Cronaca
Trump piega Hamas e impone la via della pace. Fine del teatrino degli attivisti: Meloni aveva avuto ragione
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1 mese faon
La fermezza come unica via alla stabilità: Trump e Meloni, alleati nel realismo politico
È servito il pugno fermo e la visione pragmatica di Donald Trump per spingere Hamas a piegarsi all’evidenza: la guerra a Gaza non poteva continuare, e la pace doveva essere imposta con la forza della decisione, non con la debolezza dei compromessi. Dopo settimane di tensioni e un ultimatum che ha scosso gli equilibri internazionali, il presidente americano ha costretto la leadership palestinese ad accettare il piano in venti punti proposto dagli Stati Uniti, aprendo uno spiraglio concreto verso la fine di un conflitto che sembrava senza uscita. Con poche parole, ma con un messaggio diretto e inequivocabile, Trump ha annunciato che Hamas sembrava finalmente pronta a una pace duratura e che Israele doveva fermare immediatamente i bombardamenti su Gaza. Una presa di posizione netta, che ha colto di sorpresa molti osservatori ma che, nel giro di poche ore, ha prodotto risultati che la diplomazia tradizionale non era riuscita a ottenere in mesi di trattative inconcludenti.
La risposta di Hamas non si è fatta attendere: il movimento islamista si è dichiarato pronto ad avviare negoziati immediati per la liberazione degli ostaggi e per un cessate il fuoco complessivo, proponendo di affidare il controllo della Striscia di Gaza a un ente palestinese sostenuto dai Paesi arabi e islamici. È stato l’atto che ha segnato la fine di un lungo braccio di ferro e l’inizio di un percorso di pace che fino a pochi giorni fa appariva impossibile. Anche Israele, dopo una prima reazione di sorpresa, ha riconosciuto la necessità di aprire la strada alla fase uno del piano americano, accettando di collaborare con Washington per la liberazione immediata degli ostaggi e la graduale sospensione delle operazioni militari.
Trump ha scelto un linguaggio essenziale, quasi asciutto, ma di straordinaria efficacia politica. Niente retorica, niente frasi di circostanza: solo la concretezza di chi impone una via diplomatica senza lasciarsi paralizzare dalle ambiguità. La sua leadership ha imposto un cambio di passo globale, con effetti immediati anche sulle relazioni tra i grandi attori della scena internazionale. Da ogni angolo del mondo sono arrivati segnali di apertura e collaborazione: le potenze europee hanno espresso sostegno alla soluzione americana, mentre le principali cancellerie arabe hanno accolto la proposta come la prima reale occasione per fermare la distruzione e avviare un processo di stabilizzazione duratura. La fermezza del presidente americano ha risvegliato quella parte del mondo che crede ancora nella diplomazia della forza, quella capace di ottenere risultati dove gli appelli umanitari si erano trasformati in un rituale sterile.
Ma mentre la geopolitica cambiava direzione, in Italia si consumava l’ennesimo episodio di un attivismo sterile e autoreferenziale. Gli stessi che per mesi avevano organizzato cortei e iniziative di piazza per “fermare la guerra” sono oggi messi di fronte all’evidenza che la pace l’ha costruita chi ha avuto il coraggio di imporsi, non chi si è limitato a sventolare bandiere e slogan. La cosiddetta “flottilla per Gaza”, partita in sfida alle raccomandazioni ufficiali, si è rivelata per quello che era sin dall’inizio: un gesto di esibizionismo politico, un viaggio simbolico privo di ogni utilità concreta. Un’azione di pura propaganda, utile solo a garantire visibilità a chi, ignorando gli avvertimenti delle autorità italiane, ha scelto di giocare con la propria sicurezza per guadagnare qualche minuto di notorietà.
La decisione del governo Meloni di far pagare agli attivisti le spese di rientro è una misura di buon senso, che ristabilisce il principio della responsabilità individuale. Chi si espone deliberatamente a un rischio, in spregio alle indicazioni ufficiali e alle regole della diplomazia, non può pretendere che siano i cittadini italiani a sostenere i costi delle proprie avventure personali. È un gesto politico ma anche morale, un messaggio chiaro contro l’ipocrisia di chi usa la parola “pace” come scudo per fare opposizione a un governo legittimamente eletto. Perché è evidente che dietro molte di queste iniziative si nasconde un disegno politico interno: non la pace in Medio Oriente, ma la guerra contro il governo Meloni.
La premier italiana, ancora una volta, ha dimostrato fermezza e lucidità. Ha difeso la linea della responsabilità e della serietà, evitando di cadere nelle trappole ideologiche e mantenendo la barra dritta. In un Paese dove troppo spesso la politica estera viene letta con le lenti del consenso interno, Meloni ha preferito la concretezza all’emotività. Mentre gli attivisti si facevano fotografare con le bandiere della pace, lei ha scelto di stare dalla parte di chi costruisce la pace vera, quella che si ottiene attraverso i canali diplomatici, i contatti internazionali e le alleanze solide. La stessa pace che Trump è riuscito a imporre con la sua determinazione, confermando ancora una volta che la leadership, quando è autentica, non ha bisogno di piacere a tutti ma solo di ottenere risultati.
Non è un caso che il piano americano sia stato accolto con favore anche dai mediatori di Qatar ed Egitto, due attori chiave del mondo arabo, che hanno subito avviato colloqui in coordinamento con Washington per completare le discussioni tecniche e garantire l’applicazione immediata del cessate il fuoco. Persino i vertici militari israeliani, che inizialmente avevano mantenuto una linea di cautela, hanno ricevuto ordini di ridurre le operazioni militari a Gaza al minimo, limitandole a funzioni difensive. Segno che la macchina della pace, una volta avviata, non può più essere fermata.
Trump ha parlato ancora una volta come un uomo che non ha bisogno di giustificarsi. “Siamo vicini a ottenere la pace e tutti saranno trattati in modo equo”, ha detto in un messaggio video che ha fatto il giro del mondo. E nelle sue parole c’era quella fiducia tipica di chi sa che la storia premia i risultati, non le intenzioni. È difficile negare che il suo piano abbia già cambiato il corso degli eventi. Là dove generazioni di diplomatici avevano fallito, un leader pragmatico ha imposto la logica del risultato.
L’Italia, in questo contesto, ha scelto la stessa direzione. L’asse tra Roma e Washington, fondato su un realismo politico che rifiuta tanto il pacifismo di maniera quanto il bellicismo cieco, è oggi una garanzia di stabilità. Giorgia Meloni, come Trump, crede che la pace non si costruisca con i cortei ma con la forza delle istituzioni, la coerenza e il rispetto delle regole. Gli attivisti possono continuare a recitare la loro parte in un copione che il tempo ha ormai reso obsoleto. La realtà, invece, parla il linguaggio della concretezza: gli ostaggi tornano a casa, i bombardamenti si fermano, la guerra trova una via d’uscita. E tutto questo non grazie ai simboli, ma grazie al coraggio politico di chi ha scelto di agire.
Oggi il mondo scopre che la pace non è un’utopia, ma una decisione. E quella decisione, questa volta, l’ha presa Donald Trump. Un giorno che entrerà nei libri di storia, non solo per la fine di una guerra, ma per la dimostrazione che la leadership, quando è vera, non ha bisogno di farsi perdonare il proprio coraggio.
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