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Gli italiani disertano le urne e bocciano sonoramente i cinque quesiti su lavoro e cittadinanza. Un fallimento politico ed economico promosso da CGIL, Pd, M5S & friends che pesa sulle tasche dei contribuenti
Il flop referendario di questi giorni si sta rivelando non solo un fallimento politico ma anche un grave spreco di risorse pubbliche, tutto a carico dei cittadini italiani. Con un’affluenza che ha raggiunto appena il 22% nella prima giornata di voto, ben lontana dal quorum del 50% + 1 necessario per rendere valido il risultato, i cinque quesiti su lavoro e cittadinanza sono destinati ad affondare senza lasciare traccia. E a lasciare l’amaro in bocca non è solo la disillusione degli organizzatori, ma soprattutto la spesa colossale sostenuta per organizzare un appuntamento che si sapeva sin dall’inizio non avrebbe mobilitato il Paese.
Secondo le prime stime, l’intera macchina referendaria è costata intorno ai 400 milioni di euro. Una cifra enorme che avrebbe potuto essere destinata a ben altri scopi – dal rafforzamento della sanità pubblica al sostegno alle famiglie, dalla messa in sicurezza delle scuole agli investimenti infrastrutturali. Invece, sono stati impiegati per garantire l’apertura di migliaia di seggi rimasti pressoché deserti, per stampare milioni di schede elettorali inutilizzate, e per pagare il personale elettorale in una tornata di fatto ignorata dai cittadini.
La responsabilità politica di questo disastro organizzativo è da attribuire principalmente alla sinistra italiana e al Movimento 5 Stelle, i principali promotori dei referendum. Sono stati loro, insieme alla CGIL, a insistere per indire una consultazione popolare fuori tempo massimo, completamente scollegata dalla realtà e dai problemi sentiti dagli italiani. La campagna è stata condotta in sordina, senza una vera strategia comunicativa, senza un radicamento nei territori, senza una mobilitazione concreta. Un’iniziativa velleitaria, incentrata più sul mantenere in vita sigle e partiti in crisi d’identità che sul dare risposte concrete ai cittadini.
Non solo i promotori hanno dimostrato un’inquietante distanza dal Paese reale, ma hanno anche imposto agli italiani un costo salatissimo per sostenere la loro propaganda ideologica. Il Movimento 5 Stelle, che aveva fatto della democrazia diretta un vessillo, ha perso anche quel poco consenso rimasto su questo tema, dimostrando di non essere più in grado di intercettare l’interesse dell’elettorato, né tantomeno di interpretarne le priorità.
Dal governo Meloni, che di fatto esce politicamente rafforzato da questo esito, non sono arrivate dichiarazioni trionfalistiche ma alcuni segnali significativi. Il ministro per gli Affari europei Tommaso Foti ha recentemente rivendicato la necessità di una gestione responsabile dei fondi pubblici, sottolineando l’importanza di evitare sprechi e inefficienze, mentre Antonio Tajani, vicepresidente del Consiglio, ha ribadito l’attenzione dell’esecutivo al contenimento delle spese inutili. Nessuno dei due ha citato apertamente il referendum, ma il messaggio è chiaro: mentre il governo lavora per razionalizzare e risparmiare, c’è chi, come la sinistra e i grillini, si ostina a buttare via milioni in battaglie già perse in partenza.
Quello a cui abbiamo assistito è stato un vero e proprio autogol istituzionale. Un’iniziativa che non solo non ha prodotto alcun risultato, ma ha confermato quanto la sinistra sia ormai scollegata dal tessuto sociale e politico del Paese. I cittadini hanno scelto di non partecipare, manifestando con l’astensione non tanto apatia, quanto un rifiuto consapevole verso un progetto percepito come inutile e distante. E hanno espresso, indirettamente, un chiaro messaggio politico: il Paese è più coeso di quanto sembri attorno alla linea del governo in carica, e non ha alcuna intenzione di farsi trascinare in battaglie ideologiche fuori tempo massimo.
Alla fine, resterà solo la fotografia di una consultazione dimenticabile, e un conto salatissimo da pagare. Ma non lo pagheranno i promotori del referendum. Lo pagheranno, come sempre, i cittadini italiani.