Sessantotto, effetti collaterali sulla società odierna

Ricorre quest’anno il 50° anniversario del sessantotto, evento che il filosofo Diego Fusaro, sul suo blog ha definito un colossale miraggio collettivo. Parliamo della così detta rivoluzione sessantottina.

Tutto iniziò nel maggio 1968

A Parigi si accesero le fiamme ideologiche. La gioventù yé-yé scese  in piazza urlando: “Ce n’est  qu’un debut  continuons le combat” (Non è che l’inizio, continuiamo a combattere).
Gli steccati e i muri degli ideali e dei principi valoriali vennero  aspramente contestati e paternalismo, la famiglia, l’autorità, le baronie  universitarie, la disciplina di fabbrica, la cultura e la scuola caddero  vittime di quella “grande stagione di lotte e di rivendicazioni”.

Qualche giorno fa, il conduttore di una trasmissione radiofonica trattava  appunto del centenario del sessantotto chiedendo ai radioascoltatori, specialmente a quelli che avevano vissuto l’evento, di chiamare in diretta per dare la loro testimonianza. Tra le telefonate quella di una signora che all’epoca  era una giovinetta appena diciannovenne. La donna ha detto di ricordare benissimo quegli anni, da lei descritti come gli anni della rivoluzione. Ha quindi raccontato con entusiasmo di avere vissuto quei momenti da protagonista. E’ stata presa tanto dall’entusiasmo che immedesimandosi nel momento storico, con euforia ha detto che quando si trovava in piazza, in mezzo all’altra gioventù urlante ad un certo momento, trasportata da un impulso intrattenibile, slacciò la camicetta, si strappò di dosso il reggiseno e gli diede  fuoco; la scena che seguiva era di  un reggiseno per terra che bruciava, accompagnato da un scroscio di applausi e le urla festose dei compagni yé-yé.

Un vero spettacolo, scene indimenticabili!

L’episodio è stato poi confermato da un altro radio ascoltatore. Anche lui si trovava lì, a pochi passi da quella diciannovenne intraprendente e ha ricordato che preso anche lui dal gioioso impulso, trascinato da quell’atmosfera del vento innovativo e trasgressivo non esitò a gettare i suoi slip sul reggiseno in fiamme. A questo punto, ha detto l’uomo, tante ragazze, assaporando l’aria del “vivere liberi senza dettami” decisero anche loro di sacrificare al fuoco le loro mutandine.

Un bel falò, applausi a non finire, canti e balli e tanto yé-yé. La piazza era tutta in delirio. Erano gli anni della rivoluzione, non esisteva l’impossibile e il motto era vietato vietare.
E’ stata una rivoluzione che ha trasformato, in modo irreversibile, le strutture profonde della società. I valori sono stati sostituiti da icone, da manifesti, da slogan e da motti come il “fate l’amore, non fate la guerra”.
Si è brindato al sesso e allo spinello libero, messa al bando la  strumentalizzazione, vietata la costrizione, messi all’indice i  legami, santificati i diritti civili e, ciliegina sulla rivoluzione, fu introdotto il sei politico i cui effetti si reperiscono oggi  tra i residuati che emergono tra le macerie della nostra società.

Il sessantotto è sempre fra di noi. Ci sono i detriti, le demolizioni, gli smantellamenti.

La decadenza ed il disfacimento lo dicono i ponti che crollano, lo lamentano i palazzi che collassano, lo certificano i pazienti che non superano la prova “sala operatoria”, lo urlano le migliaia di innocenti reclusi in attesa di giudizio e i criminali a piede libero; lo testimonia la giustizia collassata, la tanta confusione persino dentro la stessa gerarchia ecclesiastica. Sono tutti effetti collaterali di quella sotto cultura iniettata nella società della tanto osannata “ventata di progresso”. Un grande rogo e odore acre della strage dei reggiseni e delle mutande bruciate. Dappertutto una coltre di cenere lasciata dal falò sessantottino, segni visibili nella  cultura, nella scuola, nella politica, nella giustizia e nella vita sociale.

L’augurio di sempre è che arrivi un nuovo vento ristoratore, foriero di sana energia per chiudere le ferite inferte da quel colossale abbaglio sessantottino.
Emanuel Galea




Aspiranti magistrate, minigonne, sei politico e cittadini in mutande: il frutto fallimentare del ‘68

Pende una proposta di destituzione per Francesco Bellomo, Consigliere di Stato e direttore della scuola privata per aspiranti magistrati “Diritto e Scienza” e sul suo collaboratore, il Pm di Rovigo Davide Nalin, una di sospensione con urgenza. Una nuova testimonianza conferma le accuse già rivolte a Bellomo dal padre di una sua giovane ex corsista. Rosa Calvi, avvocatessa di 28 anni, che ha raccontato al Corriere della Sera come le fu offerto di diventare borsista del noto corso, le assurde regole che avrebbe dovuto rispettare e quel bacio che Francesco Bellomo provò a darle durante un colloquio per valutare se fosse degna della borsa per frequentare gratis la scuola.

E mentre la grande stampa, i salotti ciarlieri televisivi e lo spettegolare sul web, vedono nella triste storia delle aspiranti magistrate, frequentatrici della scuola privata di formazione, “Diritto e Scienza” diretta dal giudice, sennonché consigliere di Stato Francesco Bellomo, una forma di sexgate al Consiglio di Stato. Si fanno i soliti moralismi, grandi dibattiti presieduti dai soliti frequentatori dei talk show, ma il nocciolo del problema, la vera insidia che coverebbe nell’apparato dello Stato non viene minimamente sfiorata. Mentre si leggeva la notizia nelle sue variegate versioni, ritornava in mente il famigerato “Sei politico” degli anni settanta, negazione per antonomasia del significato “scuola”, ragione per cui quest’ultima è ridotta nello stato attuale.
A causa di quella che fu allora “vittoria del movimento studentesco di sinistra”, oggi l’istruzione nelle scuole locali è scesa in fondo alla scala delle statistiche europee che analizzano il grado di educazione culturale degli studenti nell’Unione. Quella che allora fu salutata come una conquista nella marcia verso il progresso, oggi la si scopre come una sconfitta della classe dirigente di allora.

 

A questo punto il lettore può giustamente volere conoscere quale sia il nesso di quanto detto con le magistrate in minigonna del giudice Francesco Bellomo. Giusta curiosità! Maria Giorgia Vulcano, responsabile del Dipartimento Politiche Giovanili della Cgil Puglia, molto prudentemente, così si è espressa a riguardo della vicenda Bellomo : “Qualora i fatti emersi fossero accertati, sarebbe inaccettabile il tentativo di derubricare quanto a mero “fatto di costume”. Mentre, condividendo il condizionale alla base del giudizio della Vulcano, si esprime altra opinione sul “fatto di costume”, e con ciò ci si riferisce al “sexgate” bensì al costume di certe promozioni nelle carriere statali.

 

Facciamo un passo indietro e ritorniamo al “Sei politico” che nessuno può negare sia stato all’origine del fenomeno di professionalità di scarso livello. Quanti ponti crollati? Quanti incidenti nelle sale operatorie? Quanti palazzi piegati alle più lievi scosse sismiche? Sarà pur vero che c’entri la corruzione nella scelta dei materiali, però chi può negare che non si tratti anche di scarsa preparazione professionale magari originata dal “Sei politico?” Chi potrebbe dubitare di carriere professionali acquisite con meriti di livello da “Sei politico?”

Ciò detto passiamo alle magistrate in minigonna dell’ormai chiacchierato giudice Francesco Bellomo. Si era detto prima di non condividere in pieno che in questa vicenda non si tratta di “fatto di costume”. All’uomo della strada nulla importa se le aspiranti magistrate si presentino in commissione in minigonna, con tacchi a spillo, con particolare maquillage e quant’altro. Quello che veramente importa al cittadino è che la qualifica sia valutata non in base all’aspetto fisico o alla classe sociale d’appartenenza bensì alle capacità e preparazione professionale.

 

E proprio per questa triste vicenda non ci sentiamo di escludere il “fatto di costume” e riflettiamo. Questa volta il caso “minigonne” è scoppiato, però rimane sempre il tarlo a tormentarci. Siamo certi che questo sia stato l’unico caso? Siamo certi che altri casi, magari non di minigonne bensì di calze elastiche, di parentele care, di capelli biondi oppure di labbra a bocca di rosa non siano stati conteggiati come meriti davanti alla commissione? Non sarebbe forse per riflesso di qualche caso del genere i reati gravi vadano in prescrizione e i criminali ritornano per strada? Sarebbe da escludere che non c’entrino casi del genere che innocenti vengano condannati e reclusi per anni per poi essere riconosciuti innocenti dai veri professionisti del codice? Sono solo domande che meritano pure una risposta e pertanto le magistrate in minigonna della fattispecie interessano al cittadino perché a causa di molti errori giudiziari tanti poveri cristi, fuori dei palazzi di potere, ridotti in mutande, mendicano giustizia, incontrando il disinteresse dei più. La legge è uguali per tutti. E’ uguale un poco più per “qualcuno”.

Emanuel Galea




Caso Anna Frank: frutto marcio dell’inKultura dì una generazione in lento tramonto

Lo scorso 21 ottobre sulle colonne di questo quotidiano veniva pubblicato l’articolo “1968: l’inizio dell’era inKulturale”. L’articolo chiudeva con una citazione dal nuovo libro di Galli della Loggia “Il tramonto di una nazione” che parlando degli italiani diceva: “Che vedono ogni giorno scomparire luoghi e figure fino a ieri familiari, svanire principi e istituti, e insieme le più varie appartenenze ideali perdere senso, illanguidirsi e spegnersi. Nel mondo che cambia a un ritmo vertiginoso l’Italia appare avviarsi a un lento tramonto”.

 

Se si intende capire qualcosa sul caso Anna Frank bisogna partire da questo contesto. Come capita spesso, si raggira il problema, si alzano polveroni, si palleggiano responsabilità, si discute di tutto e si omette di mettere a fuoco l’obiettivo, quanto in buona fede poi, non si può dire. Il gioco di calcio, con il caso degli sticker di Anna Frank nella Curva Sud dell’Olimpico del lunedì 23 ottobre 2017 non c’entra e tantomeno l’antisemitismo al quale tanti vogliono attribuire l’episodio.

 

Chiara Rai e Emilio Ammaturo durante la puntata di Officina Stampa dello scorso 26 ottobre 2017

 

Si tratta di decadenza culturale, una società nel completo sfacelo. Durante la puntata della trasmissione Officina Stampa di giovedì 26 ottobre, il web talk di approfondimento giornalistico in diretta web tv che va in onda ogni giovedì alle ore 18.00, la conduttrice e direttrice de L’Osservatore d’Italia Chiara Rai raccontava che alcuni studenti interrogati all’uscita scolastica, se conoscevano chi fosse Anna Frank, rispondevano di no, perché ancora non avevano letto i giornali. Ogni commento è superfluo!

 

 

 

L’iniziativa della Federcalcio, d’intesa con il Ministro per lo Sport e l’Unione delle Comunità Ebraiche , di leggere un brano del ‘Diario di Anna Frank’ prima dell’inizio delle partite con un minuto di riflessione su tutti i campi di gioco, sembra più che altro un’operazione di facciata, piacerà ai mass media ma non inciderà minimamente sul fenomeno. Così come la decisione di qualche giornale di rendere disponibile gratuitamente online il “Diario di Anna Frank” è senza meno cosa encomiabile, ma anche questa iniziativa non si avvicinerà minimamente alla soluzione del problema.

Le frasi offensive attribuite al presidente della Lazio Claudio Lotito, in viaggio verso Roma per mettere riparo alla situazione, una volta accertati i fatti, non farebbe altro che confermare il degrado culturale di una società e l’affermazione del rabbino capo di Roma: “Non si risolvono le cose facendo un’apparizione ai giornalisti”, incontra l’unanime condivisione dei più.

Episodi come questo della Curva Sud dell’Olimpico si sono già verificati in Usa . Il sito di e-commerce aveva messo in vendita per Halloween al prezzo di 25 dollari, un “Anna Frank Costume for Girls”. Solo dopo una forte polemica e-commerce fu costretto a cancellare l’annuncio e togliere il vestito dal mercato.

 

Il problema di fondo è la dissacrazione di tutto ciò che abbia correlazione con “il ieri” perché si vuole santificare ed osannare “l’oggi”. Questo lo si fa per svariate ragioni: per ideologia, per interessi finanziari, per scopi geopolitici e non solo. Dissacrare i segni di fede religiosi con svariate giustificazioni di forma d’arte, satirica, libera espressione ed altro, sono oggi davanti ai nostri occhi, vedi il caso Charles Hebdò, le mostre d’arte con dissacrazione del Cristo, opere teatrali che dissacrano la Madonna e le rassegne varie. Poi troviamo i casi dei profanatori delle opere d’arte, vandali che sfregiano monumenti di immenso valore artistico. A questo sfasciume presta voce la presidente della Camera Laura Boldrini che proporrebbe la demolizione dei simboli del regime con l’eco di Manuele Fiano che rispondendo a Luca Telese a 24Mattino su Radio 24 affermava: “Sono contrario all’abbattimento di monumenti, ma l’abrasione della sola scritta è giusta”. Qui Fiano si riferiva alla scritta “Mussolini dux” sull’obelisco del Foro Italico a Roma. Quanto su esposto per dimostrare che i veri responsabili sono le istituzioni e fra queste viene chiamata in causa in primis “l’istituzione della famiglia”. La nuova linea post sessantottina ordina l’occultamento della storia, l’abrasione del passato, la creazione del vuoto. La nuova generazione non dovrebbe avere alcuna memoria di guerra, nazismo, fascismo, antisemitismo,olocausto ed altre atrocità.

 

Cosa sta facendo la “buona scuola” per fermare tanto declino? Cosa sta facendo lo Stato per aiutare la famiglia per dare una buona educazione ai propri figli? Ci si domanda se lo Stato sia convinto che sulla “famiglia” si fonda la Società. Purtroppo oggi il sostegno del Ministero della pubblica Istruzione è indirizzato verso ben altra cultura. L’attuale ministro dell’educazione,Valeria Fedeli, sta considerando di mettere a disposizione degli studenti l’uso dello smartphone.

 

Al Miur interessa l’educazione al rispetto di genere in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Se poi, come è riportato nell’articolo succitato, nella classifica mondiale delle scuole perfette condotta dall’Istituto di ricerca inglese The Economist Intelligence Unit l’Italia viene collocata al 25imo posto nella graduatoria, vuol pure significare qualcosa.

Vuole dire che l’episodio di Anna Frank è il prodotto marcio di tanta inkultura.

Emanuel Galea

 




1968: l’inizio dell’era inKulturale

Storia di mezzo secolo fa. Altra gente, altri modi di concepire la vita, altra classe politica, un’altra Italia. Qualcuno esalta il progresso, qualcun’altro recrimina il presente, altri sono nostalgici del passato. Non è mai troppo tardi o forse sì? Molti ricordano il programma televisivo curato da Alberto Manzi che nella sua più conosciuta edizione, dal 1960 al 1968, la RAI mandava in onda dal lunedì al venerdì con il sostegno del Ministero della pubblica istruzione. Stiamo parlando d’altri tempi quando si faceva veramente Cultura. Si insegnava agli analfabeti a leggere ed a scrivere. Si avvicinava tanta gente, giovani ed anziani alla letteratura.

Oggi il sostegno del Ministero della pubblica Istruzione è indirizzato verso ben altra cultura. Venne il ’68 e segnò l’era dell’inkultura, aprendo la via all’anticonformismo. Fu allora che la cultura conobbe l’inizio del suo tracollo. Con il fiorire di nuovi talk show, dove il gossip dell’irrazionale e del pettegolezzo è all’ordine del giorno, il paese scivola mortificato verso un domani insicuro. E’ stato instaurato il principio di “uno vale uno e tutto è relativo”. Tutto è importante e niente è necessario.

Una generazione si nutre di conoscenza “copia incolla”. Mentre l’intelligenza artificiale avanza a passi da gigante, quella umana si impigrisce, si addormenta, si atrofizza.
Sta nascendo una generazione che si nutre di informazione e cultura mass mediatica preconfezionata, abbandonando i libri, gli studi analitici, la storia, l’arte, la letteratura classica ed i temi main stream contemplano tutto meno che temi poetici. Generazione tesa verso una cultura prêt-à-porter di facile riferimento offrendo il minimo dispendio intellettivo. Cultura usa e getta, vuoto a perdere, quel che basta per soddisfare il momento dell’interrogazione, della prova scritta.

L’attuale ministro dell’educazione, – Valeria Fedeli – sta considerando di mettere a disposizione degli studenti l’uso dello smartphone. Il ministro probabilmente crede che ciò possa essere una cosa intelligente; considerando che secondo il pensiero dominante “uno vale uno”, il ministro Fedeli potrebbe venire perdonata. E’ l’autostrada dell’inkultura che sta conducendo intere generazioni a un domani di sicuro insuccesso. Nella sua prima classifica mondiale delle scuole perfette, l’Istituto di ricerca inglese The Economist Intelligence Unit colloca l’Italia al 25imo posto nella graduatoria. Ciò, però sembra non impensierire il sottosegretario al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Il sottosegretario, al contrario, si preoccupa di promuovere programmi di educazione al rispetto di genere in tutte le scuole di ogni ordine e grado e raccomanda al Miur l’impegno per raggiungere tali risultati. Gli fa eco il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Valeria Fedeli che in cima al suo pensiero c’è l’educazione alla differenza ed al rispetto dei due sessi, se poi tutti e due i generi, come studenti si collocano al venticinquesimo posto della classifica della scuola perfetta, poco importa.
Le reti televisive, con rara eccezione di qualcuna, sposano il pensiero del ministro, del sottosegretario e ahinoi, di alte cariche delle istituzioni e più che mai la voce di qualche alto prelato. Se ben si scava ci si accorge che la preparazione culturale di costoro è figlia dell’inkultura sessantottina.

 

L’insensatezza del 6 politico, istituito negli anni ’70, segnava l’inizio della decadenza del livello scolastico perché fu una vera follia garantire a tutti un voto minimo, indipendentemente dallo studio, dai risultati e dal rendimento. Fu allora considerata dai movimenti studenteschi di estrema sinistra una vittoria. Oggi si stanno raccogliendo i frutti bacati di quella “vittoria di Pirro”.
Sul Corriere della Sera dello scorso 31 maggio, lo scrittore Galli della Loggia ha pubblicato un brano tratto dall’introduzione del suo nuovo libro “Il tramonto di una nazione”.

 

Concludo condividendo la riflessione dello scrittore dove parla degli italiani: “Che vedono ogni giorno scomparire luoghi e figure fino a ieri familiari, svanire principi e istituti, e insieme le più varie appartenenze ideali perdere senso, illanguidirsi e spegnersi. Nel mondo che cambia a un ritmo vertiginoso l’Italia appare avviarsi a un lento tramonto”.
Non è mai troppo tardi, insegnava Alberto Manzi. Le reti televisive sono le finestre della nazione. Spalanchiamole e lasciamo che entri una ventata di aria nuova.

Emanuel Galea