Palermo, muore la moglie del Prefetto Bruno Contrada

PALERMO – E’ venuta a mancare ieri a Palermo Adriana Del Vecchio, moglie del Prefetto Bruno Contrada. Della donna si ricorda il grande legame con il marito, i tanti strazianti appelli lanciati durante la lunga vicenda processuale che ha interessato l’ex capo della Mobile di Palermo.

E’ dello scorso anno la revoca del provvedimento del 13 luglio 2007 con cui il dottor Bruno Contrada era stato destituito di diritto dall’amministrazione della Pubblica Sicurezza con decorrenza retroattiva 13 gennaio 1993. “Il periodo di tempo ricompreso tra il 13 gennaio 1993 ed il 30 settembre 1996 (giorno antecedente a quello in cui il dottor Contrada è stato collocato in quiescenza), – si legge sull’atto firmato dal Capo della Polizia Direttore Generale della Pubblica Sicurezza dr. Franco Gabrielli – durante il quale ha esplicato i propri effetti il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio datato 15 gennaio 1993 ai sensi dell’art. 9, primo comma, del d.P.R. N 737 del 1981, è riconosciuto utile al citato funzionario sia agli effetti giuridici e sia agli effetti economici e previdenziali. In relazione a detto periodo è riconosciuto competere al dottor Bruno Contrada l’intero trattamento economico previsto dalle vigenti disposizioni di legge, con interessi e rivalutazione monetaria, detratto quanto già dallo stesso percepito a titolo di assegno alimentare.”

Tante le testimonianze di funzionari di Polizia intervenuti a commentare e ad arricchire di colpi di scena una lunga video intervista a Bruno Contrada realizzata dal direttore de L’Osservatore d’Italia Chiara Rai.

L’intervista al Prefetto Bruno Contrada in 7 puntate di Officina Stampa

Il ripercorrere gli anni più intensi di quella che è stata la lotta alla mafia portata avanti dalla squadra Mobile di Palermo al comando del dottor Bruno Contrada ha aperto, infatti scenari inediti con episodi mai narrati fuori le porte del processo all’ex capo della squadra Mobile palermitana come ad esempio lo smantellamento di un pool composto dallo stesso Bruno Contrada con gli uomini della Squadra Mobile di Palermo, della Criminalpol e cosa non comune anche dei servizi segreti.




Totò Riina: la morte da “eroe” di ‘U Curtu (vista dalla parte di Cosa Nostra)

Più di questo, la giustizia italiana non poteva fargli. Venticinque ergastoli, che non avrebbe mai scontato, ma che comunque l’avrebbero incatenato per sempre ad una cella, sono stati la massima punizione con cui lo Stato italiano ha potuto colpire Totò Riina, ‘U Curtu, morto di tumore a 84 anni, assistito meglio di qualunque cittadino onesto e senza mezzi; portandosi dietro tutti i segreti di cui era depositario, e che erano il capitale che gli consentiva di condizionare la sua detenzione. Finché non avesse parlato. Cioè nulla. Riina ha continuato a comandare e a minacciare dal suo 41 bis, lo stesso per cui aveva ordinato le bombe di via dei Georgofili, la strage di via Palestro e la stagione degli attentati, di cui fa parte anche il fallito attentato contro Maurizio Costanzo, reo di aver preso posizione contro Cosa Nostra. Guardando in prospettiva, il panorama non è incoraggiante.

 

E fa venir voglia di capire più da vicino cos’è la Mafia

Certo non è una comune organizzazione criminale. Il salto di qualità ai primi del Novecento lo ha ben descritto Federico De Roberto nel suo romanzo ‘I Vicerè’, censurato per quasi cent’anni, quando i figli di quelli che erano divenuti latifondisti furono mandati ‘ a Roma’, per prendere una laurea. L’appoggio della politica, trasformatosi poi in ‘discesa in campo’ in prima persona, alla ricerca di appoggi per il conseguimento del potere – teso poi alla conquista di importanti posizioni economiche – ben rappresenta ciò che la mafia era, ed è, compresa la trasformazione in multinazionale finanziaria. Dalla Chiesa è stato ucciso perché aveva capito che seguendo il denaro si arrivava ai capi, e a quella fantomatica ‘cupola’ mafiosa che rimane ancora, per alcuni, un mistero.

 

Più o meno la stessa via che hanno seguito Falcone e Borsellino

Ma ogni volta che si indaga seriamente sulla mafia, a trecentosessanta gradi, succede che chi lo fa viene eliminato. Per il teorema inverso, chi indaga e non subisce attentati è tacciabile di complicità, e questo è inquietante. Sembra che questa entità, sotto alcuni aspetti ectoplasmatica, permetta di avvicinarsi fino a distanza di sicurezza. Ma non oltre.

Più di centocinquanta omicidi, quelli attribuiti a Totò Riina, ma forse nessuno potrà mai farne un censimento preciso. Compreso il piccolo Di Matteo, strangolato e sciolto nell’acido per punire suo padre Nino, il pentito, per il quale ancora sono pronti duecento chili di tritolo. Cosa Nostra, uno stato nello stato, un antistato. In realtà un antistato che fa la guerra al nostro Stato, ma la fa in modo tutto suo, alleandosi con alcune parti di esso e sfruttandone le sue zone oscure e le sue debolezze. Falcone disse che la Mafia è un fenomeno umano, e che come tutto ciò che ha un inizio avrà una fine.

 

Chiediamoci perché questa fine non arriva

Forse perché quando siamo nei pressi di una soluzione finale, qualcuno provvede a spegnere la luce? Esiste uno strano intreccio fra mafia e potere politico, e questo è inevitabile: altrimenti della Mafia sarebbe rimasta oggi solo il ricordo. E nei ricordi mettiamoci anche quello del ventennio fascista, durante il quale la mafia, derivazione di quella ‘Mano Nera’ che aveva giustiziato il superpoliziotto Joe Petrosino, fu messa in condizioni di non nuocere da uno stato dittatoriale che non faceva complimenti.

Le pieghe della nostra pretesa democrazia – che si manifesta come tale solo per assicurare un garantismo ‘a prescindere’, anche a sproposito – sono troppo larghe, evidentemente, per sconfiggere una organizzazione che, a differenza della ‘ndrangheta e di altre corporazioni malavitose, ha nelle sue caratteristiche una sorta di vocazione di governo. Come hanno fatto i ‘capibastone’ dell’800 a prendere il potere, oltre a derubare i propri padroni – i quali beatamente continuavano a far debiti e a condurre una vita allegra e dissennata, fino a vedersi sequestrare le proprietà? Proprio riparando i torti che i contadini erano costretti a subire per la loro posizione subalterna. Ma chiedendone poi in cambio piena obbedienza. Allora chiediamoci come sarebbe un governo che dovesse andare al potere con un simile comportamento, per assurdo. Cosa Nostra non ha nessuna intenzione di andare direttamente in Parlamento, a loro basta influenzare – quando possibile – la politica e l’economia rimanendo in seconda battuta, senza esporsi. Ma se per assurdo dovessero governare in Italia? Un assunto fondamentale sarebbe quello di far star bene la gente: quando il popolo sta bene, non crea problemi, e obbedisce. Specialmente se di fronte ha persone che, per il loro potere e per la loro posizione economica, sono dotate di un certo carisma.

Tanto per fare una citazione senza riferimenti, il successo politico di Berlusconi è stato causato, alla sua discesa in campo, dal fatto che fosse un uomo ricchissimo: forse la stessa molla che ha mandato al potere Trump in America: il carisma del conto in banca funziona sempre. Quindi la prima caratteristica di un ipotetico governo mafioso, sarebbe il populismo. Al contrario di ciò che ha scelto di fare ai tempi nostri l’internazionale del potere, quella che propugna il Nuovo Ordine Mondiale, governare riducendo al bisogno più estremo le popolazioni, ma creando un vasto e pericoloso malcontento.

I popoli, diceva John Adams, si conquistano con le guerre o con il bisogno

Per noi è stata scelta quest’ultima soluzione, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. La seconda caratteristica sarebbe l’ordine pubblico, perfetto e assoluto. Infatti nelle città ‘mafiose’ e nei paesi di mafia, nessuno ruba auto, o compie scippi. Il tribunale non esiste, e l’unica condanna che la mafia applica è definitiva, con vari gradi di applicazione: dalla lupara, più o meno bianca, ad un bagno nell’acido, allo strangolamento tramite una cordicella stretta mediante un bastoncino attorno alla gola del condannato.

 

Le sentenze della mafia non hanno ricorsi, né prescrizioni

In questo potremmo definire un simile governo ‘giustizialista’. E questo penso che potrebbe anche piacere a molti. Terza caratteristica, il qualunquismo: chiunque fosse dalla loro parte, dei mafiosi, sarebbe loro amico, partiti a parte. Il partito, la politica, per il mafioso, o presunto tale, è strumentale soltanto all’ottenimento e al mantenimento del potere. Vocazione europeista? Quella c’è già: infatti possiamo ben considerare il potere delle multinazionali sul Parlamento europeo, come un potere condizionante, esclusivo, secondo quanto alcuni dei parlamentari riferiscono.

 

Definire la mafia una multinazionale non è sbagliato

Oggi i grandi proventi dell’organizzazione mafiosa provengono da molteplici attività, tutte legate da u unico comune denominatore: il profitto. Che sia droga – nei paesi in cui è proibita – che sia gioco d’azzardo – più o meno lecito – che siano grandi appalti – che da un po’ sono passati in secondo piano, e non sono più come al tempo di ‘Mani sulla città’– o anche impianti di pale eoliche, o qualsiasi cosa. Seguendo il denaro, si arriva alla mafia. E magari, alla cupola. In una cosa la previsione di Falcone ha fallito: è vero che la mafia è un fenomeno umano, ed è altrettanto vero che i fenomeni umani hanno un inizio e una fine. Ma questo non è attribuibile al fenomeno mafioso, finchè ci sarà qualcuno che contribuirà a tenerlo in vita. Cioè, proprio dalla parte che sulla carta dovrebbe combatterlo.

 

Ricordiamoci che molti bastoni furono messi fra le ruote di Falcone, fino a smembrare il pool antimafia

E degli autori di questo nessuno ha mai fatto nomi e cognomi. Dalla Chiesa fu lasciato completamente solo, prima dell’attentato che lo vide soccombere. Quasi come se uno o più burattinai tirassero i fili dei personaggi sulla scena. Chi avvertì gli autori della bomba di Capaci che Falcone stava arrivando? Chi mise la borsa con l’esplosivo all’Addaura? Chi realmente premette il bottone del telecomando di via d’Amelio? Dove è finita l’agenda rossa contenuta nella borsa di Borsellino che un ufficiale dei Carabinieri si preoccupò di prelevare, fra morti, feriti, fumo dell’esplosione, pezzi di corpi fino al secondo piano del palazzo di fronte? Sullo sfondo campeggia la figura di Totò ‘U curtu, catturato dopo ventiquattr’anni di presunta latitanza passati in mezzo alla gente, senza nascondersi, nel tessuto urbano in cui aveva più potere.

 

Perché il capomafia ha potere finchè riesce a rimanere sul suo territorio

Arrestato quando a qualcuno faceva comodo. Come Binnu ‘U tratturi, Bernardo Provenzano, contadino sotto gli occhi di tutti e già individuato anni prima dagli investigatori. Riina se n’è andato, e possiamo ben pensare che qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo, anche se Riina non aveva mai manifestato la benché minima intenzione di spifferare tutti i segreti italiani degli ultimi trenta o quarant’anni di collusione – presunta – di mafia e politica. Pare quasi che questi due poteri si sostengano a vicenda, e che l’uno non possa fare a meno dell’altro, in una sorta di mutuo soccorso.

 

L’obiettivo è comune

Così non sapremo mai, almeno dalla bocca di uno dei presunti protagonisti, il perché del treno Italicus, e se davvero ci fu questa trattativa stato-mafia, con lo stato ufficialmente eletto che cede ai ricatti dell’antistato. Dopodiché scende la pax mafiosa. Segreti di Stato? Coinvolgimento dei Servizi? Tutta roba per un bel film giallo. Rimane il fatto che Totò Riina è morto da eroe, secondo la parte mafiosa, ed è diventato per molti una figura di riferimento, da imitare. Infatti non ha mai parlato, non ha rivelato i segreti dell’Italia dei giorni nostri. Nel film ‘La grande guerra’ gli eroi sono Gassman e Sordi, fucilati perché non hanno voluto rivelare ciò che in effetti non sapevano. Diversa la posizione di Riina: sarebbe morto comunque, ma non ha rivelato ciò che qualcuno voleva conoscere, e ciò che qualcun altro preferiva non si conoscesse. Vista dalla parte di Cosa Nostra, è morto da eroe.

Roberto Ragone

L’Intervista di Chiara Rai al dottor Giuseppe Ayala su “Troppe coincidenze. Mafia Poteri occulti e politica”




Bruno Contrada: un torto che resterà insanabile

Sulla vicenda del Prefetto Bruno Contrada ripresa dal programma di approfondimento giornalistico Officina Stampa condotto dal direttore responsabile di questo quotidiano Chiara Rai, nel corso di 7 puntate andate in onda tra il 28 settembre e il 16 novembre di quest’anno, dove sono intervenuti diversi rappresentanti delle Istituzioni, un prezioso contributo da parte del giornalista Giancarlo Perna, già penna dell’Ansa, de L’Europeo, di Panorama de il Giornale, allora diretto da Indro Montanelli, dove permane fino al 2014, di Libero e attualmente de La Verità diretto da Maurizio Belpietro.

 

Di seguito riceviamo e pubblichiamo da Giancarlo Perna

 

Il torto subito da Bruno Contrada resterà insanabile. Era giunto ai più alti gradi della Polizia e considerato il detective antimafia per eccellenza. Alla vigilia di Natale del 1992, la giustizia con cui collaborava lo ha arrestato. Passò 2 anni e sette mesi in carcere preventivo. Ha subito 4 processi. Assolto in uno e stato poi definitivamente condannato per mafiosità. Ha scontato altri 2 anni in una fortezza militare, 4 agli arresti domiciliari, 2 anni gli sono stati condonati per buona condotta.

Perché questo errore giudiziario? La magistratura ha preferito credere ai pentiti, fiori di mafiosi, alcuni arrestati da Bruno Contrada e assetati di vendetta, piuttosto che al capo della polizia in carica, a 4 ex capi della polizia, a capi del Sisde, generali e prefetti che testimoniarono sulla sua perfetta fedeltà ai propri doveri. Questo la dice lunga sulla fiducia reciproca tra corpi istituzionali in questo paese.

Vilipeso in Italia, Bruno Contrada è stato riabilitato dalla Corte europea per i diritti dell’uomo al cui vaglio la nostra giustizia esce con le ossa rotte. La Corte con una prima sentenza ha condannato l’Italia a risarcire Bruno Contrada per violazione dei diritti umani avendolo tenuto in carcere malato. Con una seconda, perché il processo non doveva neanche svolgersi, mancando di sufficienti basi legali. Contrada riavrà i gradi, gli arretrati economici e gli avanzamenti di carriera negati.

Resta che aveva 61 anni quando l’ingiustizia lo ha travolto e ne ha 87 ora che la giustizia ha ripreso il sopravvento. Gli rimane anche l’amarezza che solo nei tribunali esteri sono state capite le sue ragioni, alle quali i tribunali del proprio paese erano rimasti sordi.

Giancarlo Perna

 

Officina Stampa il programma condotto da Chiara Rai andato in onda lo scorso 16 novembre 2017 

 




Caso Contrada, il senatore Compagna: “L’amico Bruno, esemplare servitore dello Stato”

Sesta parte dell’intervista rilasciata a Chiara Rai dal Prefetto Bruno Contrada quella andata in onda a Officina Stampa giovedì 6 novembre. A commentare i fatti storici che hanno riguardato la vicenda del già capo della Mobile di Palermo il Senatore Luigi Compagna (video intervista rilasciata a Gianpaolo Plini per L’Osservatore d’Italia), membro Gruppo FL (Id-PL, PLI), membro della 3ª Commissione permanente (Affari esteri, emigrazione), membro sostituto del Comitato parlamentare per i procedimenti di accusa, membro della Delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), membro della Commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro.

 

CLICCARE PER GUARDARE LA VIDEO INTERVISTA AL SENATORE LUIGI COMPAGNA

 

Bruno Contrada è un ex funzionario, agente segreto ed ufficiale di polizia italiano

È stato dirigente della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo nonché capo della sezione siciliana della Criminalpol. Il suo nome è stato associato alla cosiddetta “zona grigia” tra legalità ed illegalità, tra Stato e mafia. È stato arrestato il 24 dicembre 1992, in un primo momento assolto in appello ma, successivamente, condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. In tutto Contrada ha scontato 4 anni di carcere, 4 di arresti domiciliari mentre 2 anni sono stati sottratti alla pena per buona condotta. Il caso è rimasto per lungo tempo al centro del dibattito pubblico per la sua difficile interpretazione.

L’11 settembre 2014 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato lo Stato Italiano

per la mancata concessione degli arresti domiciliari al Contrada nel 2008 a seguito delle condizioni di grave malattia (si era dimagrito di 22 kg) che lo rendevano incompatibile col regime carcerario appellandosi all’articolo 3 del CEDU riguardo il divieto di trattamenti inumani o degradanti. Nel 2015 altra condanna in ossequio al noto principio italiano del nulla poena sine lege, dato che all’epoca dei fatti (1979-1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era previsto dal nostro codice penale. Nel 2017 si è pronunciata la Cassazione che ha dichiarato l’improduttività di sentenza penale della condanna. Per ultimo, il 14 ottobre 2017 il capo della Polizia Franco Gabrielli ha revocato il provvedimento di destituzione di Bruno Contrada, reinserendolo nel sistema pensionistico della Polizia di Stato. Tale revoca ha valenza retroattiva e inizia dal 1993.

 

È interessante analizzare come il caso Bruno Contrada appartenga ad un’epoca storica molto densa di fatti a livello politico

Gli anni 90 della storia italiana hanno segnato, irrimediabilmente, il concetto ed il modo di avvicinarsi alla politica. L’ambizione di riassumerli in poche righe sarebbe utopica, ma basti ricordare come il Pool di Mani Pulite abbia portato allo scioglimento della DC ed al ridimensionamento del PDS e soprattutto come tale intervento giudiziario abbia decretato la fine della Prima Repubblica ed il comincio della Seconda Repubblica. Il Pool era composto da Pier Camillo Davigo, Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo incaricati di indagare sulla famosa Tangentopoli che iniziò con l’arresto del “mariuolo isolato” Mario Chiesa esponente del Partito Socialista Italiano, il quale rivelò che il sistema di tangenti era molto più esteso di come l’opinione pubblica e Bettino Craxi avevano immaginato. Di lì a poco si arrivò al crollo della partitocrazia italiana.

 

I magistrati proseguirono con l’arresto di numerosi tra politici ed imprenditori, parte dei quali si suicidarono

Il clima come racconta Davigo era però anche ironico: “molti confessavano anche al citofono”. La storia di mani pulite si dovette intrecciare indubbiamente col la Trattativa Stato-Mafia nella quale fa da chiave di volta il papello di Totò Riina e le Leghe del Sud di Provenzano. La mafia voleva entrare in politica. In questo clima di cospirazioni, di frode e di collaborazione mafiosa venne accusato Bruno Contrada che, seppur ancor fiducioso nelle istituzioni, dichiara a Chiara Rai che se quel 19 luglio del 1992 non fosse stato su una barca con 12 testimoni, sarebbe stato accusato anche della strage di via d’Amelio nella quale rimase ucciso Paolo Borsellino.

Gianpaolo Plini




Bruno Contrada: quelle strane coincidenze del 1992

Un’altra puntata sul caso del neo reintegrato “sbirro” Bruno Contrada il quale è stato intervistato dalla giornalista Chiara Rai a Palermo. Una video intervista commentata negli studi della trasmissione giornalistica Officina Stampa arrivata ormai alla seconda stagione e che finora ha avuto tutti ospiti di rilievo che hanno trattato temi di respiro nazionale. La serie “Fango sulla divisa” che è cominciata con il caso Bruno Contrada è entrata nel vivo. In studio, lo scorso giovedì 19 ottobre, è stata ospite l’Onorevole Stefania Craxi che ha commentato un anno difficile che coincide proprio con l’anno dell’arresto di Contrada: il 1992.


Il paradosso delle sentenze e “i confidenti” Bruno Contrada, ha risposto a diverse domande della giornalista: “Mi chiede come si operava? Con i confidenti. E dove si vanno a trovare i confidenti? Nei conventi delle Orsoline?  O delle Clarisse o dei Francescani? Nll’ambiente della criminalità. E chi è che deve scovarli? Chi deve procurarseli? Gli sbirri, i poliziotti”.

Poi si è puntata l’attenzione sulla figura del boss di Mondello Rosario Riccobono: ”Riccobono con la sua cosca – ha proseguito Bruno Contrada –  era stato responsabile dell’omicidio dell’agente Gaetano Cappiello ed è stato uno dei criminali che più ho perseguito. Ammetto di essere uscito un po’ fuori dalla deontologia professionale perché lo considerai un nemico personale ma ero particolarmente legato a quel ragazzo napoletano, come me, di soli 22 anni che lavorava con noi alla Squadra Mobile di Palermo. Giurai, quando Gaetano Cappiello morì tra le mie braccia che avrei fatto di tutto per capire chi lo aveva ucciso. Dopo indagini e lavoro serrato riuscì a portare Rosario Riccobono e Gaspare Mutolo davanti alla Corte d’Assise che non solo li assolse per l’omicidio di Cappiello ma anche dall’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso dicendo che non c’erano prove che quei due criminali appartenessero alla mafia. Quel che è ancora più assurdo è che quella sentenza fu scritta da un giudice e dal presidente della V sezione penale  del Tribunale di Palermo che mi condannò dicendo che ero amico di Rosario Riccobono. Adesso, se è vero che è fisiologico che il magistrato assolva e il poliziotto arresti, è nel sistema e accade spesso, non è fisiologico però che un magistrato assolve per insufficienza di prove due criminali rimettendoli in libertà e poi condanna il poliziotto che li ha portati davanti a lui chiedendogli di farli condannare”.

 

Lo sbirro Contrada e i boss della mafia Poi Bruno Contrada ha rimarcato il fatto che se Rosario Riccobono fosse stato un suo confidente lo avrebbe detto perché quando si tenne il processo il boss era già morto nell’’82: “Riccobono non è stato mai un mio confidente perché ero contrario ad avere come confidenti gli esponenti di spicco, cercavo quelli con un piede dentro e uno fuori ma non i capi della mafia”.

 

Le dichiarazioni di Buscetta sulla Polizia di Stato di Palermo Bruno Contrada ha anche detto che quando Tommaso Buscetta fu interrogato da Giovanni Falcone il quale gli chiese informazioni sugli organi di polizia di Palermo, il pentito rispose: “A me risulta che gli organi di polizia a Palermo hanno fatto sempre il loro dovere”.

Bruno Contrada ricorda ancora: “Buscetta lo prelevai a Roma insieme a Ninni Russo e lo portammo a Palermo passando la nottata intera in treno a parlare con Buscetta e quando questo raccontava di come era stato trattato in Brasile dalla polizia politica “securitad social” e che era stato costretto a chinarsi in terra per mangiare io intervenni in maniera istintiva e sbagliai a parlare dicendo che  gli stessi sistemi dovevamo adottarli noi poliziotti a Palermo con voi mafiosi e d’allora lui non mi rivolse più la parola”.

Tra gli accusatori di Contrada c’è Gaspare Mutolo: “Io ho perseguito Mutolo e l’ho fatto condannare a 9 anni di carcere. Mutolo non aveva accusato solo Contrada ma anche il Pm Domenico Signorino che si sparò perché non resse l’accusa e i tre giudici che lo avevano condannato. Mutolo è stato a mio parere il più bugiardo tra tutti i pentiti”.

Stefania Craxi ha definito Bruno contrada: “Il più grande sbirro italiano che ha arrestato decine di mafiosi quando arrestare significava passare giornate intere a fare indagini senza mezzi, ne la tecnologia di oggi. Per lui – ricorda Stefania Craxi – hanno testimoniato centinaia di funzionari dello Stato e invece si è voluto ‘usare’ dei pentiti, gente che si è macchiata di delitti efferati perché era un momento in cui gli apparati dello Stato seguivano gli ordini e Bruno Contrada che è un uomo dello Stato agli ordini di qualcosa contrario alla nostra Repubblica non sarebbe mai stato capace di farlo”.

 

Stefania Craxi: “Nessun riconoscimento per mio padre ancora a Milano” Poi, inevitabilmente si è parlato di Bettino Craxi tra i più grandi rappresentanti della Prima Repubblica. A lui sono state dedicate tante vie e piazze in italia: “Certamente questi riconoscimenti che non sono una questione toponomastica ma una questione politica fanno molto piacere – dice stefania Craxi – ma ho il rammarico che proprio da Milano che è la sua città, la città del socialismo riformista, questi riconoscimenti non sono potuti ancora avvenire. E aggiungo anche che incredibilmente sono state le giunte di centrodestra di tanti Comuni italiani a dare riconoscimenti a mio padre, dico incredibilmente perché Craxi appartiene alla storia della sinistra socialista”.

 

Gli effetti della crisi di Sigonella raccontati da Stefania Craxi Nel parlare di Bettino Craxi, gli ospiti di Officina Stampa, hanno citato la crisi di Sigonella quando l’allora presidente del Consiglio piegò le decisioni di Ronald Regan: “Mi dà agio di ricordare – aggiunge Stefania Craxi – che il dvd della notte di Sigonella è in edicola con Panorama. Una ricostruzione fedele di ciò che è successo. Vorrei però dire che il “decisionista” Craxi in realtà era un riflessivo che prima di prendere una decisione rifletteva a lungo ma detto questo in quei cinque giorni, tanto durò il rapimento della nave Achille Lauro fino alla liberazione degli ostaggi e alla ripartenza dell’aereo Egiziano, Craxi ebbe poco tempo per decidere, poche informazioni sommarie e decise quindi da solo ma in base a delle sue convinzioni profonde, innanzi tutto che l’Italia era una Nazione e non un paesello e che doveva essere rispettata anche dai nostri maggiori alleati e poi che non dovesse passare il principio che a governare lo scenario internazionale dovesse essere “la legge del più forte” e non i principi del diritto internazionale. L’altra grande convinzione è che l’uomo viene prima di qualsiasi altra cosa e quindi il suo primo tentativo fu di usare le armi della diplomazia per salvare gli oltre 500 ostaggi nella nave e poi c’era sotto tutto questo una grande visione mediterranea l’idea che l’Italia dovesse avere nel Mediterraneo un ruolo di leadership e quindi un suo ruolo importante sullo scenario internazionale”

 

Bettino Craxi e la caduta della Prima Repubblica Parlando di distruzione del sistema politico italiano, del fatidico 1992, Stefania Craxi dice suo padre riteneva che certamente ambienti nazionali e internazionali dell’epoca che hanno approfittato della temperie politica per comprare le aziende di Stato a prezzi d’incanto non avrebbero voluto una classe dirigente che si fosse opposta alla svendita del patrimonio italiano: “Ebbene Craxi – continua sua figlia – aveva dato l’impressione di un personaggio che non si sarebbe mai piegato se non agli interessi del suo paese”.

Uno spirito di servizio che indubbiamente Stefania Craxi riconosce anche a Bruno Contrada: “Bruno non soffriva il carcere perché era un uomo abituato a vivere per strada. Lui subiva l’umiliazione e quindi la restituzione della divisa (ndR. il riferimento è alla revoca di destituzione effettuata nei giorni scorsi dal Capo della Polizia Gabrielli) è una sconfitta per questa malagiustizia ma anche un atto di riconoscimento per un uomo che ha speso la vita per servire il suo Paese”.

Chi dovrebbe avere il coraggio di scusarsi adesso? Non ci sarà nessuno che scriverà una lettera a Bruno Contrada? Ci si chiede in studio ad Officina Stampa: “Io credo – dice Stefania Craxi – che ci sono dei responsabili di questo atto di sciacallaggio, che hanno perpetrato questa infamia e che per dovere morale potrebbero anche chiedere scusa”

 

I nemici di Bruno Contrada e il 1992 Il riferimento fa pensare immediatamente e spontaneamente sempre al 1992 quando sono iniziati tutti problemi di Bruno Contrada che ricevette l’incarico dal direttore del Sisde di riorganizzare il servizio segreto civile per contrastare il pericolo dell’eversione mafiosa. A qualcuno probabilmente quell’incarico assegnato a Bruno Contrada non faceva piacere, nonostante il Governo avesse dato indicazioni precise in tal senso. I fatti e le testimonianze di Contrada dicono chiaramente che la Direzione Investigativa Antimafia non gradiva assolutamente. All’epoca, era diretta dal generale dei Carabinieri Giuseppe Tavormina, il suo vice operativo era Gianni De Gennaro, che aveva un grado inferiore a quello di Bruno Contrada. Insomma i due si muovevamo su strade parallele.

 

Il mancato arresto di Bernardo Provenzano, lo smantellamento del pool e le manette per Bruno Contrada In quello scorcio del 1992, Bruno Contrada aveva un’indicazione importante per catturare uno dei due latitanti più pericolosi di Cosa nostra: Bernardo Provenzano. Una fonte gli aveva passato i numeri di cellulare di alcune persone vicine al boss. D’intesa con l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi era stato creato un gruppo di lavoro misto, con elementi della Criminalpol e dei Servizi. Ma all’improvviso quel gruppo venne smantellato nonostante le ottime possibilità di arrivare all’obiettivo. E qualche settimana dopo Bruno Contrada fu arrestato. E lo “sbirro” non nasconde nulla: “Ho avuto anche dei nemici oltre a moltissimi estimatori – dice a Chiara Rai –  persone che per emergere avevano bisogno di abbassare il valore degli altri e questo l’ho avuto anche io nella mia amministrazione ma ho avuto anche 140 uomini delle istituzioni che sono venuti a deporre a favore della verità e della giustizia non di Bruno Contrada intendiamoci!

 

E proprio Contrada nella seconda parte dell’intervista dice chiaramente: “La mia storia bisogna contestualizzarla con l’anno 1992 un periodo in cui era in atto un processo politico di sovvertimento dei valori politici che avevano retto l’Italia dal dopoguerra in poi per circa 50 anni. C’era la volontà politica di distruggere il partito egemone rappresentato dalla Democrazia Cristiana con uomini di valore, statisti, anche il Partito Socialista che ha avuto sempre una grande importanza nella vita politica italiana e i vari partiti satelliti Repubblicano, Socialdemocratico, ecc, insomma statisti che dalle macerie della guerra nel ‘45, portarono l’Italia a rappresentare una delle massime potenze industriali del mondo. Così oltre a colpire quel mondo politico per distruggerlo e farlo crollare definitivamente dovevano essere colpiti anche quegli uomini di apparato che venivano considerati in quel contesto, tanto per citarne uno il Magistrato Corrado Carnevale”.

 

Il caso del Magistrato Corrado Carnevale Carnevale fu accusato di aver favorito, durante la presidenza della prima sezione penale della Cassazione, alcuni imputati eccellenti in processi di Mafia, annullando talvolta le condanne per vizi di forma (solitamente vizi procedurali, inosservanza delle norme di legge o difetto di motivazione ). Fu però definitivamente assolto nel processo per concorso esterno in associazione di tipo mafioso (in seguito ad accuse sempre del solito Gaspare Mutolo che lo coinvolse nel processo a Giulio Andreotti), in quanto il fatto non sussisteva; vista la richiesta volontaria di trasferimento a una sezione civile da parte di Carnevale, fu bloccato anche il procedimento di inchiesta a cui era sottoposto. ll 29 giugno 2001, dopo l’assoluzione in primo grado dell’8 giugno 2000 perché “il fatto non sussiste”, Corrado Carnevale fu condannato dalla Corte d’appello di Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa a 6 anni di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e all’interdizione legale lungo l’arco della pena (Carnevale era in corsa per ottenere la carica di primo presidente della Corte). Poche voci si levarono in sua difesa, tra esse quella del leader radicale Marco Pannella che definì la sentenza “un’esecuzione, una condanna ignobile, un momento di trionfo del neofascismo etico di sinistra”. La sentenza finale in Cassazione del 30 ottobre 2002, davanti alle sezioni penali riunite, lo assolse invece con formula piena, tramite annullamento senza rinvio che ribaltò la sentenza della Corte d’appello e ripristinò la sentenza di primo grado, constatando prove insufficienti (articolo 530) a sostenere tali accuse, non essendo dimostrabile che Corrado Carnevale volesse aiutare la mafia (rilevando che gli annullamenti erano stati effettuati anche in processi che non riguardavano la mafia).

 

L’omicidio Cappiello Il proprietario di un noto laboratorio fotografico era stato più volte oggetto di minacce ed estorsione da parte di banditi che chiedevano soldi in cambio di protezione. Il commerciante si rivolge alla Polizia, che organizza un servizio per catturare gli estortori. Dopo numerosi appostamenti, andati a vuoto per la particolare cautela adoperata dai banditi, l’ultimo appuntamento, quello decisivo è previsto per le ore 21,30 del giorno 2 Luglio, davanti alla Chiesa della Resurrezione nel quartiere “Villaggio Ruffini”. La zona è circondata da agenti e sottufficiali in borghese, mentre un furgoncino civetta è posteggiato ad una ventina di metri dal luogo dell’appuntamento. L’agente Cappiello si trova nella macchina dell’imprenditore per proteggerlo durante la consegna del denaro e poi lasciare intervenire i colleghi. Alle ore 21,15 i banditi telefonano a Randazzo dicendogli di attendere il loro arrivo in macchina. Quando si avvicinano, Cappiello esce improvvisamente dalla vettura, dichiarandoli in arresto, ma viene raggiunto da cinque colpi al petto. Morirà poco dopo all’ospedale di Villa Sofia, tra le braccia del suo capo della mobile, Bruno Contrada. Cappiello lasciò la Moglie e un figlio in tenera età




Officina Stampa: la caduta della prima Repubblica, il 1992 e il caso Bruno Contrada

L’onorevole Stefania Craxi interverrà oggi (giovedì 19 ottobre 2017) in diretta a partire dalle ore 18 alla trasmissione Officina Stampa condotta dalla giornalista Chiara Rai.

Puntata interamente dedicata al caso del dottor Bruno Contrada che pochi giorni fa ha visto revocarsi dal Capo della Polizia Franco Gabrielli il provvedimento del 13 luglio 2007, a firma dell’allora capo della Polizia Antonio Manganelli, con cui era stato destituito di diritto dall’amministrazione della Pubblica Sicurezza con decorrenza retroattiva 13 gennaio 1993.

Ospiti della trasmissione condotta da Chiara Rai, insieme all’onorevole Stefania Craxi: l’avvocato Stefano Giordano legale del dottor Bruno Contrada in collegamento Skype da Palermo, il giornalista opinionista Emilio Ammaturo, l’avvocato Alessandro Biaggi già sindaco di Nemi (RM) per due mandati. Previsto inoltre il collegamento telefonico da Palermo con il dottor Bruno Contrada.  

Nel corso della puntata di Officina Stampa sarà messa in onda la quarta parte della video intervista di Chiara Rai al dottor Bruno Contrada che entrerà nel vivo di quel 1992 che non coincide soltanto con il suo arresto, ma anche e soprattutto con quegli avvenimenti storico politici che hanno segnato la fine della prima Repubblica.

Cliccare per vedere la puntata direttamente su questa pagina a partire dalle ore 18 di giovedì 19 ottobre 2017




Bruno Contrada, reintegro: il provvedimento e le anticipazioni di Officina Stampa

Revocato il provvedimento del 13 luglio 2007 con cui il dottor Bruno Contrada era stato destituito di diritto dall’amministrazione della Pubblica Sicurezza con decorrenza retroattiva 13 gennaio 1993. “Il periodo di tempo ricompreso tra il 13 gennaio 1993 ed il 30 settembre 1996 (giorno antecedente a quello in cui il dottor Contrada è stato collocato in quiescenza), – si legge sull’atto firmato dal Capo della Polizia Direttore Generale della Pubblica Sicurezza dr. Franco Gabrielli – durante il quale ha esplicato i propri effetti il provvedimento di sospensione cautelare dal servizio datato 15 gennaio 1993 ai sensi dell’art. 9, primo comma, del d.P.R. N 737 del 1981, è riconosciuto utile al citato funzionario sia agli effetti giuridici e sia agli effetti economici e previdenziali. In relazione a detto periodo è riconosciuto competere al dottor Bruno Contrada l’intero trattamento economico previsto dalle vigenti disposizioni di legge, con interessi e rivalutazione monetaria, detratto quanto già dallo stesso percepito a titolo di assegno alimentare.”

Il dottor Bruno Contrada potrà quindi ora beneficiare degli stipendi arretrati con gli interessi grazie al provvedimento di reintegro firmato dal Capo della Polizia, dopo che era stato destituito da Antonio Manganelli, all’epoca al vertice del corpo di pubblica sicurezza. Un provvedimento, quello del Capo della Polizia, che sicuramente non potrà restituire al dottor Bruno Contrada quelli che ha definito “25 anni di sofferenza, mezzo secolo di dolore sapendo di essere innocente e di avere servito con onore lo Stato, le istituzioni e la Patria” e che ora lo vede assolto dall’Italia e dall’Europa.

E soltanto tre settimane è iniziato l’approfondimento de l’Osservatore d’Italia proprio su questo caso. Tante le testimonianze di funzionari di Polizia intervenuti a commentare e ad arricchire di colpi di scena una lunga video intervista a Bruno Contrada realizzata dal direttore del giornale Chiara Rai. Il ripercorrere gli anni più intensi di quella che è stata la lotta alla mafia portata avanti dalla squadra Mobile di Palermo al comando del dottor Bruno Contrada ha aperto, infatti scenari inediti con episodi mai narrati fuori le porte del processo all’ex capo della squadra Mobile palermitana come ad esempio lo smantellamento di un pool composto dallo stesso Bruno Contrada con gli uomini della Squadra Mobile di Palermo, della Criminalpol e cosa non comune anche dei servizi segreti.

 

Questo gruppo di lavoro, secondo il racconto del già dirigente generale di Polizia dottor Roberto Scotto, è stato sciolto quando si trovava a un passo dal catturare il boss latitante Bernardo Provenzano e la sensazione espressa da Scotto è quella che non si poteva arrestare Bruno Contrada se Bruno Contrada la settimana prima avesse arrestato Bernardo Provenzano.

Intanto il prossimo giovedì 19 ottobre 2017 alle 18 sarà trasmessa Officina Stampa (www.officinastampa.tv), il programma di approfondimento giornalistico condotto da Chiara Rai e in apertura trasmissione andrà in onda la quarta parte della video intervista al dottor Bruno Contrada che entrerà nel vivo di quel 1992 che non coincide soltanto con il suo arresto, ma anche e soprattutto con quegli avvenimenti storico politici che hanno segnato la fine della prima Repubblica.




Bruno Contrada: reintegrato in polizia l’ex capo della Mobile di Palermo

PALERMO – Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha revocato il provvedimento di destituzione di Bruno Contrada, ex capo della squadra Mobile di Palermo e numero due del Sisde. La decisione, resa nota dal legale di Contrada, l’avvocato Stefano Giordano, segue la sentenza con cui la Cassazione, nei mesi scorsi, aveva revocato la condanna di Contrada a 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La revoca della destituzione è retroattiva e decorre dal gennaio del 1993, quando l’ex dirigente della Mobile venne arrestato.

“È un giorno importante per il nostro assistito, –  dichiarano gli avvocati Stefano Giordano e Vittorio Manes, difensori di Bruno Contrada e autori del ricorso vittorioso in Cassazione – che dopo tanti anni vede restituita la sua onorabilità e viene reinserito tra i prefetti della Polizia, ma più in generale per tutti, perché la forza del diritto prevale sulle ingiustizie. Esprimiamo sincero apprezzamento e stima nei confronti del Capo della Polizia dott. Gabrielli per la sollecitudine e la disponibilità dimostrata, un esempio dell’Italia che funziona.”

 




Caso Bruno Contrada, Boncoraglio: “La squadra Mobile di Palermo era una macchina da guerra”

Boncoraglio: “È umano pensare, ma che cosa abbiamo fatto allora? La cosa più importante che era quella di eliminare il tarlo, non l’abbiamo saputa fare e allora tutti a casa!”.

Il Prefetto Vincenzo Boncoraglio

Ospite in studio nella puntata di giovedì 12 ottobre di Officina Stampa, per commentare il terzo episodio dedicato al caso di Bruno Contrada, è stato il Prefetto Vincenzo Boncoraglio, un uomo dello Stato che ha ricoperto le più alte cariche e che ha iniziato la sua carriera nella Polizia di Stato nel ’73. Un inizio non certo passato in sordina perché Boncoraglio è entrato subito alla Questura di Palermo ed assegnato alla Squadra Mobile con il grado di Commissario. Poi la promozione a vice questore aggiunto e ancora alla direzione di commissariati quali Mondello e Zisa. Insomma dal ’73 all’85 è stata la lunga permanenza di Boncoraglio a Palermo in un periodo storico dove a capo della squadra mobile ci sono stati due grandi uomini: Boris Giuliano e Bruno Contrada. “Noi all’epoca giovani funzionari, eravamo animati dall’amore per la polizia giudiziaria – ha detto Boncoraglio – dalla volontà di dedicarsi a questa meravigliosa attività che presenta tanti rischi ma il nostro sogno era di fare un salto in quella che si presentava come una vera e propria palestra dove si praticava lo sport della polizia giudiziaria. Perché – prosegue il Prefetto –  o si è appassionati sino a sacrificare i valori più importanti della propria vita coinvolgendo anche la famiglia o si può continuare a esser funzionari di polizia dedicati ad altre attività importanti e fondamentali ma che non rientrano nella “Polizia giudiziaria Doc”. E noi, abbiamo avuto la fortuna di essere guidati da due pilastri della polizia giudiziaria italiana con risvolti internazionali: Contrada e Giuliano. Per noi quattordici funzionari che lavoravamo tante ore al giorno loro erano dei fari”.

 

Boncoraglio cita ancora il numero 14, ricordato anche da Contrada nell’intervista realizzata a Palermo da Chiara Rai: “Quattordici sono stati i funzionari che per 14 anni si sono avvicendati  alla Squadra mobile. Quattordici sono state le ore di lavoro ininterrotte, ogni giorno, che all’epoca non davano possibilità di riposo settimanale, ne di rientri e neppure di festivi perché il criminale non aspetta certo il rientro delle pattuglie per agire. Dopo i fatti che hanno colpito il nostro capo Bruno mi chiedo ma come abbiamo fatto noi funzionari sia di primo pelo che di grande esperienza, i sottufficiali, la squadra Mobile che contava quasi 300 unità, in tutte quelle ore di lavoro e convivenza a non aver percepito un rumor, un qualcosa che potesse parlare negativamente di Bruno perché magari un po’ troppo stretto all’uno o all’altro clan. Siamo stati ciechi e sordi noi che per quattordici lunghi anni non abbiamo saputo vedere o sentire se davvero qualcosa non andava? Io mi rifiuto categoricamente di pensare che quattordici sbirri , il termine lo cito in maniera esaltativa, non abbiano percepito neppure una flebile indiscrezione sulla presunta corruzione o contiguità del nostro capo agli ambienti mafiosi. È la prima volta che mi capita e sono contento di fare questa considerazione. Allora è umano pensare, ma che cosa abbiamo fatto allora? La cosa più importante che era quella di eliminare il tarlo, non l’abbiamo saputa fare e allora tutti a casa!”.

 

Erano anni difficili quelli vissuti da Boncoraglio e gli altri funzionari di Polizia a Palermo: “Lo ha detto anche Bruno – Contrada Ndr. – nell’intervista – prosegue Boncoraglio –  noi i pentiti non li avevamo in quel tempo, non esistevano uffici informatici o pilastri legislativi che consentissero il sequestro di beni, una consegna controllata di stupefacente, degli arresti simulati. Avevamo armi spuntate, era già grasso che colava se un confidente ci diceva qualcosa in cambio di avere fatto un favore, una raccomandazione all’ufficio patenti che gli dessero al più presto possibile il permesso di guida. Insomma, non c’erano ne quattrini ne soldi ma c’era un ufficio che Boris Giuliano e Bruno Contrada seppero lanciare al livello europeo, quella squadra Mobile di Palermo era una macchina da guerra e tutti i giornalisti erano interessati a far emergere come operava questa macchina”.

 

Emozionante l’episodio che ricorda Boncoraglio legato alla data del 6 ottobre del ’79: “Io – racconta il Prefetto – in qualsiasi parte mi trovo, ogni 6 ottobre, faccio gli auguri a Bruno Contrada per San Bruno. Anche il 6 ottobre del ’79 lo chiamai, era un modo per esorcizzare un episodio cruento successo a Palermo in una gioielleria: sventai una rapina facendo fuori uno dei rapinatori e recuperando il bottino. Sparai un colpo che uscendo dalla zona occipitale del cranio del malvivente colpì anche il secondo rapinatore al braccio. Io fortunatamente rimasi illeso e c’erano invece tantissime condizioni che hanno messo a serio rischio la mia vita. Ebbene,  devo a Bruno Contrada se con una grafia e un contenuto di una lettera che io conservo gelosamente riuscì a informare e a raccontare in maniera dettagliata i fatti che mi portarono ad avere una promozione al merito straordinario. Devo tanto a Bruno e con me tanti altri funzionari che hanno avuto questa vicinanza affettuosa del ‘nostro capo’ che non era soltanto giustificata da lavoro, pattuglie, ma soprattutto l’amalgama che teneva noi altri era il rispetto reciproco, il coinvolgimento e la condivisione di sacrifici con tutti i nostri colleghi e la certezza di avere questo punto di riferimento che prima per noi era Bruno Contrada e successivamente Boris Giuliano. Bruno Contrada se eventualmente si fosse sporcato o mascariato le mani, come si dice in gergo, per il suo lavoro non è minimamente imputabile di nulla e io essendo stato un testimone della difesa insieme ad altri 300 funzionari dello Stato ho sempre ritenuto che l’episodio potesse capitare a chiunque di noi. Bruno Contrada è un uomo dello Stato, un grande amico e un grande insegnante”.

Chiara Rai




Caso Bruno Contrada, la testimonianza di Roberto Scotto: “Eravamo a un passo dalla cattura di Provenzano quando fummo fermati”

Prosegue il commento nel salotto rosso di Officina Stampa all’intervista realizzata dalla giornalista Chiara Rai al dottor Bruno Contrada, già capo della Squadra Mobile di Palermo ed ex numero due del Sisde nei confronti del quale la Cassazione ha dichiarato ineseguibile e improduttiva di effetti penali la condanna del 2007 per concorso esterno in associazione mafiosa. L’11 febbraio 2014 la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato lo Stato italiano perché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione degli arresti domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Il 13 aprile 2015 la stessa Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali da parte dello Stato italiano perché Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era ancora previsto dall’ordinamento giuridico italiano (principio di nulla poena sine lege), e nella sentenza viene affermato che “l’accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara”.

 

Subito dopo la messa in onda della seconda parte dell’intervista all’ex capo della Mobile palermitana si è iniziato ad approfondire la figura di Contrada e anche a fare chiarezza su quelli che erano i reali rapporti lavorativi che intercorrevano tra lo stesso e i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Qualche “articoletto” sul web ha tentato di gettare fango e discredito, facendo pensare che ci fosse della disistima dei magistrati nei confronti di Contrada ma finora, le varie lettere di encomio e le testimonianze degli uomini che hanno lavorato al fianco di Bruno Contrada e hanno conosciuto i giudici Falcone e Borsellino raccontano tutt’altro. Lo stesso Contrada, nel corso dell’intervista con Chiara Rai ha parlato in questi termini: “tra me i dottori Falcone e Borsellino intercorrevano buoni rapporti professionali che di solito intercorrono tra magistrato e poliziotto. Tra l’altro non c’è stato molto tempo per approfondire la conoscenza perché ho intrattenuto rapporti lavorativi con il dottor Falcone  il dottor Borsellino soltanto dall’’80 all’’82. Tra l’altro ci sono anche dei risultati lavorativi raggiunti insieme – ha proseguito Contrada – basti pensare alla prima grossa inchiesta svolta dal dottore Falcone sulla mafia siculo – americana, mi riferisco al rapporto Spatola Rosario, nome emerso anche nel falso sequestro di Michele Sindona.

Rosario Spatola fu protagonista della prima grande inchiesta del giudice Giovanni Falcone su mafia e droga. Esponente di una delle più influenti cosche italo-americane e imparentato con la famiglia Gambino di New York. La sua carriera imprenditoriale, cominciata come venditore ambulante di latte e proseguita come capomastro, aveva avuto una progressione folgorante grazie al riciclaggio dei capitali provenienti dalla droga. Ripercorrendo i canali finanziari del traffico, Falcone aveva messo sotto accusa 75 esponenti della cosca Spatola- Gambino-Inzerillo. Il processo si era concluso con la condanna di Spatola a 10 anni di reclusione. Tutte le indagini che hanno portato a questa condanna sono state svolte da me – aggiunge Bruno Contrada – con l’apporto della squadra mobile e Falcone seguì tutto il caso con grande competenza e dedizione fino ad arrivare al successo dell’operazione che fu un duro colpo per la mafia”. Insomma questo a significare i buoni rapporti che intercorrevano fra il poliziotto Contrada e il magistrato Falcone.

 

Anche per il giudice Borsellino contrada ha espresso parole di massima stima: “Il dottore Borsellino aveva una umanità e un modo di fare che mi hanno colpito e lo ricordo con rimpianto. Non ci siamo frequentati mai al di fuori dei rapporti professionali ma il mio rispetto nei suoi riguardi è stato sempre massimo e posso assicurare che non ho mai percepito diffidenza da parte sua nei miei riguardi. Non riesco a capire per quale motivo il fratello del dottore Borsellino che è a Milano ha avuto qualcosa di contrario da dire nei miei riguardi ma francamente io non sapevo neppure che Borsellino avesse un fratello perché come già detto, non ho avuto il tempo di instaurare rapporti che andassero oltre alla conoscenza in ambito lavorativo. Invece con il dottor Boris Giuliano, con il quale ho lavorato insieme per 16 anni c’era un rapporto fraterno tanto che Boris mi diceva: “Io non ho tre fratelli ma quattro e il quarto sei tu Bruno!”.

 

Il Dottor Roberto Scotto dirigente generale della Polizia di Stato ha avuto modo di commentare questa parte di intervista a Contrada durante la trasmissione web tv Officina Stampa.

Scotto non ha decisamente digerito le parole che Ayala ha indirettamente speso nei riguardi di Contrada quando ha ricordato un presunto episodio nel quale Falcone gli avrebbe detto al telefono “accura a Contrada”. Ayala ha ricordato questo episodio nell’ambito di una intervista a Chiara Rai, aggiungendo che “accura a Contrada”  detto da Giovanni Falcone “il suo peso ce l’ha”. Per Scotto è una parola che può dire tutto come nulla: “Stai attento detto tra due magistrati può significare tutto e niente ed io ritengo che non significhi niente. Poi, da quale pulpito, visto che anche Ayala è stato oggetto di accuse da parte del pentito Mutolo, accuse poi ritenute infondate ma che comunque avevano la stessa consistenza di quelle lanciate nei confronti di Contrada”.

“Diciamo che – ha proseguito Scotto – a fronte delle dichiarazioni di 15 pentiti ci sono 150 testimonianze di istituzioni dello stato, tra funzionari di polizia, prefetti ecc…, che hanno raccontato la verità, e cioè quanto era valido l’uomo Contrada, un servitore dello Stato. Ma dato che vige il principio del libero convincimento, la scelta dei Tribunali che lo hanno condannato è stata quella di dare credito alle dichiarazioni dei pentiti e non ai 150 appartenenti allo Stato”.

Scotto ha poi puntato l’accento sulla figura del cosidetto collaboratore di giustizia: “Il prototipo di pentito merita senz’altro di essere analizzato. Si tratta di un uomo tra i 40 e i 50 anni di età con alle spalle anche 10 omicidi, che è stato condannato e rischia l’ergastolo al 41 bis. Ebbene se a quest’uomo gli si dice “tu domani sei libero, domani puoi avere dei figli, ti aiutiamo a farti una vita”, lui che fa? Accusa anche suo padre. Ebbene nel caso di Contrada evidentemente i pentititi hanno capito in che direzione si indirizzava l’interesse dell’accusa e si sono mossi di conseguenza ma non ci sono prove a sostegno delle dichiarazioni di questi ex mafiosi ed è scandaloso che poi si sono dovuti attendere 25 anni per concludere che Contrada non favori il concorso esterno in associazione mafiosa”.

 

“A un passo dalla cattura di Provenzano quando fummo fermati”

“Io conosco Contrada dal 1975 – racconta Scotto –  quando insegnava alla scuola superiore di polizia dove erano ammessi i vincitori di concorso, non sono mai stato un suo diretto collaboratore, anzi mi correggo, in un caso abbiamo collaborato, Mi riferisco ad un episodio: era il 1992 quando il dottore Contrada prospettò all’allora capo della polizia Prefetto Vincenzo Parisi l’opportunità di creare un gruppo di lavoro dedicato esclusivamente alla cattura del boss Bernardo Provenzano. Parisi accettò e io fui nominato responsabile del gruppo formato da uomini della squadra mobile di Palermo, della Criminalpol e cosa non comune anche dei servizi segreti. All’epoca si riteneva che intercettando e pedinando il nipote di Bernardo Provenzano tale Carmelo Gariffo si potesse arrivare al boss.

L’attrezzatura tecnica se l’era procurata Bruno Contrada, consisteva in una valigetta che consentiva di intercettare le conversazioni mentre si era nella stessa cellula.

Queste indagini furono accelerate da un episodio straordinario perché all’epoca, al comune di Corleone, si presentarono la moglie e i due figli di Bernardo Provenzano che chiesero all’ufficio anagrafe di scriverli e considerarli quindi cittadini a tutti gli effetti. Riuscimmo così – prosegue Scotto – ad acquisire fotografie di primo piano della moglie e i figli e organizzammo anche una perquisizione nel corso della quale fummo scortesi e scatenammo volutamente una reazione al fine di acquisire le voci dei figli di Provenzano. Portammo le voci acquisite al vaglio da un professore di filologia linguistica che ci disse il posto preciso dove questi ragazzi erano cresciuti. Addirittura ben 54 ragazzi che appartenevano a un coro riconobbero il figlio piccolo di Provenzano che andava a lezione con una mountain bike. È vero che non si può dire di aver catturato il latitante se non gli hai messo le manette ma avevamo individuato l’esatto chilometro quadrato, il quartiere dove risiedevano, addirittura il parrucchiere di zona aveva riconosciuto la moglie di Provenzano come una abituale sua cliente. Insomma eravamo a un passo dalla cattura ma in quel momento storico fui chiamato dal Prefetto Luigi Rossi che mi comunicò che dovevamo sospendere l’indagine: io dovetti occuparmi di un omicidio di un dentista di Vibo Valentia e il gruppo di lavoro fu smantellato.

 

Ho un’opinione sullo smantellamento: ho la sensazione che non si poteva arrestare Contrada se Contrada la settimana prima avesse arrestato Provenzano. Ma ripeto questa è solo una mia sensazione non un dato di fatto e su Bruno Contrada posso concludere soltanto dicendo che è un uomo buono, intelligente e un servitore dello Stato”

Officina Stampa – Caso Contrada 1 puntata

 Officina Stampa – Caso Contrada 2 puntata




Caso Bruno Contrada, Giuseppe Crimi: “Se avesse giudicato Falcone l’esito sarebbe stato diverso”

“Se il Giudice Giovanni Falcone fosse stato coinvolto come Magistrato nel processo a Bruno Contrada, non solo il processo contro Contrada non ci sarebbe stato ma non avrebbe mai potuto avere quell’andamento che ha avuto e soprattutto l’esito che ha avuto, perché senza riscontro alle dichiarazioni dei pentiti e al “sentito dire” non si sarebbe mai mosso processualmente.

“Giovanni Falcone era un uomo serio e un magistrato competente”. Parole lapidarie e pronunciate con cognizione di causa dal Dottor Giuseppe Crimi, già dirigente della Squadra Antimafia della Mobile di Palermo che per dieci anni ha lavorato al fianco di Bruno Contrada, Boris Giuliano e ha conosciuto da vicino quelli che ormai rappresentano le icone dell’antimafia per eccellenza: i giudici Falcone e Borsellino.

Con questa dichiarazione, Crimi, capovolge il fiume di informazione “spazzatura” che ha gettato discredito sul poliziotto Contrada, sull’uomo Contrada. Notizie di terza mano che raccontano di pseudo “cattivi” rapporti che intercorrevano tra Falcone e Contrada e di pseudo mancanza di stima del Giudice rispetto all’allora capo della Squadra Mobile di Palermo e poi e capo della sezione siciliana della Criminalpol.

Oltre alle dichiarazioni di Crimi c’è anche una lettera firmata dal giudice istruttore Giovanni Falcone che elogia le doti di Bruno Contrada e lo segnala al questore di Palermo.

Crimi sottolinea, durante il suo intervento alla trasmissione giornalistica Web TV Officina Stampa, che se Giovanni Falcone fosse stato investito di un tipo di caso del genere che ha visto accusato un funzionario di polizia di concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe fatto onestamente le indagini, pur conoscendo la persona che aveva davanti, ma avrebbe fatto i giusti e dovuti approfondimenti per capire se le dichiarazioni dei criminali cosiddetti pentiti avessero un barlume di riscontro con prove reali e non si fermassero soltanto a fumosi “sentito dire”: “Falcone avrebbe agito con professionalità – ribadisce Giuseppe Crimi –  mentre i signori che hanno polemizzato sulla sentenza della Corte Europea e parlano hanno preso per oro colato quello che hanno detto dei pentiti, questo perché probabilmente conveniva portare avanti queste accuse. Non c’è giustizia, non è giustizia questa e non sono giudici coloro che non cercano di trovare elementi probatori rispetto a delle accuse riportate da mafiosi pentiti”.

Il dottor Giuseppe Crimi ha tenuto a fare presente che la stessa sorte è toccata a un altro funzionario dello Stato accusato anch’esso di concorso esterno in associazione mafiosa senza che si siano operati gli opportuni riscontri. Anche questo funzionario ha subito un processo che ricorda i tempi della Santa Inquisizione: “Parlo di Ignazio D’Antone – dice Crimi – un collega che dirigeva la Catturandi per poi diventare dirigente della Criminalpol.

D’Antone, che aveva anche ricoperto l’incarico di capo della squadra mobile di Palermo, secondo l’accusa avrebbe favorito con il suo comportamento le cosche e avrebbe protetto alcuni boss mafiosi. Quest’uomo è stato condannato con quella protervia che contraddistingue un certo tipo di giustizia. Si tratta di un male che ha investito la Magistratura anche se tengo a sottolineare che non tutti i Magistrati sono ingiusti o deviati. Per fortuna che la maggior parte di essi rispettano il mandato che gli è stato assegnato ma purtroppo dobbiamo assistere a fenomeni devastanti che hanno cercato di demolire, ma non ci sono riusciti, uomini che non si sono mai piegati a certe infamanti accuse e che hanno sempre lavorato con onestà e impegno. Ora anche il collega D’Antone dovrà tirare fuori dei soldi e impegnarsi nelle dovute sedi per avere un minimo di giustizia”.

Emozionante dunque la prima puntata di Officina Stampa dedicata al caso Contrada che ha inteso focalizzare l’attenzione su un uomo dello Stato, per l’appunto Bruno Contrada. Ora che l’ex numero 3 del Sisde ha avuto giustizia l’impegno dei media dovrebbe essere quello di cercare la verità sostanziale dei fatti, spulciare tra le carte e cercare davvero di trovare  i riscontri ad accuse così infamanti.

La Corte di Cassazione ha finalmente revocato la condanna a 10 anni inflitta all’ex capo della Mobile di Palermo Bruno Contrada, accusato di concorso in associazione mafiosa. I giudici romani hanno accolto il ricorso del legale di Contrada, Stefano Giordano, che aveva impugnato il provvedimento con cui la Corte d’appello di Palermo aveva dichiarato inammissibile la sua richiesta di incidente di esecuzione. La Cassazione ha così dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”.

Commoventi alcuni passaggi del primo tratto d’intervista a Bruno Contrada: “La giustizia italiana voleva che il processo si svolgesse con l’imputato in stato di carcerazione – racconta Contrada – e non a piede libero. Io dovevo essere presentato come una persona che addirittura era un pericolo per le istituzioni dello Stato secondo i principi dei vecchi processi stalinisti in epoca storica remota a carico di quelli che erano stati gli eroi della rivoluzione bolscevica. Ma quegli eroi dovevano essere presentati all’opinione pubblica come dei grossi malfattori pericolosissimi per l’ordine costituito, affinché l’opinione pubblica digerisse le condanne a morte o lunghi anni di esilio nella Siberia. Io, Bruno Contrada, dovevo essere demolito nella mia considerazione di poliziotto che ha ben operato a Palermo e con maggiori successi. La gente doveva pensare di me: “Se lo tengono carcerato e riaprono un carcere militare dismesso vuol dire che qualcosa di pericoloso ha fatto”. Eppure testimonianze e carte dimostrano tutto il contrario. E siamo soltanto all’inizio.

Chiara Rai