YARA GAMBIRASIO: TROVATO IL PRESUNTO ASSASSINO

Redazione

Bergamo – Oggi l’”ignoto 1” ha un nome e un cognome. Potrebbe essere la svolta definitiva per conoscere il volto del colpevole del brutale omicidio di Yara Gambirasio. Il Dna è la chiave di volta perché gli inquirenti non hanno mai lasciato questa pista, anzi sono arrivati a trovare la corrispondenza che si presume sia quella giusta. Potrebbe perciò avere finalmente giustizia la 13enne uccisa a Brembate il 26 novembre 2010 e il cui corpo fu trovato esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Dopo quasi 4 anni di indagini serrate, in cui la pista dell’esame scientifica è stata quella privilegiata, la svolta è stata annunciata oggi dal ministro dell’Interno Angelino Alfano: “E un uomo che vive in provincia di Bergamo”, ha detto ringraziando tutti “per il lavoro svolto, ognuno con il proprio ruolo”.

Originario di Clusone, il presunto killer si chiama Massimo Giuseppe Bossetti ha 44 anni, è sposato e ha tre figli. L’uomo, senza precedenti penali, lavora nel settore dell’edilizia ed ha una sorella gemella. L’uomo, sottoposto a interrogatorio nel comando provinciale dei carabinieri di Bergamo, non ha risposto agli inquirenti. “E’ sereno”. Così l’avvocato Silvia Gazzetti, riferisce lo stato d’animo Bossetti. L’avvocato d’ufficio ha ricordato che l’accusa nei confronti del suo assistito è di “omicidio”, si tratta di un “fermo di indiziato di delitto” e che il 44enne operaio “respinge le accuse.

Si è avvalso della facoltà di non rispondere”, spiega al termine dell’interrogatorio che si è svolto nel Comando dei carabinieri. Dunque il Dna lasciato sul corpo della vittima sarebbe sovrapponibile a quello di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno morto nel 1999 e ritenuto in base all’analisi scientifica il padre dello sconosciuto assassino al 99,9%. Ma ricordiamo come sono andati i fatti. E’ il 26 novembre 2010 quando Yara esce dalla palestra che dista poche centinaia di metri da casa e di lei si perdono le tracce.

Tre mesi dopo, il suo corpo viene trovato in un campo abbandonato a Chignolo d’Isola, distante solo una decina di chilometri da casa. L’autopsia svela una ferita alla testa, le coltellate alla schiena, al collo e ai polsi. Nessun colpo mortale: era agonizzante, incapace di chiedere aiuto, ma quando chi l’ha colpita le ha voltato le spalle lei era ancora viva. Il decesso è avvenuto in seguito, quando alle ferite si è aggiunto il freddo. Un delitto che porta, in pochi giorni, all’arresto di Mohamed Fikri, rilasciato per una traduzione sbagliata. Su di lui si riaccendono i riflettori e cambia ancora la scena: per Fikri cade l’accusa di omicidio e si profila quella di favoreggiamento. Il giudice delle indagini preliminari Ezia Maccora archivia il fascicolo con la prima ipotesi, ma rimanda gli atti al pm di Bergamo Letizia Ruggeri perchè indaghi sulla seconda. Una mezza vittoria per mamma Maura e papà Fulvio che, attraverso l’avvocato Enrico Pelillo, si erano opposti all’archiviazione. Il gip ricorda che dalle analisi e dagli esami sui vestiti e nei polmoni di Yara c’erano polveri riconducibili a calce, sostanze “simili ai materiali campionati nel cantiere di Mapello”, dove lavorava il tunisino. Inoltre, la zona in cui le celle telefoniche agganciano il cellulare della ragazza, nell’arco di tempo che va dalle 18.30 alle 19, “coprono anche l’area del cantiere, “rendendo plausibile in quel range temporale la presenza di Yara e di Fikri in un territorio circoscritto”. Ma l’operaio non l’ha uccisa. Due gli elementi che lo scagionano: il suo Dna non corrisponde con quello trovato sugli slip e sui leggings della 13enne, l’analisi delle celle telefoniche dimostrano che il tunisino non è andato nel campo di Chignolo d’Isola, dove la vittima è stata uccisa e abbandonata. Tuttavia secondo il giudice ci sono delle “incongruenze” nelle telefonate di Fikri e “in assenza di una plausibile ricostruzione alternativa”, queste “incongruenze” potrebbero far ritenere che la sera del 26 novembre 2010, l’uomo “ha visto o è venuto a conoscenza di circostanze collegate alla scomparsa e all’omicidio di Yara “. Per il gip appare verosimile che sia stato spinto a nascondere quello che ha visto, “per proteggere o favorire la persona che ritiene in qualche modo coinvolta nel delitto”. Nei mesi scorsi la sua posizione è stata archiviata e il sospettato numero uno esce di scena. E le indagini proseguono ripartendo dalle analisi genetiche sulle tracce trovate sugli abiti della vittima, circa 18mila i Dna prelevati e analizzati da carabinieri e polizia che lavorano fianco a fianco nell’inchiesta.

Il profilo genetico del presunto assassino è in parte noto. Per questo era stata riesumata la salma di Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, che secondo gli esami scientifici risulta essere il padre dell’assassino. Avere la certezza che l’autista è il padre dell’uomo che ha lasciato il proprio Dna sui vestiti di Yara non risolve il problema: trovare il killer, un presunto figlio illegittimo di cui non c’è traccia. L’ultima conferma sull’analisi scientifica arriva nell’aprile scorso contenuta nella relazione dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, la stessa esperta che aveva eseguito l’esame sulla salma della giovane vittima. Una bambina morta con quella crudeltà merita giustizia e una condanna esemplare per chi l’ha uccisa. Pensare che il presunto omicida ha anche delle figlie. Non ci sono parole, in questo mondo di efferatezze non ce ne sono davvero più.