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L’affluenza crolla e i cinque quesiti affondano nell’indifferenza popolare: bocciata l’agenda ideologica di CGIL, Pd e grillini. Il Paese dice no al cambiamento imposto dall’alto e conferma la fiducia nell’attuale governo.
Un altro colpo al cuore di chi ancora credeva che la sinistra, i sindacati e il Movimento 5 Stelle potessero rappresentare un’alternativa credibile alla maggioranza di governo. I numeri parlano chiaro e non lasciano spazio a interpretazioni: il referendum su lavoro e cittadinanza è un naufragio annunciato. Un fallimento politico fragoroso che va ben oltre il mancato raggiungimento del quorum. È il segno di un divorzio ormai consumato tra le vecchie forze della protesta sociale e una cittadinanza che, semplicemente, ha scelto di non ascoltarle più.
Con un’affluenza ferma al 22% alla chiusura della prima giornata, e con i seggi ancora aperti solo per pro forma, il messaggio lanciato dagli italiani è di una chiarezza disarmante: non c’è alcuna voglia di tornare indietro, né sul fronte delle riforme del lavoro né su quello della cittadinanza agli stranieri. I cinque quesiti – sponsorizzati dalla Cgil e appoggiati da una sinistra sempre più autoreferenziale e da un Movimento 5 Stelle ormai in piena fase ectoplasmatica – si infrangono sul muro dell’indifferenza popolare.
Il popolo non dimentica, e non perdona
Il dato di affluenza fa impallidire anche i più pessimisti. Nel 2011, ai tempi del referendum sull’acqua pubblica, l’affluenza al primo giorno era del 41%. Oggi, a fatica si supera la metà. In regioni come la Calabria si scende sotto il 5%, segno che la narrazione del “cambiamento progressista”, della giustizia sociale a senso unico, non incanta più nessuno. Nemmeno dove una volta la sinistra pescava a piene mani.
Si parla tanto di “stanchezza democratica”, di “apatia civica”. Ma sarebbe più onesto riconoscere che l’astensione è una scelta politica consapevole. È il rigetto silenzioso ma determinato di un’agenda che non parla più al cittadino comune, ma a nicchie ideologiche sempre più ristrette. Che senso ha, si chiedono in molti, riproporre oggi temi che il legislatore ha già affrontato? Perché riaprire il dibattito su licenziamenti e contratti a termine, quando il mercato del lavoro mostra segnali di stabilità, e il governo ha già tracciato una linea chiara?
Il boomerang della cittadinanza facile
Particolarmente significativo è il rigetto del quesito sulla cittadinanza. Dimezzare il periodo per la concessione della cittadinanza italiana da 10 a 5 anni, come proposto dal quinto quesito, non trova riscontro nell’opinione pubblica. E qui si evidenzia forse il dato politico più dirompente: la stragrande maggioranza del Paese non vuole cambiare la legge Bossi-Fini, e anzi pare sostenerne l’impostazione rigorosa. L’idea di una cittadinanza come premio automatico, anziché come traguardo da meritarsi con radicamento, integrazione e rispetto delle regole, è rispedita al mittente.
Il fronte progressista, invece di ascoltare il sentire comune, ha preferito ancora una volta arroccarsi nella torre d’avorio del buonismo istituzionalizzato, scommettendo su battaglie fuori tempo massimo.
CGIL, M5S e sinistra: i grandi assenti in mezzo alla piazza vuota
Chi esce con le ossa rotte da questo fallimento? Senza dubbio la CGIL, che ha promosso in prima fila la consultazione, mostrando un distacco drammatico dai reali interessi dei lavoratori. Non meno grave è il ruolo del Movimento 5 Stelle, che conferma di aver smarrito qualunque capacità di mobilitazione. Dai Vaffa-Day ai “Referendum Day”, il passo verso l’irrilevanza è stato più breve di quanto previsto. E poi c’è la sinistra parlamentare, quella dei comunicati indignati e delle battaglie su Twitter, sempre pronta a difendere cause perse in partenza, purché abbiano il sapore dell’opposizione di principio.
Una conferma implicita: il Paese sta con il governo Meloni
Il dato più importante, e forse meno commentato, è che l’astensione massiccia legittima ancora una volta la linea dell’esecutivo. In assenza di una mobilitazione popolare contro, si rafforza l’idea di un Paese che, pur con tutte le sue difficoltà, sta dalla parte della stabilità e del governo Meloni. Non è tanto un’adesione entusiasta, quanto una scelta pragmatica, concreta: meglio una destra che governa, che una sinistra che sogna.
In conclusione, il flop referendario non è solo una sconfitta procedurale. È una sentenza politica, che boccia l’agenda sociale della sinistra, delegittima la strategia sindacale e suona il de profundis per ciò che resta dell’ex fronte progressista. Gli italiani, ancora una volta, hanno parlato non votando. E il messaggio, questa volta, è più forte di qualunque percentuale.