Palermo, critiche su simbolo di Claudio Fava: insorge il fratello di Peppino Impastato

PALERMO – “Questa iniziativa, oltre ad essere un’operazione elettorale alla ricerca di consensi, è strumentale e utilizza come un marchio pubblicitario la figura e l’immagine di Peppino e l’impegno di chi ha continuato ad operare ‘con le sue idee e il suo coraggio”‘. Lo afferma Giovanni Impastato, fratello di Giuseppe, l’attivista ucciso a Cinisi (Pa) da cosa nostra il 9 maggio del 1978, in una nota firmata insieme al centro di documentazione Impastato, Rete 100 passi e associazione Peppino Impastato. Il riferimento è alla lista che sostiene Claudio Fava candidato alla presidenza della Regione siciliana. Nel simbolo spicca la scritta “Cento passi per la Sicilia”.

«Cento passi per la Sicilia», ispirato al film di Giordana su Peppino Impastato di cui lui, il candidato presidente, è sceneggiatore. Claudio Fava ha iniziato la sua campagna elettorale che avrà al centro la lotta alla mafia, di cui «non si parla più», dice, «una reticenza ingombrante che fa apparire la Sicilia una terra liberata dalle organizzazioni criminali». Sostengono Fava Mdp, Si, Prc, Possibile, Verdi e alcuni movimenti comunisti.

Certo è che una sorta di strumentalizzazione può infastidire gli elettori. Ci sono ben due liste, quella di Fava e quella di Musumeci, che si appropriano di espressioni che rimandano alla memoria di martiri di Cosa Nostra: Peppino Impastato (“I cento passi”) e Paolo Borsellino con il suo “Diventerà bellissima”. Il nome voluto per il suo movimento da Musumeci, candidato della coalizione che ha il suo baricentro nella Forza Italia di Gianfranco Miccichè. Che auspica di tornare al governo per rifare “quello che abbiamo fatto nei periodi di Berlusconi e Cuffaro, anzi di più“. Frase che lesto Fava ha rinfacciato al competitor Musumeci nella sua conferenza stampa di presentazione.




ALDO MORO E PEPPINO IMPASTATO: 9 MAGGIO 1978, PER NON DIMENTICARE

di Angelo Barraco

Il 9 maggio del 1978, in Via Caetani, venne ritrovato il corpo senza vita del Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro. Il corpo privo di vita si trovava all’interno di una Renaut 4 poco distante alla sede del Partito Comunista Italiano. Ma per capire meglio questa storia bisogna andare a ritroso, precisamente alla mattina del 16 marzo del 1978, quando l’auto di Moro fu bloccata in Via Fani dai brigatisti. Nell’agguato furono uccisi i Carabinieri Oreste Leonardi e Domenico Ricci e i poliziotti che si trovavano sull’auto di scorta:  Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi. In seguito alla strage i terroristi sequestrano il presidente della DC. Il commando che assalì l’autovettura di Moro e della sua scorta era composto da 11 persone, ma rimane tutt’ora il dubbio sull’identità dei partecipanti. Quando la macchina fu bloccata, entrò in azione un gruppo di fuoco composto da quattro persone con divise da personale di volo e cominciarono a sparare. Questi soggetti vennero identificati in: Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari, Franco Bonisoli. Una prima perizia ha riscontrato 91 colpi esplosi di cui 45 nei confronti degli uomini della scorta. Morucci e Fiore fanno fuoco contro l’auto di Moro, Gallinari e Bonisoli contro l’Alfetta della scorta. I Brigatisti riferiscono inoltre che i mitra si sarebbero inceppati. Valerio Morucci raccontò davanti alla Corte d’appello di Roma che “l'organizzazione era pronta per il 16 mattina, uno dei giorni in cui l'on. Moro sarebbe potuto passare in via Fani. Non c'era certezza, avrebbe anche potuto fare un'altra strada. Era stato verificato che passava lì alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre. Non c'era stata una verifica da mesi. Quindi il 16 marzo era il primo giorno in cui si andava in via Fani per compiere l'azione, sperando, dal punto di vista operativo, ovviamente, che passasse di lì quella mattina. Altrimenti si sarebbe dovuti tornare il giorno dopo e poi ancora il giorno dopo, fino a quando non si fosse ritenuto che la presenza di tutte queste persone, su quel luogo per più giorni, avrebbe comportato sicuramente il rischio di un allarme”. Moro fu poi trasportato in Via Montalcini 8. Alle 10.10 arriva una telefonata di Valerio Morucci all’Ansa di rivendicazione del sequestro in cui dice “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate rosse”. Mentre si celebravano i funerali degli uomini della scorta in San Lorenzo al Verano, esattamente due giorni dopo, venne rinvenuto il seguente comunicato “Giovedì 16 marzo, un nucleo armato delle Brigate rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. La sua scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati corpi speciali, è stata completamente annientata. Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il teorico e lo stratega indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano. Ogni tappa che ha scandito la controrivoluzione imperialista di cui la Dc è stata artefice nel nostro Paese – dalle politiche sanguinarie degli anni Cinquanta alla svolta del centrosinistra fino ai giorni nostri con l'accordo a sei – ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste”. Lo scopo delle BR era quello di colpire la DC e per loro era importante il fatto che Moro fosse al governo da circa 30anni. In merito all’abitazione in cui fu detenuto Moro ci furono diverse contestazioni negli anni. Inizialmente si parlò di Via Gradoli, ma era un appartamento piccolo e in affitto quindi a rischio di essere scoperto. Dai processi che seguirono la cattura delle BR è emerso che si trattava di Via Camillo Montalcini, appartamento acquistato con i proventi del sequestro di Pietro Costa. Un elemento importante è che il covo di Moro si trovava all’interno del quartiere Magliara. Proprio in quegli anni la Banda della Magliana controllava Roma e zone periferiche, a capo delle “batterie” c’era Franco Giuseppucci “Er Negro” che da semplice fornaio diventa leader indiscusso di una delle bande criminali più pericolose di tutti i tempi. La città di Roma era suddivisa in zone di controllo: i quartieri Testaccio e Trastevere vanno a Renatino De Pedis e Danilo Abbruciati detto “Il Camaleonte”, alla Magliana e al Trullo restano Abbatino e Danesi. Ogni capo reclutava spacciatori sulle strade si Roma. Ma cosa c’entra la Banda della Magliana con il sequestro Moro? In quei giorni di preoccupazione e di ricerca, gli inquirenti sono disposti a tutto. Secondo i pentiti, gli inquirenti si rivolgono al boss della nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, che a sua volta incarica il boss di Acilia e Ostia che è Nicolino Selis. Selis coinvolge la Banda della Magliana, sa che Giuseppucci è in grado di scovare il covo dove è tenuto segregato Aldo Moro. I collaboratori di giustizia raccontano che Giuseppucci riesce a trovare il covo, Abbatino racconta di un incontro tra Giuseppucci e L’Onorevole Piccoli. 

 
Un anno fa si è svolta un’udienza sul caso Moro e Ferdinando Imposimato ha dichiarato “L’uccisione di Moro è avvenuta per mano delle Brigate Rosse, ma anche e soprattutto per il volere di Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e del sottosegretario Nicola Lettieri” aggiungendo poi “Se non mi fossero stati nascosti alcuni documenti li avrei incriminati per concorso in associazione per il fatto. I servizi segreti avevano scoperto dove le Br lo nascondevano, così come i carabinieri. Il generale Dalla Chiesa avrebbe voluto intervenire con i suoi uomini e la Polizia per liberarlo in tutta sicurezza, ma due giorni prima dell’uccisione ricevettero l’ordine di abbandonare il luogo attiguo a quello della prigionia” ha aggiunto inoltre “Quei politici sono responsabili anche delle stragi: da Piazza Fontana a quelle di Via D’Amelio. Lo specchietto per le allodole si chiama Gladio. A Falcone e Borsellino rimprovero soltanto di non aver detto quanto sapevano, perché avevano capito e intuito tutto, tacendo per rispetto delle istituzioni. Per ucciderli Cosa Nostra ha eseguito il volere della Falange Armata, una frangia dei servizi segreti”. 
 
Il sequestro durò 55 giorni e furono inviati 9 comunicati dalle BR. Il comunicato numero 3 riportava “L'interrogatorio, sui contenuti del quale abbiamo già detto, prosegue con la completa collaborazione del prigioniero. Le risposte che fornisce chiariscono sempre più le linee controrivoluzionarie che le centrali imperialiste stanno attuando; delineano con chiarezza i contorni e il corpo del "nuovo" regime che, nella ristrutturazione dello Stato Imperialista delle Multinazionali si sta instaurando nel nostro paese e che ha come perno la Democrazia Cristiana. Moro è anche consapevole di non essere il solo, di essere, appunto, il più alto esponente del regime; chiama quindi gli altri gerarchi a dividere con lui le responsabilità, e rivolge agli stessi un appello che suona come un'esplicita chiamata di "correità”. Nel comunicato numero 8 proposero lo scambio di persona tra Moro e alcuni terroristi in carcere. Sul caso Moro sono state tante le piste avvalorate, dalla Banda della Magliana alla pista mafiosa, dal coinvolgimento con gli USA alla P2. Qual è la verità? 
 
Mentre l’Italia intera piangeva Moro, il 9 maggio del 1978 veniva ucciso brutalmente dalla mano mafiosa Peppino Impastato, giornalista e attivista politico nonché poeta. Un uomo che dalla sua Cinisi urlava a gran voce “NO” al sistema mafioso. Lui nacque in una famiglia mafiosa: Il cognato del padre era Don Cesare Manzella, boss della Cinisi del dopoguerra, venne ucciso in un attentato a seguito dell’esplosione di una Giulietta imbottita di tritolo. Peppino Impastato lascia la sua famiglia nel 1965 e si dedica alla sua attività, fondando il giornale L’Idea Socialista e aderendo al PSIUP. Fonda il gruppo “Musica e Cultura” e “Radio Aut” dove denuncia la mafia di Cinisi e Terrasini e le attività di Gaetano Badalamenti. Si candida anche alla lista Democrazia Proletaria ma non fa in tempo a passare l’esito delle elezioni perché la notte del 9 maggio ucciso. Con il suo corpo venne inscenato un finto suicidio, con del tritolo sotto i binari della ferrovia. Ma è la famiglia stessa che individua la matrice mafiosa del delitto e taglia i ponti con la famiglia mafiosa. Per la morte di Peppino Impastato viene condannato, l’11 aprile del 2002, Gaetano Badalamenti alla pena dell’ergastolo. 



MARSALA: QUELLO SFREGIO A PEPPINO IMPASTATO

di Angelo Barraco

Marsala (TP) – Ricordare Peppino Impastato, vittima della mafia, è un bel gesto, oltre che un dovere morale e civile, che deve mandare un segnale forte alla società civile. A Marsala la piazza intitolata a Peppino Impastato è totalmente abbandonata al degrado. E in questo caso si viene a creare una notevole spaccatura tra quello che diventa la memoria comune del simbolo della lotta alla mafia e di come questo simbolo viene poi dimenticato dalle Istituzioni. Il cittadino si trova davanti ad una piazza dedicata a Peppino Impastato completamente in stato di degrado e di abbandono quasi a simboleggiare l'assenza delle istituzioni che dovrebbero essere, in particolar modo in questo caso, presenti.  Ma qual è il problema? La piazza è totalmente abbandonata al degrado e all'incuria, un cittadino che decide di farvi una passeggiata si trova di fronte ad un’infinità di lattine di birra, bottiglie abbandonate, panchine in marmo spaccate a metà, palme crollate al suolo, cumuli di fogliame che impediscono il transito. E come se non bastasse la piazza si trova nelle vicinanze di una scuola elementare. Perché non curare e rivalorizzare quest’area del territorio marsalese? La piazza porta il nome di Peppino Impastato, un nome importante poiché è uno dei nomi che rappresenta la lotta contro la mafia, l’ingiustizia e l’illegalità. Il modo migliore per ricordarlo non è di certo con un luogo dove vige il vandalismo e l’abbandono. La lotta per una città migliore è un interesse di tutti, l’inciviltà è ingiustificabile ma l’interesse di chi di competenza è la risposta alle promesse fatte ai cittadini per una città migliore. 

Ha collaborato David Sciacca