Bambini abbandonati dai loro governi nei campi siriani di Al-Hol e Roj: condannati a lottare quotidianamente per la sopravvivenza dopo le violenze già vissute

Save the Children esorta i governi stranieri ad assumersi le proprie responsabilità e a rimpatriate i bambini e le loro famiglie

Più del 50% della popolazione dei campi sono bambini al di sotto dei 12 anni. Ad Al Hol 62 bambini deceduti dall’inizio dell’anno e il 60% non frequenta la scuola

Molti dei paesi più ricchi al mondo non hanno ancora rimpatriato la maggior parte dei minori bloccati nei campi di Al-Hol e Roj in Siria nord-orientale, le cui vite si stanno pian piano consumando con il rischio continuo di violenze e malattie. Questa la denuncia di Save the Children, l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro. Secondo il nuovo rapporto pubblicato oggi dall’Organizzazione “Quando inizierò a vivere? L’urgente bisogno di rimpatriare i bambini stranieri intrappolati nei campi di Al Hol e Roj”, sono circa 40.000 i bambini che vivono nei due campi per sfollati in Siria nord-orientale e che combattono quotidianamente per la sopravvivenza.

I campi di Al Hol e Roj ospitano oltre 60.000 persone, tra cui 40.000 bambini. Il 50% delle persone che vivono a Al Hol e il 55% a Roj sono bambini al di sotto dei 12 anni. Oltre ai cittadini siriani e iracheni, molti dei quali sono fuggiti dall’ISIS, ci sono donne e bambini provenienti da circa 60 paesi. Molti di loro hanno vissuto sotto il dominio dell’ISIS contro la loro volontà, ad esempio come vittime di adescamento e traffico in Siria.

Nei campi si registrano morti e malattie evitabili causate da incendi, scarsità di acqua e di servizi igienico-sanitari, malnutrizione e un sistema sanitario a malapena funzionante. Nel campo di Al Hol, dall’inizio dell’anno, 62 bambini, circa due bambini a settimana, sono morti per diversi motivi, mentre 73 persone, tra cui 2 bambini, sono state uccise. Solo il 40% dei bambini di Al Hol sta ricevendo un’istruzione, con anni di esperienze traumatiche che si ripercuotono sulla loro salute mentale, e nel campo di Roj, il 55% delle famiglie ha riferito casi di lavoro minorile tra i bambini con meno di 11 anni. I campi, sovraffollati e con servizi e rifugi inadeguati, non sono luoghi adatti per la crescita dei minori, che spesso sono vittime di matrimoni precoci, violenza domestica e altre forme di abuso mentale o psicologico.

La violenza è all’ordine del giorno ad Al Hol e non mancano omicidi, tentati omicidi, aggressioni e incendi dolosi, e anche nel campo di Roj, il rischio di incendi è costante: nel 2020, tre bambini sono morti e due sono rimasti gravemente feriti in due incendi diversi causati dall’esplosione di due stufe.

I bambini hanno raccontato allo staff di Save the Children di non sentirsi al sicuro quando camminano per il campo, quando vanno al mercato o in bagno. Maryam*, una bambina libanese di 11 anni che viveva nel cosiddetto “Annex” di Al Hol, uno spazio di appena mezzo chilometro quadrato in cui vivono 8.800 persone, tra cui 6.200 bambini, ha raccontato a Save the Children a maggio 2021: “Non posso più fare questa vita. Non facciamo altro che aspettare”. Da allora, Maryam* risulta essere stata uccisa, sua madre ferita e suo fratello disperso dopo un tentativo di fuga fallito in un camion dell’acqua.

L’insicurezza, la paura e l’incertezza per il futuro causano ansia e depressione tra i bambini, il cui benessere è minato a causa di stress, spazi limitati per giocare in sicurezza e assenza di supporto psicosociale. “Ho paura di vivere nel campo. La gente qui litiga in continuazione e ogni volta che sento qualcuno urlare mi copro le orecchie con le mani. Non faccio uscire nemmeno mia madre perché tirano fuori i coltelli, gridano, si minacciano con frasi tipo: ‘Ti ammazzo, ti taglio la testa’”, ha raccontato Bushra*, 10 anni, dalla Turchia.

Anche Samiya*, una bambina di 11 anni del Tagikistan, vive nell’Annex di Al Hol da due anni con sua madre e quattro fratelli e ha raccontato a Save the Children di una sera di maggio di quest’anno quando ha visto un incendio distruggere e danneggiare 75 tende: “All’improvviso abbiamo sentito delle urla. Nella nostra sezione era scoppiato un incendio e le tende hanno cominciato a bruciare una dopo l’altra, sciogliendosi completamente. Tutti i bambini scappavano, urlavano e piangevano. […] Anche la nostra tenda è andata a fuoco insieme ai vestiti nuovi che mia madre mi aveva comprato, i miei giochi, i nastri per capelli e tutti i dolci per l’Eid. È andato tutto a fuoco. Ora dormiamo in cucina e stiamo aspettando una nuova tenda”.

Secondo nuovi dati, gli Stati membri dell’UE, il Regno Unito, il Canada e l’Australia non hanno fatto abbastanza per rimpatriare i propri cittadini: il Regno Unito, ad esempio, ha rimpatriato solo quattro bambini mentre si stima che altri 60 siano rimasti lì; la Francia ha riportato nel Paese solo 35 degli almeno 320 bambini totali, mentre negli ultimi mesi, paesi come la Germania, la Finlandia e il Belgio hanno rimpatriato madri e bambini dai campi, dimostrando ancora una volta che è possibile salvare vite se c’è volontà politica. Save the Children esorta i governi stranieri, i cui cittadini sono nei campi di Al Hol e Roj e molti dei quali sono scappati per sfuggire all’ISIS, ad assumersi le proprie responsabilità e a rimpatriate i bambini e le loro famiglie.  Dal 2017 sono stati rimpatriati circa 1.163 bambini, di cui quasi il 59% è rientrato nel 2019 in 29 operazioni. Nel corso del 2020 si è registrato un forte calo dei rimpatri mentre quest’anno, al 3 settembre 2021, i rimpatri effettuati sono stati solo 14.

“Dopo anni trascorsi nelle zone di conflitto, questi bambini stanno vivendo eventi traumatici che nessun bambino dovrebbe mai vivere. È incomprensibile che siano condannati a questa vita. Quello che vediamo sono bambini abbandonati dai loro governi, nonostante essi siano le prime vittime del conflitto. L’83% delle operazioni di rimpatrio è stato effettuato da Uzbekistan, Kosovo, Kazakistan e Russia ma ora anche gli altri governi devono rispettare i propri obblighi, assumersi la responsabilità nei confronti dei loro cittadini e rimpatriare i bambini e le loro famiglie nel rispetto dei diritti dei bambini ai sensi della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia” ha dichiarato Sonia Khush, responsabile di Save the Children per la risposta in Siria. “Ogni giorno in più che i bambini e le loro famiglie rimangono nei campi è un fallimento dei loro governi. Ogni giorno in più in cui viene negata loro l’opportunità di tornare a casa, negati i servizi specializzati di cui hanno disperatamente bisogno e negato loro il diritto di vivere in sicurezza e riprendersi dalle loro esperienze è un giorno di troppo”.

Save the Children chiede a tutti i Paesi, i cui cittadini minori sono ancora Siria, di riconoscere e trattare i bambini prima di tutto come vittime di guerra, anche coloro che sono stati costretti ad unirsi all’ISIS, e rilasciare quelli detenuti arbitrariamente e riunirli alle loro famiglie. Chiede, inoltre, di garantire i diritti fondamentali e rispondere ai bisogni umanitari urgenti, impegnandosi per una non discriminazione e una giustizia equa e esorta i governi a rimpatriare i propri cittadini senza ulteriori ritardi e a sostenere il loro reinserimento nel paese di origine.

Oltre al ritorno sicuro e dignitoso dei bambini e delle loro famiglie nei paesi di origine, Save the Children chiede un’ampia risposta umanitaria nei campi per soddisfare i bisogni sia dei bambini stranieri in attesa del rimpatrio sia dei bambini siriani che potrebbero rimanere nei campi per altro tempo.




Bimba tornata dalla Siria di nuovo rapita dal padre: l’ha presa a scuola

Era da poco tornata in Italia, grazie a una delicata operazione internazionale di Polizia, ed era stata affidata alla mamma, dopo che, nel 2016, il padre l’aveva rapita e l’aveva tenuta per quasi tre anni in Siria.

Ieri il padre, il siriano Maher Balle, l’ha rapita nuovamente, prelevandola da scuola all’insaputa della madre, Mariana Veintimilla, 53 anni, ecuadoriana, che si era separata dall’uomo.

Alle 13 di ieri, Balle è andato nella scuola media in zona Porta Romana, a Milano, dove la figlia frequenta il primo anno, e l’ha prelevata, senza che il personale dell’istituto, forse non informato, sollevasse obiezioni.

Una testimone ha riferito di averlo visto con due valigie, mentre il suo cellulare risulta spento. La madre, accompagnata dall’avvocato Angelo Musicco, ha denunciato il rapimento al pm Cristian Barilli, titolare del fascicolo e ora l’uomo è ricercato.




Abbraccia il padre e le sorelle, il piccolo ritrovato in un campo profughi in Siria: la mamma lo portò con lui per unirsi all’Isis

E’ tornato oggi in Italia il bimbo di 11 anni di origine albanese portato via dall’Italia nel dicembre del 2004 dalla mamma che voleva unirsi all’Isis. Il piccolo, la cui madre sarebbe morta in un’esplosione, era finito poi nel campo profughi di Al Hol, a nord est della Siria, dove è stato ritrovato. Il ragazzino è stato trasferito con un volo di linea dell’Alitalia (AZ 827) giunto poco dopo le 7.00 all’aeroporto di Roma Fiumicino da Beirut. Ad accoglierlo il padre e le due sorelle. La Polizia di frontiera sta procedendo per le formalità burocratiche e per le procedure di affidamento del minore al padre.

“Ti avevo promesso che saresti ritornato a casa. Ora sei grande, quasi un ometto”. Con queste parole, visibilmente commosso, il padre ha accolto sotto bordo dell’aereo il figliolo. Vicino a lui le sorelle più grandi, che nel momento di riabbracciarlo gli hanno consegnato dei giocattoli che appartenevano al piccolo, prima che la mamma lo portasse via dall’Italia.

“Quando è stato recuperato nel campo profughi in cui si trovava c’erano 70 mila persone, non è stato facile, ma è stato accolto come un principino”. A parlare all’aeroporto di Fiumicino è Maria Josè Falcicchia, Dirigente dello Scip, tra le persone che si è recata in Siria a riprendere in Siria il bimbo di 11 anni. “All’inizio il piccolo, che non parla più italiano perché lo ha dimenticato, ma solo l’arabo e un po’ l’albanese – ha spiegato Falcicchia – era guardingo, ma ha sempre sorriso, sta bene”.




Siria, artiglieria turca attacca la regione nord-orientale

L’artiglieria turca ha colpito nella notte la regione nord-orientale siriana al confine con l’Iraq. Lo riferisce la Sana, l’agenzia governativa di Damasco, che mostra foto e video dei bombardamenti avvenuti nei pressi del valico frontaliero di Simalka, tra Iraq e Siria, e corridoio vitale per i rifornimenti militari e logistici della Coalizione anti-Isis a guida Usa e per le forze curdo-siriane. Questa notizia non ha trovato conferma da parte turca né dalle autorità curdo-siriane.

Intanto la Turchia risponde agli Usa “non cediamo alle minacce di nessuno”. “Il nostro messaggio alla comunità internazionale è chiaro. La Turchia non è un Paese che agisce sotto minaccia”. Lo ha detto il vicepresidente turco, Fuat Oktay, riferendosi alle parole di Donald Trump su eventuali choc all’economia turca in caso il governo di Recep Tayyip Erdogan superi “i limiti” nell’imminente operazione militare contro le milizie curde dell’Ypg nel nord-est della Siria. Quando si tratta della sua “sicurezza, la Turchia segue la propria strada” e lo fa “a qualunque prezzo”, ha aggiunto Oktay, intervenendo a una cerimonia di apertura dell’anno accademico ad Ankara.




Siria, fotografo italiano ferito: stava documentando l’offensiva curdo-araba, appoggiata dagli Usa contro l’Isis

Un fotografo italiano, Gabriele Micalizzi, 34 anni, milanese, sarebbe rimasto ferito in Siria, nella zona di Dayr az Zor, dove centinaia di miliziani dell’Isis asserragliati nell’ultimo bastione si oppongono all’avanzata delle forze filo-Usa, determinate a spazzare via lo Stato islamico dal Paese. L’italiano, secondo quanto si apprende da fonti informate, è ora ricoverato in gravi condizioni in un ospedale della zona, ma non sarebbe in pericolo di vita e sarà rimpatriato quanto prima in Italia.

Micalizzi era in Siria per documentare l’offensiva curdo-araba, appoggiata dagli Usa, contro l’ultima sacca di resistenza dell’Isis nel Paese. 
   

 




Siria abbatte jet militare russo

SIRIA – Un aereo militare russo Il-20 con a bordo 14 militari è scomparso dai radar ieri notte mentre sorvolava il Mediterraneo di ritorno alla base aerea russa di Khmeimim, in Siria. Secondo il dicastero, i contatti col jet si sono persi mentre quattro F-16 israeliani attaccavano obiettivi siriani nella provincia di Latakia. “Allo stesso tempo – riporta il ministero – i radar russi hanno registrato lanci di missili dalla fregata francese Auvergne, che era in quella zona”.

Secondo la CNN, l’aereo è stato abbattuto per errore dalle difese anti-aeree siriane. In quel momento Damasco si stava difendendo dall’attacco israeliano. Sempre secondo l’emittente Usa il velivolo è stato abbattuto da un sistema di difesa anti-aerea venduto ai siriani dai russi diversi anni fa.

“Il 17 settembre, attorno alle 23 ora di Mosca (le 22 in Italia, ndr), si sono persi i contatti con l’equipaggio di un aereo russo Il-20 sopra il Mediterraneo, mentre il velivolo era di ritorno all’aerodromo di Khmeimim e si trovava a 35 chilometri dalla costa siriana”, fa sapere il ministero della Difesa russo. Il comando della base aerea di Khmeimim ha lanciato un’operazione di ricerca e di soccorso.




Antiterrorismo: combattente italiano stava per tornare in Siria

NUORO – Questa mattina la Polizia di Stato, nell´ambito di un´operazione disposta dalla Direzione Distrettuale Anti Terrorismo di Cagliari, ha eseguito perquisizioni personali e domiciliari nei confronti di tre italiani residenti in Sardegna, due a Cagliari e uno a Nuoro, coinvolti in attività di combattimento all´estero, in particolare nello scenario bellico siriano – iracheno.

La complessa indagine condotta dal personale della D.I.G.O.S. della Questura di Nuoro e del Servizio per il contrasto dell´Estremismo e del Terrorismo Interno della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione è partita dalla diffusione in rete di una foto scattata in Siria in cui sono ritratti due militanti in tuta mimetica con il volto travisato, uno imbracciante un Kalashnikov ed uno col pugno sinistro alzato, dietro tre bandiere che rappresentano la Bretagna Antifascista e la Sardegna.

I due militanti ritratti nell´immagine sono un bretone morto in combattimento il 18 febbraio scorso ed un cittadino italiano.

Alla luce dei riscontri acquisiti nel corso dell´attività investigativa, la D.D.AT. di Cagliari ha indagato l´italiano per il reato di cui all´art. 270 bis del c.p. per aver partecipato alle associazioni Unità di Protezione del Popolo (Yekìneyên Parastina Gel – YPG) e International Freedom Battallion (IFB) , gli è stato anche notificato un decreto di sequestro preventivo del passaporto poiché in procinto di partire di nuovo per raggiungere l´area siriana.




Siria, missili contro basi militari: almeno 40 morti

SIRIA – Almeno 40 persone sono morte e altre 60 sono rimaste ferite in seguito ad attacchi missilistici la notte scorsa contro postazioni militari nel nord della Siria: lo riporta l’agenzia di stampa iraniana ISNA, che cita fonti straniere, sottolineando che tra le vittime ci sono anche 18 iraniani. I missili hanno colpito basi militari ad Hama e ad Aleppo. Secondo i media ufficiali siriani gli attacchi sono partiti da basi britanniche e statunitensi nel nord della Giordania e durante le operazioni sono stati lanciati 9 missili balistici.

E la tv di stato siriana ha parlato di una “nuova aggressione”, con missili lanciati contro avamposti militari nel nord del paese, in particolare ad Hama e Aleppo. Non è stato specificato chi abbia lanciato i missili o eventuali vittime e danni.
All’inizio di aprile, sette militari iraniani erano rimasti uccisi nel corso di un raid contro una base aerea a Homs. Damasco, Teheran e Mosca avevano accusato Israele, che non aveva né confermato né smentito.

Meno di due settimane fa c’era stato un altro report di un possibile raid contro installazioni militari governative nella stessa regione, e nei sobborghi di Damasco. Ma gli stessi militari avevano detto che un falso allarme aveva innescato il loro sistema di difesa. Il 14 aprile, poi, il territorio siriano era stato colpito da un’operazione militare congiunta Usa-Francia-Gran Bretagna come rappresaglia contro il regime, in seguito al presunto attacco chimico nella Ghuta.




Orrore in Siria: trovata fossa comune

SIRIA – Una fossa comune che potrebbe contenere fino a 200 corpi è stata scoperta a Raqqa, l’ex ‘capitale’ dell’Isis nel nord della Siria: lo ha detto un funzionario della città, Abdallah al-Eriane, secondo quanto riporta Al Arabiya. Secondo al-Eriane circa 50 corpi – tra civili ed estremisti – sono stati recuperati finora. La fossa era stata scavata sotto un campo di calcio, vicino all’ospedale in cui i combattenti dell’Isis si erano trincerati prima di essere cacciati dalla città nell’ottobre del 2017.




Siria, centrodestra spaccato su intervento militare

Gran Bretagna si prepara alle eventuali ritorsioni russe dopo i raid in Siria portati avanti insieme a Usa e Francia. Il ministro degli Esteri Boris Johnson nel corso di un talk televisivo ha spiegato che “Se consideriamo ciò che la Russia ha fatto, non solo in questo paese a Salisbury, ma in generale contro televisioni, contro infrastrutture strategiche, contro processi democratici, è evidente che bisogna prendere ogni precauzione possibile”. Intanto a Mosca, cresce l‘ira di Vladimir Putin per quella che è stata definita una vera e propria “aggressione”. Il premier russo ha infatti definito l’azione di Usa, Francia e Regno Unito come “una violazione del diritto internazionale”.

In italia il primo ministro Gentiloni ha invocato soluzioni diplomatiche, confermando la linea contraria a ogni intervento militare

Gentiloni ha quindi auspicato che non si inneschi una escalation. E da via del Nazareno Maurizio Martina e Piero Fassino hanno chiesto un “impegno politico e diplomatico per bandire l’uso criminale di armi chimiche, fermare le violenze e restituire la parola al negoziato”.

Coalizione centrodestra spaccata su intervento militare

Nel centrodestra restano evidenti le divisioni  dove Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno condannato il raid anglo-franco-americano parlando di “errore tremendo” con “rischio di un conflitto mondiale” e dove nel pomeriggio di ieri il capo del Carroccio ha ribadito che “I missili danno un aiuto ai terroristi islamici”. Silvio Berlusconi ha invece confermato una posizione atlantista prendendo di fatto le distanze dagli alleati di coalizione. “Si tratta di un attacco su obiettivi precisi – ha detto il capo di Forza Italia – contro siti legati alla produzione di armi chimiche che traduce il principio internazionale di condanna di queste armi”.

Una posizione, quella di Berlusconi in linea con quella pentastellata.

Dal M5s hanno infatti ribadito l’ancoraggio agli alleati e all’Ue, che deve “avere la forza – scrive Luigi Di Maio – di farsi vedere compatta e unita”. Di Maio ha quindi invitato “le Nazioni Unite a compiere ispezioni sul terreno in Siria affinché si accertino le responsabilità sull’uso di armi chimiche da parte di Assad”.




Siria, missili su Damasco e Homs: partito l’attacco congiunto Usa, Gran Bretagna e Francia

Primi missili Tomahawk su Damasco e Homs nello stesso momento in cui Donald Trump stava ancora parlando alla nazione, intorno alle 22 ora di Washington, le tre del mattino in Italia. Un discorso drammatico, in cui ha insistito sulla necessità di agire contro i crimini e la barbarie perpetrati dal regime di Bashar al Assad, definito “un mostro” che massacra il proprio popolo

Sciolte le riserve del presidente Usa che ha ordinato la rappresaglia in stretto coordinamento con Londra e Parigi.

Per ora si è trattato di una ‘one night operation’, un’operazione unica durata poco più di un’ora, nel corso della quale sono stati colpiti principalmente tre obiettivi, come ha spiegato il Pentagono: un centro di ricerca scientifica a Damasco, un sito di stoccaggio per armi chimiche a ovest della città di Homs e un importante posto di comando situato nei pressi del secondo obiettivo. I missili sono partiti sia da alcuni bombardieri sia da almeno una delle navi militari americane posizionate nelle acque del Mar Rosso. “Questo è un chiaro messaggio per Assad”, ha spiegato il segretario americano alla Difesa, l’ex generale James Mattis, assicurando come al momento non si registrino perdite tra le forze Usa e come sia stato compiuto ogni sforzo per evitare vittime civili.

Del resto, ha sottolineato ancora il numero uno del Pentagono, si è trattato di un attacco mirato che ha avuto come obiettivo solo siti legati alla produzioni o allo stoccaggio di armi chimiche. “Lo scorso anno il regime di Assad non ha compreso bene il messaggio”, ha aggiunto quindi Mattis, riferendosi al precedente attacco militare Usa in Siria dell’aprile 2017: “Così questa volta abbiamo colpito in maniera più dura insieme ai nostri alleati. E se Assad e i suoi generali assassini dovessero perpetrare un altro attacco con armi chimiche, dovranno rispondere ancora di più alle loro responsabilità”.

La prima risposta di Mosca, stretta alleata di Damasco, è arrivata dopo l’annuncio della fine della prima ondata di raid e di bombardamenti:

“Le azioni degli Usa e dei loro alleati non resteranno senza conseguenze”, ha detto l’ambasciatore russo a Washington Anatoly Antonov. L’impressione di molti osservatori però è che gli obiettivi da colpire siano stati condivisi con Mosca, non fosse altro che per evitare incidenti e non colpire personale o postazioni russe in Siria. Intanto la prima reazione di Damasco è tesa a sminuire i risultati dell’operazione degli Usa e dei suoi alleati: se i raid sono finiti qui, hanno affermato fonti del governo di Damasco, i danni sono limitati.

Dura la reazione dell’Iran

“Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno prove sull’attacco chimico in Siria e sono responsabili per le conseguenze regionali che seguiranno all’attacco deciso senza aspettare che prendessero una posizione gli ispettori dell’Opac”: lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Bahram Ghasemi, citato da alcuni media americani.

Theresa May: “Attacchi coordinati e mirati per ridurre il potenziale dell’armamento chimico del regime siriano”

“Ho ordinato alle forze britanniche di condurre attacchi coordinati e mirati per ridurre il potenziale dell’armamento chimico del regime siriano e dissuaderne l’uso”. Così la premier Theresa May in una nota diffusa in nottata da Downing Street nella quale si precisa che l’azione militare è realizzata con “gli alleati americani e francesi”.
L’obiettivo “non è un cambio di regime”, sottolinea, insistendo sul concetto di azioni “mirate” contro l’arsenale di armi chimiche attribuito alle forze di Bashar al-Assad. Per dissuadere “il regime” dal farne uso e ammonire che non ci può essere “impunità” al riguardo, conclude May.

“La Russia è stata avvertita in anticipo degli attacchi militari congiunti di Usa, Regno Unito e Francia contro la Siria”. Lo afferma la ministra della Difesa francese, Florence Parly. La ministra ha aggiunto che l’operazione in Siria è stata “legittima, limitata e proporzionata”.

La Nato sostiene l’attacco di Usa, Gran Bretagna e Francia contro i siti di armi chimiche del regime siriano.

Lo afferma il segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg in una nota. L’azione di stanotte “ridurrà la capacità del regime di condurre ulteriori attacchi contro il popolo siriano con armi chimiche”, aggiunge Stoltenberg, ribadendo come sia “inaccettabile” l’utilizzo dei gas.
Poche ore prima il ministero della Difesa russo aveva affermato di avere la prova di un coinvolgimento diretto della Gran Bretagna nell’organizzazione della “provocazione” del presunto attacco chimico nella Ghuta. E il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov aveva dichiarato: “Abbiamo dati inconfutabili” sul fatto che l’attacco chimico di Duma, in Siria, è stato organizzato”. “I servizi speciali di un paese, che ora sta cercando di essere nelle prime file della campagna russofoba, sono stati coinvolti in questa messa in scena”, ha aggiunto il reponsabile della diplomazia del Cremlino.

Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo francese Emmanuel Macron hanno avuto ieri una telefonata.

Alla domanda se i due leader avessero discusso della situazione in Siria, ha detto: “sì, la conversazione ha toccato questo argomento”. Vladimir Putin ed Emmanuel Macron nel corso della loro telefonata hanno deciso di dare mandato ai rispettivi ministri della Difesa e degli Esteri di mantenere uno “stretto contatto” per una “de-escalation” della situazione in Siria. Lo fa sapere il Cremlino. Entrambi i leader hanno poi espresso “soddisfazione” per l’arrivo degli esperti dell’Opac a Damasco. Putin ha sottolineato che serve un’indagine “oggettiva” prima della fine della quale conviene evitare “accuse infondate” contro “chiunque”. “Abbiamo la prova che la settimana scorsa sono state utilizzate armi chimiche in Siria da parte del regime”: ha detto ieri il presidente francese, Emmanuel Macron, intervistato in diretta da TF1. E sempre ieri Angela Merkel ha escluso una partecipazione tedesca ad un intervento militare in Siria. Lo ha detto in conferenza stampa con il premier danese.