Mostro di Firenze, delitto del 1968: rimettiamo tutto in discussione


GALLERY IN FONDO ALL'ARTICOLO [CLICCARE SOPRA LE FOTO PER INGRANDIRLE]
 
di Angelo Barraco
 
FIRENZE – La notte del 21 agosto 1968, vicino al cimitero di Signa, vengono uccisi Barbara Locci e il suo amante Antonio Lo Bianco a colpi di pistola Beretta. Stefano Mele, marito della donna, viene condannato per il delitto e secondo gli inquirenti avrebbe agito per interessi ben diversi da quelli che gravitavano attorno alla sfera affettiva.
 
L'inattendibilità del test  Numerosi sono gli elementi che hanno spinto gli investigatori dell’epoca ad arrestare Mele, uno tra tutti è stato l’esame del guanto di paraffina che accerta se un soggetto ha sparato o meno. Tale test è stato fatto a Stefano Mele ben 16 ore dopo il delitto. Noi de L’Osservatore d’Italia, rispettando quella che fu la sentenza dell’epoca, abbiamo elementi sufficienti che gettano profondi dubbi sull'attendibilità di quell’esame, diventato uno degli elementi di prova che ha portato alla carcerazione di Stefano Mele. Analizzando in modo capillare la vicenda, abbiamo riscontrato alcuni elementi relativi alla prima fase confessoria di Mele, che risultano estremamente importanti ma che a nostro avviso non sono stati ulteriormente approfonditi nel corso degli anni. Tali elementi avrebbero potuto portare, probabilmente, all’individuazione dell’arma del delitto e del Mostro che ha insanguinato le campagne della Toscana.. 
 
La vicenda “Aprimi la porta perché ho sonno ed ho il babbo ammalato a letto. Dopo mi accompagni a casa perché c’è la mi’ mamma e lo zio che sono morti in macchina”. Sono queste le lapidarie parole che ha pronunciato Natalino Mele a Francesco De Felice, un muratore che viveva nei Campi Bisenzio in frazione S. Angelo a Lecore che dopo aver sentito suonare il campanello di casa, si affaccia dalla finestra e vede sull’uscio della porta un bimbo di sei anni che indossava un maglione grigio, pantaloni corti color marrone scuro, calzini ed era scalzo. Erano le due di notte e il muratore si era alzato per bere un bicchiere d’acqua. Successivamente alla frase pronunciata dal piccolo, De Felice lo fa entrare in casa e con l’aiuto dell’inquilino del piano di sopra che nel frattempo si era svegliato, cercano di ottenere ulteriori informazioni in merito a quanto accaduto. Le deduzioni iniziali fanno vagliare  ai due, l’ipotesi di un possibile incidente in auto ma le insistenze sul piccolo non portano all’ottenimento di nuove informazioni poiché lo stesso continua a ripetere che la mamma e lo zio sono morti ma non sa come.  Allora i due decidono di riferire tutto al Carabinieri e seguendo le indicazioni del bambino giungono in una strada dove vi è parcheggiata una Giulietta Alfa Romeo, con il faro destro ancora in funzione. All’interno di essa vi sono due cadaveri: Si tratta di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco. Il cadavere di Lo Bianco si trovava in posizione supina, con le mani sui pantaloni, come se stessero compiendo un’azione di movimento sui di essi, la cinghia era slacciata ed erano sbottonati. Barbara Locci, la mamma del piccolo Natalino, fu rinvenuta al posto di guida, nel sedile anteriore, semisdraiata. Gli inquirenti ispezionano l’autovettura e rinvengono una pallottola esplosa da una cartuccia calibro 22 con la lettera “H” impressa sul fondello. Sono tanti i bossoli rinvenuti successivamente all’interno dell’auto e nei corpi delle vittime, gli inquirenti ispezionano la zona in cui è avvenuto il delitto ma non trovano nulla. L’unico testimone oculare di questo  terribile delitto è il piccolo Natalino Mele che però dichiara di non aver visto e sentito nulla poiché dormiva sul sedile posteriore dell’auto e non appena si è reso conto che la madre era morta, impaurito, si è incamminato fino alla casa di De Felice, lungo in tragitto di tre chilometri. Immediatamente parte la macchina investigativa e viene interrogato Stefano Mele, all’epoca 49enne e padre del piccolo. L’uomo dichiara agli inquirenti che la moglie, il 21 agosto del 68, era uscita alle 22 con il figlio e si doveva incontrare con un tale “Enrico”. In merito al rapporto con la moglie, Mele afferma che vanno d’accordo, malgrado lui fosse a conoscenza che la moglie era solita intrattenersi con altri uomini e fornisce agli inquirenti i nomi di alcuni amanti della donna tra cui: Giovanni Vinci, Salvatore Vinci, Francesco Vinci e il nome di un tale Enrico. Quando gli inquirenti gli chiedono cosa avesse fatto quella sera lui riferisce di aver aspettato l’arrivo della moglie e del figlio a casa e di non essere uscito a cercarli perché stava poco bene. Un fatto strano e che ha insospettito gli investigatori riguarda il momento in cui i Carabinieri suonano il campanello dell’inquilino del piano di sotto, Mele si affaccia dalla finestra per vedere chi fosse ed esclama “Aspettavo chi mi portassero la notizia se del caso fosse capitato qualche cosa”. Gli inquirenti riferiscono a Mele del brutale omicidio compiuto ai danni della moglie e del suo amante, lui invece sottolinea immediatamente di essere rimasto a casa poiché si era sentito male a lavoro. Si preoccupa invece del figlio, ma il modo in cui pone l’interesse lascia intendere una conoscenza in merito allo star bene del piccolo Natalino.  Le indagini proseguono serrate e gli inquirenti convocano in caserma Francesco Vinci, additato da Mele come amante della moglie. Vinci dichiara che in passato era stato l’amante della donna ma tale episodio non ha compromesso i rapporti con la famiglia Mele, da lui stesso ritenuti buoni. Francesco Vinci inoltre riferisce  di essere rimasto a casa tutta la sera con la moglie, che conferma l’alibi del marito e che riferisce inoltre di essere a conoscenza che Barbara Locci è stata l’amante di suo marito. Successivamente vengono sentite anche altre persone tirate in ballo da Mele che però hanno in alibi in merito a quella sera.
 
L'esame del guanto di paraffina Il 22 agosto gli inquirenti eseguono l’esame del guanto di paraffina per verificare se effettivamente qualcuno dei seguenti soggetti avesse sparato di recente. Dal risultato emerge una colorazione azzurra sulla mano destra di Stefano Mele, precisamente in una zona di tre millimetri che corrisponde alla piega tra il pollice e l’indice. L’esame viene eseguito anche su Carmelo Cutrona e Francesco Vinci: Sul primo l’esame è stato fatto su entrambe le mani e la colorazione è azzurra puntiforme con estensione lungo tutta la parte interna; su Francesco Vinci invece viene effettuato l’esame sulla mano destra e l’esito è negativo. Tali esami sono stati compiuti ben 16 ore dopo il delitto e i soggetti possono aver toccato anche nitrati quindi l’esame può aver dato un falso positivo.

 

In esclusiva per l'Osservatore d'Italia il Dott. Gianfranco Guccia,  perito balistico consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria ci ha spiegato che cos’è la tecnica del guanto di paraffina. 

 
– Salve Dott. Guccia, grazie per averci concesso la sua preziosa consulenza.
Grazie a voi, buongiorno
 
– Nel caso in oggetto viene eseguita la prova con il Guanto di Paraffina ad alcuni soggetti: in cosa consista tale esame?
La prova del guanto di paraffina venne messa a punto negli Stati Uniti da un tal Gonzales , funzionario di polizia; nel 1935 entrò a far parte della pratica scientifico-forense come metodo per prelevare ed analizzare possibili particelle residuate dai fenomeni di natura chimico-fisica associati allo sparo di un’arma da fuoco, da cui si origina la produzione di un particolato (residuato solido) di vario genere: sia proveniente dalla detonazione dell’innesco presente nella cartuccia che dalla deflagrazione della polvere da sparo contenuta nel bossolo.
Il protocollo all’epoca adottato prevedeva la spalmatura di paraffina allo stato liquido, quindi ad alta temperatura, sulle mani di persone sospettate di aver commesso un delitto, che una volta solidificata e rimossa avrebbe dovuto ritenere le particelle oggetto della ricerca.
La “faccia interna” del c.d. guanto di paraffina veniva poi trattata con reagenti chimici cromogenici, cioè sostanze chimiche in grado di generare una variazione cromatica del particolato invisibile a occhio nudo, come, ad esempio, la Difenilamina Solforica o la Soluzione del Gries ed altri, anche più selettivi e specifici.

– Quanto era alto il rischio di imbattersi in “falsi positivi” e perché?
La possibilità di un “falso positivo” era elevatissima, dal momento che l’ “evidenza materiale” dell’esistenza del particolato inglobato nella paraffina consisteva in una reazione cromatica focale di colore blu intenso, per la presenza di nitriti e nitrati afferenti, in prevalenza, al fenomeno della deflagrazione della polvere da sparo; una simile reazione si manifesta anche in presenza di residui provenienti da una innumerevole tipologia di attività umane diverse, è sufficiente il maneggio di vernici, fertilizzanti e varie altre sostanze per diventare dei “potenziali colpevoli” di un determinato delitto.
 
– Quando viene abbandonata questa tecnica di analisi, e quale sono oggi le tecnologie più avanzate?
Nel 1979 su richiesta del  Department of Justice statunitense, venne commissionato a un gruppo di ricercatori del M.I.T. (Massachussets Institute of Technology) diretti da G.M. Wolten, uno studio rivolto  all’elaborazione di una metodica raffinata ed affidabile per l’individuazione del particolato residuato solido di sparo; la sperimentazione ebbe luogo presso i laboratori scientifici dell’ Aerospace Corporation di El Segundo (California U.S.A); i risultati della ricerca vennero raccolti in un’opera dal titolo “Final Report on Particle Analysis for Gun Shot Residue Detection”, successivamente pubblicata in tre diversi saggi su Journal of Forensic Science (volume n° 24 del 2 Aprile 1979); Wolten e colleghi, che effettuarono la loro ricerca mediante osservazione dei campioni raccolti con il microscopio elettronico a scansione (SEM) a cui venne associata una sonda microanalitica a dispersione di energia X – Ray (EDX), conclusero che, almeno allo stato delle conoscenze di allora, non esistevano attività umane o fonti naturali alternative che producessero particolati con morfologia, granulometria e composizione elementale simile a quella osservata nei campioni prelevati su oggetti o persone che erano stati interessati, direttamente o indirettamente, dalla fenomenologia collegata allo sparo di un’arma da fuoco, con particolare riferimento alle particelle residuate dalla detonazione della miscela esplosiva contenuta entro l’apparecchio d’innesco delle moderne munizioni.
Gli inneschi oggi comunemente usati per l’allestimento delle cartucce per armi da fuoco portatili adottano un composto detonante costituito, in prevalenza, da tre sostanze chimiche: lo stifnato di piombo [C6H(NO2)3O3Pb], il nitrato di bario [Ba(NO3)2] e il solfuro di antimonio [(NH4)2S], quasi sempre associati a biossido di piombo (PbO2) e siliciuro di calcio [lega Ca-Si]; quest’ultimo è una lega inerte che aumenta la frizione tra le molecole della miscela dinnescante, garantendo una più sicura detonazione dell’innesco sotto l’azione d’urto esercitata dal percussore.
Le particelle RDS (residuato di sparo) si formano per effetto della trasformazione chimica subita (passaggio dallo stato solido a quello gassoso) dei suddetti elementi, tutti sali metallici inorganici, dovuta all’elevato calore di esplosione, superiore ai 1.600 C° gradi centigradi, con pressioni di esercizio che arrivano a superare il valore di 2.300 atmosfere. La repentina espansione dei gas di sparo, non appena il proiettile fuoriesce dalla canna dell’arma, dà luogo a un processo inverso; il particolato che così si genera assume forma generalmente sferoidale, ogni singola particella può contenere tutti e tre i menzionati elementi chimici, piombo, antimonio e bario (composizione ternaria) e viene quindi definita, ad oggi, come caratteristica del fenomeno di sparo, oppure solo due di questi (composizione binaria), in tal caso viene definita come indicativa ma non esclusiva, dal momento che simili particelle, ma anche quelle ternarie, in qualche caso, possono essere il prodotto di altre attività umane; le dimensioni di tali particelle possono variare da poco meno di un micron fino a 30/40 al massimo (un micron = 1/000 di millimetro).
 Per quanto concerne le modalità di captazione ed analisi delle particelle RDS la metodica oggi universalmente adottata prevede l’uso di un c.d. kit-stub, ovvero un manipolo con un supporto circolare su cui è applicato uno strato biadesivo, che viene pressato sulle superfici, ivi compresa la pelle, sulle quali si ritiene possano essersi depositati eventuali RDS.
Successivamente lo stub viene metallizzato mediante applicazione di un sottile strato di carbonio, onde renderlo conduttivo, per poi essere inserito nella camera a vuoto di un S.E.M., microscopio elettronico a scansione, ed analizzato con una microsonda E.D.X. (Energy Dispersive X-Ray), in grado di rivelare, attraverso un processo chimico-fisico, la composizione chimica elementale di ogni singola particella, una volta individuata e osservata grazie all’elevato potere d’ingrandimento e risoluzione del microscopio elettronico.
E’ importante rimarcare che le operazioni di prelievo devono essere condotte nel rispetto dei protocolli di sicurezza, al fine di evitare episodi d’inquinamento specifico o aspecifico che portino ad un falso esito positivo; occorre evitare, quindi, di esporre la persona sospettata a contatto con ambienti o cose verosimilmente inquinati da eventuali RDS già esistenti a monte, nei luoghi o sulle mani degli operatori di P.G. incaricati di effettuare una tale operazione.
 
– Grazie per averci concesso l’intervista. 
Grazie a voi, nella speranza di aver dato un apporto che renda almeno comprensibile i principi della ricerca di una così delicato e complesso argomento.
 
La dinamica dell'omicidio L'arma del delitto Gli inquirenti perquisiscono le abitazioni di Stefano Mele, Francesco Vinci e Carmelo Cutrona con l’obiettivo di rinvenire l’arma del delitto, ma tale ricerca non porta ai frutti sperati, allora si punta nuovamente l’attenzione su Mele che viene interrogato il 23 agosto del 1968  e in questa sede punta il dito contro Francesco Vinci, accusandolo di essere l’autore del delitto, fornendo anche un movente riconducibile ad un vecchio debito e all’intento di liberarlo dalla moglie infedele. Le dichiarazioni di Mele sono altalenanti, mai stabili e concrete ma gli investigatori sono sempre più convinti che l’uomo sia coinvolto in questo terribile delitto. Viene nuovamente interrogato e questa volta confessa, dicendo che la moglie era uscita di casa alle ore 21.00 e che lui, stanco di stare  da solo, esce fuori a fare una passeggiata e giunto in Piazza 4 Novembre incontra Salvatore Vinci –fratello di Francesco Vinci- anch’esso amante della donna, che chiede a Mele notizie in merito alla moglie e al figlio, Mele dice all’amico che si è recata al cinema con un “amico” e secondo quanto avrebbe poi dichiarato Mele, il Vinci gli avrebbe detto “Perché non la fai finita?” e Stefano Mele in tutta risposta  “Come faccio senza nulla in mano sapendo che Enrico (che sarebbe Antonio Lo Bianco) ha praticato la Boxe”, Vinci avrebbe risposto “Io ho una piccola arma”. I due sarebbero quindi saliti a bordo di una macchina e avrebbero raggiunto il cinema in cui si trovava la Locci e il Lo Bianco, individuando l’autovettura di “Enrico” (Lo Bianco), li avrebbero seguiti fino al luogo in cui si sono appartati, vicino al cimitero di Signa. Salvatore Vinci, sempre secondo le dichiarazioni di Mele, avrebbe aperto una borsa cedendo l’arma a Mele e dicendo lui “Guarda che ci sono otto colpi”, allora Mele avrebbe raggiunto la moglie che stava compiendo atti  peccaminosi con l’amante e avrebbe sparato, poi avrebbe sistemato i cadaveri mentre il figlio si sarebbe svegliava. Stando alle dichiarazioni di Mele, la donna si trovava al di sopra dell’uomo che invece era supino sul sedile. Viene chiesto all’uomo dove avesse gettato l’arma e lui dichiara di averla gettata lateralmente alla strada parcata all’autovettura, avrebbe poi raggiunto Salvatore Vinci che in questo lasso di tempo lo avrebbe atteso in auto. Viene ricostruita la dinamica dell’omicidio e Mele viene condotto sul posto, dove vi è una Giulietta per rendere il tutto più verosimile alla scena di quella notte. All’uomo viene anche consegnata “Beretta” scarica per simulare l’azione, viene simulata anche la presenza dei cadaveri all’interno dell’autovettura e si Mele prodiga alla sistemazione di tale scena mediante l’aiuto di due sottoufficiali che si prestano a ciò e nel manovrare i corpi urta la freccia ed esclama “Anche la notte è capitato così, ho messo la mano su questo posto (in riferimento al cruscotto) e si è accesa la luce”. A  seguito di quanto dichiarato da Mele, viene fermato con l’accusa di essere l’autore del duplice omicidio e condotto in carcere. 

Gli inquirenti intanto rintracciano Salvatore Vinci, colui che secondo quanto dichiarato da Mele lo avrebbe aiutato. L’uomo si dichiara totalmente estraneo ai fatti, affermando che quella sera è rientrato a casa intorno alla mezzanotte e non è più uscito, inoltre fornisce anche un alibi, dichiarando di essere rimasto in compagnia di un amico e in merito all’arma sopracitata riferisce di non averne mai posseduta una. Il suo amico conferma l’alidi, indica inoltre i luoghi che hanno visitato. Gli inquirenti perquisiscono l’autovettura di Salvatore Vinci e la sua abitazione, ma l’esito è negativo. Successivamente si procede con un ulteriore interrogatorio per Stefano Mele e per Salvatore Vinci, ma improvvisamente tutto cambia. Mele smonta quella che era la perfetta ricostruzione dei fatti che precedentemente aveva fatto e riferisce agli inquirenti  che non si tratta di Salvatore Vinci bensì del fratello, Francesco Vinci. Quest’ultimo viene fermano poiché sospettato del delitto. Pochi giorni dopo, Stefano Mele viene nuovamente interrogato e cambia nuovamente versione dei fatti, scagionando da ogni accusa Francesco Vinci e questa volta punta il dito su Carmelo Cutrona. Si procede quindi al confronto tra Mele e Cutrona, quest’ultimo nega la sua partecipazione al delitto. In una prima dichiarazione, Stefano Mele fa riferimento ad un incontro avuto con Salvatore Vinci a Piazza 4 Novembre. Gli inquirenti avviano le indagini su questo fronte ed emerge che nessuno aveva visto all’interno del locale tutti coloro che sono finiti sotto la lente d’ingrandimento del sospetto. Vengono anche svolte accurate indagini sugli amanti di Barbara Locci a seguito di una dichiarazione fatta da Francesco Vinci. Ognuno di loro possiede un alibi per la sera del delitto o addirittura c’è chi nega di aver avuto rapporti amorosi con lei. Le indagini vertono immediatamente sull’arma del delitto, gli inquirenti controllano tutti i rivenditori di armi per verificare se la pistola calibro 22, con relative munizioni, fosse stata venduta a Mele o se fosse stata venduta a qualcuno vicino a lui vicino, ma tali ricerche portarono ad un esito negativo. Viene fatta anche una verifica su tutte le pistole calibro 22  detenute a Signa ma anche in questo caso non vi è nessun esito positivo. 
 
Accuse, inesattezze e ritrattazioni Malgrado Stefano Mele si autoaccusasse del delitto, la sua dichiarazione appare confusa, piena di inesattezze, accuse e poi ritrattazioni, dettagli apparentemente univoci che però poi risultano pieni di falle e privi di oggettività. La prima falla di questa torbida storia riguarda proprio un dettaglio sull’unico testimone di questo delitto, il piccolo Natalino: Stefano Mele dichiara di essere scappato dopo che il figlio lo ha riconosciuto, ma il figlio a sua volta dichiara di non aver visto e sentito nulla, ma di aver trovato la madre e lo zio morti e di essersi diretto dai De Felice. Il tragitto che avrebbe fatto il piccolo Natalino da solo è logicamente impossibile da compiere per un bambino di 6 anni poiché il terreno era scosceso, non vi era illuminazione e il piccolo era sprovvisto di scarpe. Un percorso di tre chilometri in un terreno di sassi e ghiaia, il piccolo non aveva nessuna ferita ai piedi: Come mai? Stefano Mele sembra avere una spiegazione a tutto e chiarisce anche questo punto, cambiando nuovamente le carte e ammettendo di essere stato lui ad aver accompagnato il figlio dai De Felice dopo aver ucciso la moglie e il suo amante. 
 
L’arma. Gli accertamenti appurano che si tratta di una Beretta calibro 22 Long Rifle in commercio dal 1959. Le munizioni sono Winchester con la lettera “H” impressa sul fondello del bossolo e provenienti almeno da due scatole da 50 munizioni ciascuna, palla a piombo nudo e palla in piombo ramato galvanicamente. La stessa pistola sparerà anche per gli otto duplici omicidi che hanno insanguinato la Toscana fino al 1985. Contro Barbara Locci e Antonio Lo Bianco furono sparati in totale otto colpi, quattro contro la donna e quattro contro l’uomo. 
 
Elementi di Condanna contro Stefano Mele: Ma quali sono gli elementi che gettano l’ombra del sospetto su Stefano Mele? Il primo riguarda l’arrivo dei Carabinieri la mattina del 22 agosto sotto casa sua, quando lui si affaccia immediatamente dalla finestra dicendo successivamente di averlo fatto perché aspettava la notizia. La contraddizione in merito al figlio, che prima dice di averlo lasciato in auto e poi ammette di averlo accompagnato da De Felice; senza alcuna indicazione da parte degli inquirenti ha saputo spiegare qual’era il luogo esatto in cui è stata rinvenuta l’auto ergo quella notte si trovava lì; ha ricostruito la dinamica del delitto, compreso il numero dei colpi sparati; l’accensione della freccia è un elemento che dimostrerebbe la sua presenza all’interno della scena poiché nel corso della ricostruzione si è verificata la medesima circostanza; la prova del guanto di paraffina che ha indicato una reazione sulla mano destra. Ma tali elementi possono considerarsi validi alla luce delle innumerevoli contraddizioni emerse in merito ai fatti sopracitati? 
 
Il movente: “Sembra indiscutibile affermare” che i motivi che avrebbero spinto l’uomo ad uccidere la donna e l’amante di essa fossero legati ad interessi oggettivi e non relativi alla sfera passionale, poiché l’uomo era a conoscenza delle innumerevoli frequentazioni della donna, era ben cosciente degli amanti che aveva nel periodo del loro fidanzamento e nel periodo postumo. Se il motivo fosse stato strettamente legato alla sfera affettiva, avrebbe potuto commettere il delitto molto prima poiché la moglie aveva un numero imprecisato di amanti anche nel periodo in cui i due erano fidanzati. I motivi di interesse hanno invece una base oggettivamente più stabile e logica rispetto al resto poiché l’uomo, fino ai quindi anni, Stefano Mele ha fatto il pastore in Sardegna dove non guadagnava molto. A seguito del suo trasferimento in Toscana le sue condizioni non cambiarono poiché si ritrovò senza un mestiere, semi-analfabeta e non riuscì a trovare un lavoro. Ha fatto numerose attività lavorative tra cui l’agricoltore, il manovale ma i guadagni sono stati sempre scarsi e non è mai riuscito a fare il grande salto. In quei caldi mesi del 68, Stefano Mele riscuote diverse somme di denaro: la prima in data 21 giugno di lire 480mila per un rimborso spese di un sinistro e l’altra di 24.625 lire, somma che si trovava nel borsello della Locci e che viene consegnata a lui. Un fattore scatenante che avrebbe spinto gli l’uomo ad uccidere la donna sarebbe da ricollegare alla riscossione dell’assicurazione da parte del Mele. Bisogna premettere che la donna non aveva mai avuto grandi disponibilità di denaro in vita sua e quella riscossione fu per lei motivo di spese e piccole spese. Viene attribuito come movente principale la sottrazione del denaro da parte della moglie per soddisfare i piaceri personali e dei suoi amanti. Tutti questi elementi hanno portato all’individuazione di Stefano Mele come unico autore del delitto. Malgrado vi siano innumerevoli incongruenze e l’assenza dell’arma del delitto, nel marzo del 1970 viene condannato dal Tribunale di Perugia in via definitiva a 14 anni di reclusione. Viene riconosciuto incapace di intendere e di volere e gli vengono inflitti due anni di calunnia contro i fratelli Salvatore e Francesco Vinci. 
 
Si torna a parlare di questo delitto nel periodo in cui l’Italia è terrorizzata dall’incubo del Mostro di Firenze. Il 19 giugno 1982  in località Baccaiano vengono barbaramente uccisi Antonella Migliorini e Paolo Mainardi. La coppia si era appartata a bordo di una Fiat 147 in uno spiazzale sulla Strada Provinciale Virginio Nuova. Il mostro li sorprende mentre fanno l’amore, spara uccidendo Antonella ma non riesce a completare il suo terribile piano anche con Paolo che, gravemente ferito, riesce ad azionare la retromarcia tentando la fuga, ma l’auto finisce in una scarpata, il mostro spara sui fari della macchina di Paolo. Ma tale tesi è oggetto di innumerevoli discussioni poiché molti sostengono  che lo spostamento dell’auto sia opera del Mostro e non dal Mainardi. Il fascicolo del 1968 ricompare proprio nel 1982 a seguito del delitto sopracitato e ci sono due teorie avvalorate da esperti e non: la prima riguarda un maresciallo che 15 anni prima aveva svolto servizio a Signa e avrebbe ricordato quello strano delitto avvenuto in quella calda estate. A seguito di ciò sarebbe stato recuperato il fascicolo, dove all’interno di esso vi erano ancora i bossoli con la serie “H” impressa sul fondello. La comparazione dei proiettili del 68 con quelli dell’82 ha stabilito che a sparare è stata la stessa arma. Il giornalista Mario Spezi, nel suo libro “Dolci colline di Sangue” collega il misterioso delitto del 1968 attraverso una circostanza che riguarda una lettera anonima giunta agli inquirenti con un ritaglio di giornale con un messaggio a penna con scritto “Perché non andate a rivedere il processo di Perugia contro Stefano Mele?”. Tale scoperta porta gli inquirenti a puntare il dito contro Francesco Vinci, già accusato per il delitto del 68. Viene posto in stato di fermo con l’accusa di maltrattamenti alla moglie, ciò per approfondire aspetti legati alla vicenda del Mostro di Firenze. Nel 1983 vengono uccisi Horst Wilhelm Meyer e Jens-Uwe Rüsch a Giogoli, Vinci in quel momento si trovava in carcere ergo non poteva mai essere lui il mostro quindi viene scagionato dalle accuse di omicidio. Fu brutalmente assassinato, insieme all’amico Angelo Vargiu,  il 7 agosto del 1993 in località Chianni. I loro corpi sono stati rinvenuti incaprettati, all’interno del bagagliaio della Volvo che a sua volta era stata data alle fiamme. Una vicenda torbida, strana, che sicuramente meritava ulteriori accertamenti.  . Dante Alighieri, nel Canto XVI del Paradino, descrive così Signa, luogo in cui si il primo delitto del Mostro di Firenze “Oh quanto fora meglio esser vicine quelle genti ch'io dico, e al Gazzuto e a Trespiano aver vostro confine, che averle dentro e sostener lo puzzo del villan d'Aguglion, di quel da Signa, che già per barattare ha l'occhio aguzzo!”.