A volte la difficoltà delle indagini, perché se nel Paese gli investigatori si recano nel Paese e le autorità non collaborano anche questo è un grosso limite.
Cosa avverrà quando la Corte lascerà una situazione?
Di questo bisogna anche tener conto, cioè la Corte non può rimanere permanentemente a trattare il Congo, a trattare il Kenya o a trattare le altre situazioni di crisi, in un certo momento dovrà completare il suo lavoro l’istituzione.
Cosa accadrà se non c’è una preparazione nella giurisdizione nazionale in modo che la giurisdizione nazionale continui, possa continuare il lavoro della Corte?
Questi sono problemi chiave delle sfide che si profilano molto grossi, molto gradi, molto seri sui quali bisogna ancora una volta contare molto sulla società civile. Se uno va in questi Paesi vede che ci sono dei progetti molto importanti per le organizzazioni non governative, per i gruppi che lavorano molto sullo Stato di diritto quindi aiutare le autorità, le istituzioni nazionali a raggiungere un livello adeguato che ne riconosca soprattutto il fair trial,
che sta sempre a cuore di ogni sistema giudiziario che riguarda i crimini, quindi internazionali, quindi il processo equo, questo che ha fatto partire, questo lo devo dire, il progetto per il Tribunale internazionale del Ruanda, di trasferire alcuni casi verso la giurisdizione nazionale.
Il tribunale per l’ex Jugoslavia ha, con successo, trasferito alcuni casi di cui la Corte e il Tribunale internazionale non poteva occuparsi.
Questo col Ruanda non è accaduto perché?
Nonostante il Ruanda avesse fatto molto perché il Ruanda aveva adottato molte riforme del sistema giudiziario, del sistema giuridico nazionale proprio per essere preparato su questo e ha abolito la pena di morte, questo è uno dei risultati indiretti del Tribunale internazionale.
Nonostante tutte queste modifiche e questi sviluppi, però, i giudici del Tribunale penale internazionale per il Ruanda hanno ritenuto non pronto il Ruanda ad assicurare il fair trial, quindi hanno detto: “non possiamo trasferire i casi verso il Ruanda”. Quindi le due giurisdizioni devono essere, devono dialogare, devono complementarsi, e il ruolo della società civile, e parlavo dei progetti di rule of law (stato di diritto), ma molti altri progetti, quando si disfano questi Paesi c’è una presenza importante delle Organizzazioni non governative, che noi consultiamo, questo bisogna tenerlo presente, quando noi affrontiamo progetti nuovi ci riuniamo anche con Organizzazioni non governative, specialmente con la Coalizione di cui parlavamo, che è una Coalizione di molte Organizzazioni non governative che dedica molto alla Corte, segue la Corte molto da vicino.
Quindi i loro consigli, i loro suggerimenti, le loro esperienze per Voi sono preziose?
Molto prezioso è naturalmente il fatto che queste Organizzazioni lavorano sul terreno, quindi non è che lavorano a New York soltanto o all’Aia soltanto, sono lì, presenti nel territorio.
E anche la Corte è presente nel territorio, questa è un’altra area di cui mi occupo come registrar, quindi noi abbiamo degli uffici, i field offices, quindi in ogni situazione ci sono degli uffici, c’è una presenza della Corte, che deve assicurare e facilitare tutte le operazioni, io parlavo di indagine, protezione dei testimoni, partecipazione delle vittime, ed altro, quindi presenza sul terreno, e in queste occasioni vediamo come possiamo lavorare, consultare e cooperare con le Organizzazioni non governative.
Spesso prima che noi possiamo fare un’analisi della situazione, sono loro che possono suggerire, che possono mandare delle informazioni, anche al Procuratore a livello di esame preliminare.
Quindi un ruolo attivo, un ruolo presente?
Un ruolo che è richiesto, e c’è anche un altro aspetto della società civile, che è un’altra sfida per noi, ed è il cosiddetto ruolo di intermediazione.
Io quando sono arrivata alla Corte non conoscevo questo ruolo, perché nei tribunali ad hoc non era riconosciuto, o comunque non conosciuto, e invece già in alcune decisioni della Corte penale internazionale si parlava degli intermediari.
Ma cosa sono questi intermediari?
Uno che è un po’ abituato alla giustizia già la parola intermediario pone delle domande, invece lì ho trovato che c’era già in alcune decisioni dei giudici un riconoscimento dell’intermediario.
Chi è l’intermediario per Voi?
E’ un rappresentante, un individuo delle Organizzazioni non governative, che sono scelti per la loro affidabilità, per il loro valore, per la loro competenza, e che aiutano, ed è questa la realtà, aiutano la Corte, in alcune operazioni molto precise, parlavo prima di protezione ai testimoni, di identificazione di vittime che vogliono partecipare, di altre attività che la Corte deve istituzionalmente fare e si serve di questi intermediari.
Perché si serve di questi intermediari?
Perché la Corte non ha le capacità sue di fare questo, perché non riesce ad essere così vicina alle persone, come riescono le Organizzazioni non governative. Quindi è entrata nel sistema della Corte la figura dell’intermediario, e io ho ricevuto subito lettere, subito dopo l’inizio del mio mandato, di questi intermediari dicendo: “faccia qualcosa per riconoscerci uno status, riconoscerci una sicurezza, riconoscerci altri posti” .
E quindi è un problema che mi è arrivato sul tavolo, e io ho dovuto affrontarlo naturalmente, e l’ho affrontato: ho lanciato uno studio, un’analisi dove durante quest’analisi ho anche fatto delle consultazioni con le Organizzazioni non governative. Questo studio dovrebbe concludersi molto presto, perché non possiamo lasciare il problema aperto, e vedremo cosa sarà, quello che sarà la conclusione per la Corte, in che modi, in che termini, in che limiti, riconosceremo l’intermediario.
E chi è l’intermediario?
Una definizione e quale sarà il riconoscimento che la Corte può attribuirgli. Quindi questo è molto importante per il ruolo della società civile, che non solo è in generale importante, ma è proprio nelle operazioni della Corte che interviene e interviene attivamente e bisogna appunto regolare.
Chiaramente chi è interessato vedrà, quando avremo il rapporto, la conclusione del rapporto, questo rapporto sarà accessibile, sarà messo a disposizione del pubblico che sarà interessato, a questo problema degli intermediari.
Chiaramente uno dei più grandi, dei più difficili temi è come fare, come può un gruppo che lavora all’Aia, quindi i funzionari, gli officials, siamo tutti all’Aia, la sede è all’Aia.
Quindi come dobbiamo fare?
Dobbiamo fare in modo che questa giustizia che si fa all’Aia, questi processi, queste operazioni, sia prima di tutto conosciuta, riconosciuta.
E comunque quello che è più importante è che sia sentita, sia riconosciuta come la giustizia del Congo, la giustizia del Kenya, la giustizia della Libia domani, quindi questo è un grosso, grosso problema, come avvicinare la giustizia, che è una giustizia internazionale, quindi che direttamente riguarda questi Paesi dove la giurisdizione si esercita, e come fare in modo che le popolazioni di questi Paesi la sentano come giudice naturale, se possiamo dire i criteri che usiamo quando parliamo della giurisdizione nazionale.
Quindi una distanza non solo materiale, non solo geografica, ma una distanza enorme perché chiaramente i giudici della Corte non sono i giudici di quel Paese, non hanno il sistema, non applicano il sistema di quel Paese, quindi è una cosa molto strana, quindi come far capire alla popolazione che noi chiamiamo gli affected, tutte quelle che sono le affected population, come far capire che noi stiamo lavorando per loro, che siamo i loro giudici, i loro funzionari, i loro registrars, la loro giustizia. E questo è difficilissimo perché chiaramente la Corte, la prima considerazione è se queste popolazioni possono vedere nella Corte come un’intrusione nel loro contesto, qualcosa di estraneo, qualcosa che è incomprensibile, qualcosa che parla inglese e francese e non parla il linguaggio invece che è conosciuto da queste popolazioni.
Anche questo è un limite?
Quindi si parla di limite, si parla di sensibilizzazione, si parla di stabilire il dialogo tra la Corte e queste popolazioni.
E questo, nonostante le difficoltà che ci sono, bisogna riconoscere che in questi anni di esperienza hanno dato dei buoni risultati.
E quindi chiaramente anche ancora una volta lì le Organizzazioni non governative aiutano, consigliano e si implicano loro stesse in questi progetti. E io sono rimasta sorpresa quando sono andata in Africa, in uno dei villaggi dove si sono appunto creati degli eventi sui quali i processi contro, si stanno svolgendo, e sono rimasta sorpresa quando una persona che non aveva mai avuto possibilità di avere un’istruzione parlava di genocidio come una persona normale, parlava dell’Aia.
Quindi evidentemente lì i funzionari avevano fatto un buon lavoro?
Chiaramente è una sfida continua, una sfida quotidiana, perché non sempre si può riuscire ad ottenere lo stesso risultato.
Ma è questo che è lo scopo, lo scopo dello scopo della sensibilizzazione,
è quello di fare in modo che questa giustizia che è vero è internazionale e tutto il mondo dovrebbe beneficiarne, ma soprattutto e in primo luogo i diretti beneficiari devono essere queste popolazioni, di queste situazioni.
E chiaramente abbiamo a che fare con l’altro problema politico dei non africani, che è ancora molto distante dalla Corte, è molto ostile alla Corte e c’è questo concetto che la Corte mira, che la Corte quasi veda solo l’Africa come un Paese che produce criminali e crimine e quindi è un’idea un po’ occidentale, è un progetto un po’ occidentale di Corte.
E come superare questo ostacolo politico?
Ma anche di non conoscenza, perché tutto proviene da una mancata, o non adeguata quantomeno, conoscenza della Corte in questo sistema regionale dell’Unione Africana, che è molto importante, molto moderno.
E come fare?
E lì ancora siamo ancora un po’ troppo lontani da questo risultato perché anni fa l’assemblea degli Stati parte aveva deciso di istituire un bureau de maison in Addis Abeba per fare in modo che la Corte possa avere un dialogo più facile, uno scambio più facile con le autorità che si riescano a risolvere questa commissione dell’Unione Africana.
Però chiaramente le autorità etiopiche non ce l’hanno permesso, le africane non ce l’hanno permesso e quindi questo progetto per il momento è rimasto un po’ congelato e dobbiamo cercare però di arrivarci. Questi recenti sviluppi della Corte anche lì, lì diventano dei successi, abbiamo parlato della Libia come è successo per il Diritto internazionale perché lì il Consiglio di sicurezza è riuscito immediatamente a intravedere nella Corte uno strumento, e questo è molto importante.
E ha chiamato tutti gli Stati a cooperare con questa Corte?
Ma nello stesso tempo c’è questo problema di, dell’Africa, del fatto che è vero che la Corte oggi in tutte queste azioni che sta facendo rimane nei Paesi africani. Come fa a capire che secondo il mio punto di vista, quello che sto vedendo e lavorando è nascosto in Africa perché tutti i progetti che la Corte fa, di informazione sulla Corte, di training sulla Corte, di protezione di vittime, di assistenza delle vittime, di vedere anche, di determinare dei precedenti su questa riparazione, si fa, tutti questi precedenti della giurisprudenza e dell’esperienza della Corte che si fanno con questi africani, dove avvocati africani, turisti africani davano i loro contributi.
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Editoriali
“Fuori dal Coro”, Mario Giordano: accuse e disinformazione, tra “ladri di salute” e realtà distorta
Pubblicato
5 giorni fail
11 Ottobre 2024
La trasmissione di Rete4 punta il dito sulle liste d’attesa con tagli e montaggi che distorcono la realtà dando poco spazio alle spiegazioni sulle cause strutturali e storiche di questo problema
Le liste d’attesa sanitarie nella regione Lazio rappresentano da anni una delle maggiori sfide per i cittadini e le istituzioni. Problemi come i lunghi tempi di attesa per visite specialistiche e interventi chirurgici affliggono il sistema sanitario da decenni, ereditati da diverse amministrazioni regionali. Negli ultimi mesi, tuttavia, la trasmissione Fuori dal Coro, condotta da Mario Giordano su Rete4, ha acceso i riflettori sul tema, con servizi che spesso sembrano puntare il dito contro l’attuale governatore Francesco Rocca e i dirigenti delle ASL.
La narrazione mediatica proposta dal programma sembra suggerire che la responsabilità delle inefficienze sia interamente da attribuire alla giunta Rocca, ignorando la complessità storica e sistemica del problema.
La campagna mediatica di Fuori dal Coro
La trasmissione di Giordano, Fuori dal Coro, è nota per il suo stile provocatorio e per servizi che mirano a denunciare inefficienze e disservizi in vari settori della vita pubblica italiana. Negli ultimi tempi, il programma ha rivolto un’attenzione particolare alla sanità del Lazio, accusando il sistema di essere gestito da “ladri di salute”. Giordano, con i suoi servizi taglienti, ha puntato il dito contro la gestione delle liste d’attesa e il ruolo delle ASL, alimentando polemiche sulla responsabilità del governatore Rocca e delle amministrazioni locali nel garantire un servizio sanitario efficiente utilizzando filmati montati ad arte per evidenziare episodi di presunta incompetenza o scarsa trasparenza da parte dei dirigenti delle ASL. Questi servizi, sebbene utili per accendere il dibattito pubblico, rischiano di presentare un quadro distorto della realtà, facendo sembrare che il problema delle liste d’attesa sia frutto esclusivo dell’attuale amministrazione. Gli spezzoni video presentati, tagliati e cuciti ad arte, non offrono sempre un quadro completo delle azioni e delle iniziative messe in campo per risolvere un problema così complesso. Rocca e le ASL regionali vengono spesso messi in ridicolo, attraverso un montaggio selettivo che dà poco spazio alle spiegazioni sulle cause strutturali e storiche di questo problema.
Un problema di lungo corso: le cause storiche delle liste d’attesa
La questione delle liste d’attesa nel Lazio ha radici profonde, e risale a molto prima della gestione di Rocca. Secondo i dati forniti dall’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), la Regione Lazio si è trovata negli ultimi 10 anni a fronteggiare un aumento costante delle richieste di prestazioni sanitarie. Questo è avvenuto in un contesto di scarsità di risorse, con un personale sanitario insufficiente rispetto al fabbisogno, strutture ospedaliere spesso sovraccariche e difficoltà nel gestire in modo efficiente il sistema delle prenotazioni.
Le precedenti amministrazioni regionali hanno tentato varie riforme per affrontare il problema, ma con risultati alterni. Nel 2019, sotto la giunta Zingaretti, il Lazio era già tra le regioni con le più lunghe liste d’attesa in Italia, con pazienti costretti ad attendere mesi, se non anni, per accedere a esami diagnostici e visite specialistiche .
Gli sforzi della giunta Rocca per ridurre i tempi
Dal suo insediamento, Francesco Rocca ha reso le liste d’attesa una priorità per la sua amministrazione. Il governatore, insieme agli assessori competenti, ha avviato un piano di riorganizzazione del sistema sanitario regionale che mira a ridurre significativamente i tempi di attesa. Uno dei punti chiave è l’incremento delle risorse destinate all’assunzione di nuovo personale sanitario e all’implementazione di sistemi digitali più efficaci per la gestione delle prenotazioni.
Un passo importante è stato l’avvio della piattaforma Recup, il sistema unico regionale per le prenotazioni di visite ed esami, che dovrebbe rendere più trasparente e immediata la gestione delle richieste. Inoltre, la giunta Rocca ha stanziato fondi per migliorare l’infrastruttura tecnologica degli ospedali, con l’obiettivo di abbattere le inefficienze burocratiche che spesso causano ritardi nelle prestazioni sanitarie.
Nonostante questi sforzi, il sistema sanitario del Lazio si trova ancora in una fase di transizione, e ci vorrà del tempo prima che le riforme possano produrre risultati tangibili. Le criticità attuali, infatti, sono l’eredità di anni di mancati investimenti e tagli alla sanità, e non possono essere risolte nell’arco di pochi mesi.
Il ruolo delle ASL e il problema della comunicazione
Un altro punto sollevato da Fuori dal Coro riguarda i dirigenti delle ASL, spesso accusati di essere poco trasparenti o addirittura di boicottare le riforme. Tuttavia, è importante ricordare che le ASL sono strutture complesse, e molte delle inefficienze segnalate dipendono da vincoli amministrativi e da una scarsità di risorse che si protrae da anni.
La campagna di discredito portata avanti da alcuni programmi televisivi rischia di delegittimare il lavoro di migliaia di professionisti della sanità, che ogni giorno si impegnano per garantire il miglior servizio possibile ai cittadini, nonostante le difficoltà.
La necessità di una corretta informazione
In un contesto così delicato, è fondamentale che il dibattito pubblico venga alimentato da informazioni accurate e contestualizzate. La disinformazione, come quella veicolata da montaggi video parziali, non fa altro che creare sfiducia nei confronti delle istituzioni e alimentare tensioni sociali. Al contrario, è necessario riconoscere gli sforzi che la Regione Lazio sta compiendo per risolvere un problema che affligge non solo questa regione, ma molte altre parti d’Italia.
Le riforme sanitarie richiedono tempo, risorse e la collaborazione di tutti gli attori coinvolti, dai politici ai dirigenti sanitari, fino ai cittadini stessi. Solo attraverso un approccio condiviso e una comunicazione trasparente si potranno raggiungere risultati concreti e duraturi nella riduzione delle liste d’attesa e nel miglioramento della sanità pubblica.
E così, mentre la trasmissione Fuori dal Coro punta il dito contro Rocca e le ASL del Lazio, sarebbe invece importante non perdere di vista la complessità della questione e il lavoro che si sta facendo per migliorare una situazione ereditata da anni di difficoltà strutturali.
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Un anno di esperienza con questa testata giornalistica! Beh che dire, lo staff è davvero impegnato su diversi fronti e la collaborazione con loro aiuta sicuramente uno scrittore esordiente ad imparare a scrivere in termini giornalistici.
La testata giornalistica di www.osservatoreitalia.it è sempre molto accattivante e ricca di notizie, dalla cronaca nera a quella rosa. Fare esperienza con un’equipe ben organizzata è il giusto trampolino di lancio per modellare e migliorare l’arte dello scrivere.
La possibilità di vedere i propri articoli pubblicati e seguiti da molti followers investe positivamente sia sul pubblicista che sul giornale. La direttrice, Chiara Rai e il marito Ivan Galea sono impegnati su tanti fronti (dalla politica, alla finanza, alla salute, alla cronaca etc ..) e si occupano in modo chiaro di dare qualità al loro lavoro.
Un “mestiere” quello del giornalista molto scrupoloso e curioso che deve accendere nei lettori la necessità di leggere una determinata notizia. Il giornale si occupa di organizzare momenti di rassegna stampa su diverse tematiche interessanti.
Scrivere articoli per www.osservatoreitalia.it è stata e sarà un’esperienza che ha colmato lacune e incoraggiato l’uso della lingua italiana. Ha arricchito l’esperienza culturale di ciascun collaboratore che ne fa parte.
www.osservatoreitalia.it è una realtà in espansione e mi auguro di vederla sempre di più crescere nell’ambito giornalistico e di espressione. È un’opportunità che va calibrata e pensata, nessuna notizia può essere un caso, ma deve rispecchiare gli avvenimenti reali della nostra quotidianità. Deve incuriosire per espandersi sempre oltre.
La collaborazione con Chiara Rai è efficace sotto ogni punto di vista, poiché il suo modo diretto di spiegare e render noto gli avvenimenti è molto oggettivo e schietto. Non esistono ma e se …, ma la consapevolezza di chi si è e di chi si vuol essere.
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Nel dedicare questo articolo al mio primo anno di collaborazione, ringrazio Chiara e Ivan in modo speciale. Continuate e continuiamo così, l’informazione c’è e noi ci saremo sempre cari lettori!
Cara Maria Rossella Randi,
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Editoriali
Il Consiglio di Stato: “Non ci sono fondi per la disabilità” dobbiamo limitare l’inclusione scolastica
Pubblicato
3 settimane fail
25 Settembre 2024
Il titolo preannuncia una possibile “tragedia” che sta colpendo la dignità umana, questa è pura follia! L’inclusione della disabilità ha seguito un iter legislativo molto complesso che va consolidato ogni giorno con dei progetti validi a livello nazionale/europeo. Sentir parlare di limitare i fondi di bilancio che promuovono l’inclusione della disabilità è disfunzionale alla nostra etica morale.
La scuola italiana negli ultimi decenni si è impegnata sempre più in termini di inclusione, pertanto i “cantieri che si sono aperti” devono essere lavorati e non serrati. Sull’inclusione scolastica sono stati fatti numerosi studi, convegni e seminari; ad esempio l’Università Alma Mater di Bologna riconosce un grande merito al professore Andrea Canevaro, nonché il pioniere della prima cattedra di pedagogia speciale in Italia. Purtroppo, venuto a mancare da qualche anno, il professore Canevaro ha scritto i cardini su cui poggia la pedagogia speciale, ha studiato e fatto ricerca su molti punti chiave della disabilità: in particolare proprio sul concetto di inclusione.
È intervenuto con tecniche e strategie innovative tali da diffondere tre concetti chiave: il disabile non è diverso, ma tutti siamo uomini diversi, la consapevolezza dell’assenza di giudizio, il sostegno alla disabilità e le famiglie come fulcro del suo pensiero pedagogico.
Ostacolare oggi questi studi è come buttare una “mina” su tutto quello che è stato fatto da numerosi professionisti, insegnanti di sostegno e docenti. Inoltre, tutto quello che il Consiglio di Stato Italiano ha detto non ha fatto altro che creare malcontenti, delusioni e rabbia, nonché profonde ferite che colpiscono gli animi dei ragazzi/e, gli studiosi, le istituzioni e le famiglie stesse.
Il taglio dei fondi riguarderebbe non solo la disabilità certificata, ma anche le fragilità di alcuni ragazzi/e (i DSA e i BES). In tal caso, crollerebbe l’istituzione scuola, il ruolo degli insegnanti di sostegno e le progettazioni che si organizzano (es. i Piani Educativi Individualizzati).
Le famiglie sono molto preoccupate dopo la sentenza n° 1798/2024, poiché quest’ultima non riguarderebbe solo la violazione del diritto all’istruzione degli studenti disabili, ma anche di tanti altri servizi importanti come il trasposto, la riabilitazione e le cure. Le amministrazioni certificano, così, che il diritto allo studio per i disabili vale meno degli altri, riportando-ci ad un concetto terrificate: la discriminazione. Concetto, quest’ultimo, che non deve “esistere” in una repubblica democratica come l’Italia.
Se i fondi per l’assistenza scolastica stanno finendo, non bisogna certo infierire contro le situazioni più deboli. In tal caso si vanno ad infrangere i principi della nostra Costituzione Italiana quali, la dignità, l’uguaglianza, l’inclusione e le pari opportunità.
Pertanto, diciamo NO a questi possibili “tagli” ne va della nostra reputazione personale e collettiva.
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