Omicidio Simonetta Cesaroni, dopo 32 anni si riapre il caso

Il 7 agosto del 1990 nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventu’ viene trovato il corpo della ragazza

Nuove verifiche e accertamenti, nuove audizioni per arrivare, dopo 32 anni, ad una verità. Si riapre il caso di Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate il 7 agosto del 1990 in via Poma a Roma.

Da alcuni giorni, infatti, i pm di piazzale Clodio avrebbero avviato un nuovo procedimento ascoltando una serie di testimoni, tra cui l’allora dirigente della Squadra Mobile, Antonio Del Greco

Tra gli inquirenti la cautela è massima ma secondo quanto scrive il quotidiano Il Foglio le nuove indagini riguarderebbero un sospettato che già all’epoca dei fatti finì nel mirino degli investigatori. Il suo alibi, a distanza di oltre trent’anni, potrebbe essere smentito da nuovi elementi che verranno raccolti dai magistrati per cercare di dare una identità a chi quel pomeriggio si accanì sul corpo di Simonetta. I legali della famiglia Cesaroni al momento non commentano il nuovo sviluppo giudiziario mentre dal canto suo l’avvocato Paolo Loria, difensore di Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni e assolto in via definitiva dall’accusa di omicidio, non nasconde la sua “soddisfazione”.

“Forse si arriverà al bandolo di questa matassa – afferma – e si riuscirà a trovare il vero colpevole e liberare dal sospetto, che dura da 30 anni, una serie di personaggi assolutamente innocenti. Sento periodicamente Busco, sta superando lentamente questo trauma”, aggiunge il penalista. Sull’omicidio della ventenne romana la parola fine sembra essere arrivata nel febbraio del 2014 con la decisione della Cassazione che confermò l’assoluzione dell’ex fidanzato. Contro di lui non furono trovate prove in grado di accusarlo “oltre ogni ragionevole dubbio” di essere l’assassino. Anzi, gli elementi che in primo grado portarono alla sua condanna a 24 anni di carcere, per i giudici della Suprema Corte erano da considerare solo delle “congetture”.

Nelle motivazioni di quella decisione la Cassazione mise in fila tutti i tasselli di uno dei più noti casi irrisolti della cronaca nera, dopo le archiviazioni dei procedimenti a carico del portiere dello stabile Pietrino Vanacore (morto suicida) e di Federico Valle. Ad avviso degli ‘ermellini’ l’assoluzione di Busco emessa dalla Corte d’Assise d’appello di Roma il 27 aprile 2012, non è da mettere in discussione perche’ risponde alle regole della “congruità” e completezza della motivazione” ed ha una “manifesta logicità”. I giudici di piazza Cavour smontarono l’impianto accusatorio della Procura arrivando ad affermare che non si sa nulla di sicuro sulle “modalità e i tempi” dell’azione omicidiaria, sul “movente” dell’omicidio, e nulla autorizza a ritenere “falso” l’alibi di Busco. Non è nemmeno sicuro che l’ex fidanzato di Simonetta fosse in via Poma quel giorno, mentre è sicuro che ci sono state altre persone delle quali si è trovato il Dna “minoritario” sulla porta di ingresso della stanza dove si trovava Simonetta e sul telefono dell’ufficio.

I fatti risalgono ad una torrida giornata di agosto, Roma deserta. In uno stabile di via Poma, nel cuore del quartiere Prati, viene brutalmente assassinata Simonetta. Da quel giorno sono trascorsi 32 anni in cui investigatori, magistrati e forze dell’ordine hanno cercato di dare un nome e un volto alla persona che sferro’ le coltellate. Un dedalo infinito di ipotesi, di sospetti: una galleria di personaggi che si sono avvicendanti sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti.

Il 7 agosto del 1990 nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventu’ viene trovato il corpo della ragazza. Il cadavere e’ trovato per l’insistenza della sorella Paola, preoccupata per il suo ritardo. Simonetta e’ nuda, ma non ha subito violenza. Secondo l’autopsia e’ morta tra le 18 e le 18,30. Pochi giorni dopo, il 10 agosto, viene fermato dalla polizia, Pietrino Vanacore, uno dei portieri dello stabile. Su un suo pantalone vengono individuate alcune macchie di sangue ma non e’ di Simonetta. L’uomo viene scarcerato dal tribunale del Riesame il 30 agosto.

Gli inquirenti cercano sia nella cerchia di amicizie della ragazza, a cominciare dal fidanzato di allora, sia negli ambienti di lavoro. Il pm Pietro Catalani, dopo alcuni mesi di indagini, chiede l’archiviazione della posizione di Salvatore Volponi, datore di lavoro della Cesaroni. Il 26 aprile del 1991 il gip archivia gli atti riguardanti Pietrino Vanacore e altre cinque persone. Il fascicolo resta aperto contro ignoti.

Trascorre circa un anno, il 3 aprile del ’92 viene inviato un avviso di garanzia a Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che abita nel palazzo di via Poma e che la notte del delitto ha ospitato Vanacore. Valle viene tirato in ballo dalle dichiarazioni dell’austriaco Roland Voller, amico della madre di Valle, secondo il quale dai racconti della madre sarebbe emerso che il figlio torno’ sporco di sangue da via Poma. Il 16 giugno 1993 il gip proscioglie Valle per non aver commesso il fatto e Vanacore perche’ il fatto non sussiste.

L’indagine entra in una lunga fase di stallo. Nel settembre del 2006 vengono sottoposti ad analisi i calzini, il corpetto, il reggiseno e la borsa di Simonetta. Il colpo di scena arriva con i risultati delle analisi effettuate dai Ris: sugli indumenti della ragazza, grazie a sofisticate strumentazioni, vengono rilevate delle tracce di saliva dell’ex fidanzato Raniero Busco che nel settembre del 2007 viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario. Gli investigatori, inoltre, prelevano l’impronta dell’arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla (attraverso le foto autoptiche del 1990) con il morso riscontrato sul seno di Simonetta: l’arcata dentaria di Busco s’integra con l’individuazione del suo Dna sul corpetto ed il reggiseno. Il 3 febbraio del 2010 inizia il processo a carico dell’ex ragazzo che vive anche di nuovi colpi di scena: il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione, si toglie la vita Pietro Vanacore. Giallo nel giallo di un omicidio che ha tenuto banco nella cronaca giudiziaria italiana per sei lustri. 

L’ultima vicenda giudiziaria risale al febbraio del 2014 con la pronuncia della Cassazione che ha confermato l’assoluzione per Busco, l’ex fidanzato dell’allora 21enne, che in primo grado era stato condannato a 24 anni di carcere. Verdetto ribaltato gia’ in appello.




CASO VIA POMA, INDAGINE E PROFILO DELL'ASSASSINO: LAVORINO CONFERMA TESI

di Roberto Ragone
Il criminologo Carmelo Lavorino massimo esperto del caso di via Poma che si è occupato di numerosi casi di cronaca nera, spesso ipotizzando versioni alternative dei fatti come consulente della difesa. Riguardo l'identikit dell'assassino di Simonetta Cesaroni qualcuno ha contestato quanto asserito dal professor Lavorino nel corso dell'intervista esclusiva rilasciata a L'Osservatore d'Italia lo scorso 11 luglio.
 

Il professor Lavorino ha ribadito la sua tesi che proponiamo di seguito:

Nota di Carmelo Lavorino

Evidenze scientifica è quello che è CERTISSIMO, non quello che si ipotizza e/o si conclude in seguito a un ragionamento ipotetico basato su una congettura.

Contro Busco non sono emersi indizi forti, ma solo frammenti di ombre di indizi poi scacciati dalla luce della Ragione, della Logica e della Scienza. Busco non aveva movente, tempi, opportunità, possibilità, capacità, conoscenze e intenti primari per essere in Via Poma quel giorno a quell’ora. Nemmeno aveva modi e motivi di pulire la scena. Nemmeno di conoscere l’origine e la sede del tagliacarte assassino (quello di Maria Luisa Sibilia). Il sangue di Busco è gruppo 0 mentre quello dell’assassino è di gruppo A. Alcuni alleli di Busco sono compatibili con quelli repertati sulla porta, ma vi era la presenza degli alleli di almeno cinque persone. Questi pochi alleli SONO ALTAMENTE NON SIGNIFICATIVI. TUTTI gli alleli della vittima Simonetta Cesaroni sono stati rinvenuti sulla porta (sangue).

Sul corpetto il DNA non è stato cercato se non dopo 15 anni, dopo che il corpetto era rimasto in un cassetto dell’obitorio di Roma, alla mercé di tutti ed a contatto con i calzini e il reggiseno della vittima: inquinamento, contaminazione, nessuna catena di custodia della prova…. Il sangue sul telefono (dell’assassino) gruppo A DqAlfa 4/4 è compatibile con almeno due persone, questo lo si sa dal 1990. Il problema è che nel 1990 gli Inquirenti si erano fissati sul fatto che il sangue fosse di gruppo 0 e non di gruppo A come io ho sempre sostenuto.

VOGLIAMO METTERCELO IN TESTA UNA VOLTE PER TUTTE CHE L’ASSASSINO DI SIMONETTA È UN SOGGETTO CHE USAVA ABITUALMENTE LA MANO SINISTRA E POCHISSIMO LA MANO DESTRA? Aggiungo  che il segno sul capezzolo sinistro della vittima non è un morso, che non riferibile a Raniero Busco, che non vi è nulla di strano che sul reggiseno dell'artigianato vi fosse il dna del fidanzato..e tutto ciò è stato definito ed accertato in perizia.




SIMONETTA CESARONI: "ORE CONTATE PER L'ASSASSINO DI VIA POMA" – PARTE 3

di Roberto Ragone
L’assassino di via Poma ha le ore contate, se diamo retta a Carmelo Lavorino, certamente il massimo esperto dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. Il prof. Lavorino è criminologo, criminalista, profiler, analista della scena del crimine, titolare della CESCRIN, scuola di investigazione scientifica criminale.

Il profilo psicologico dell'assassino di Simonetta Cesaroni è stato definito dal professor Carmelo Lavorino, già consulente della difesa di Federico Valle, nonchè di quella di Raniero Busco. A prescindere dal profilo psicologico, secondo il prof. Lavorino l’omicida è un uomo di circa quarant'anni, mancino, dal gruppo sanguigno A dqalfa4/4, sposato con figli, o con una compagna fissa. Una persona con tendenze narcisistiche, che non ammette fallimenti nella propria vita. Di persone gravitanti attorno all'ufficio dell'AIAG, già sentite in merito all'omicidio, ce ne sarebbero una o due, sarebbe quindi solo lavoro d'archivio andare a riprendere tutti i documenti agli atti e ripassare i verbali d'interrogatorio. Significativo anche il suicidio – certificato oltre ogni dubbio dalle prove e dai rilevamenti – di Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, nell'immediatezza della convocazione in Tribunale per una testimonianza che avrebbe certamente sollevato un velo sul mistero dell'omicidio efferato e violento di Simonetta Cesaroni. Pietrino Vanacore conosceva l'identità dell'assassino, e si è suicidato per non doverla rivelare. Aveva paura di capitolare di fronte alle domande di un PM che dopo tanti anni di indagine aveva capito che Vanacore era il perno di tutta la faccenda, il punto debole che avrebbe portato all'arresto di una persona che lui, fino all'ultimo, ha voluto proteggere. Simonetta Cesaroni è stata uccisa il 7 agosto del 1990 con un tagliacarte reperito su di una scrivania dell'ufficio in cui lavorava, con ventinove colpi, sferrati agli occhi, al volto, al ventre e nella vagina. Il corpo nudo è stato messo in posa sguaiata, con le gambe aperte, in segno di disprezzo.


Professor Lavorino, lei è il massimo esperto per ciò che riguarda l’omicidio di via Poma, essendo stato perito per la difesa sia nel caso di Federico Valle, sia di Raniero Busco, oltre ai libri che ha scritto, agli tabella pubblicati e alle perizie. A questo proposito ho trovato un’intervista di Pino Nicotri che lui addirittura ha intitolato ‘Ecco l’assassino’, nella quale intervista lei ricostruisce tutte le fasi dell’omicidio. Lei parla anche di un ceffone dato a mano aperta, con la mano sinistra, e qualcuno ha ipotizzato che Simonetta sarebbe stata accoltellata quando era già morta a causa di questo colpo. Lei che mi dice?
Assolutamente no. Sicuramente Simonetta ha ricevuto un colpo sulla tempia destra sferrato con la mano sinistra con moto circolare, quindi non è stato un manrovescio destro, ma un colpo sinistro, e poi questa mano sinistra ha continuato ad infierire sulla ragazza, sia colpendola al collo, quindi entrando da destra e fuoruscendo da sinistra, e poi colpendola ai lati della vagina, all’interno della coscia sinistra, lasciando una ferita bifida, che soltanto la torsione del polso sinistro può provocare, quindi il soggetto ha un uso istintivo e istintuale della mano sinistra, tanto che lo stesso medico legale che inizialmente fece l’autopsia, prima disse che la ragazza era stata colpita con uno schiaffone sferrato con la mano sinistra, poi, si vede, ha perso un pochettino la bussola, ha perso i parametri ed è andato a dire a volte destra, a volte sinistra. Dunque, a mio avviso l’assassino è un soggetto che ha l’uso esclusivo e preminente della mano sinistra, quindi non è un destrimane; le ventinove pugnalate sono state inferte mentre la ragazza era in vita, oppure nel limine vitae. Il colpo alla tempia, alla testa – non sulla guancia, sulla tempia sinistra  – l’ha tramortita. Praticamente le ha fatto perdere i sensi e le ha fatto immediatamente abbassare la pressione. Per questo i colpi quando sono stati inferti sul collo, sul cuore e sulla parte del sesso eccetera, anche se hanno raggiunto le aorte, non c’è stato lo schizzo violento del sangue, perché ormai il cuore pompava molto molto lentamente a causa di quel colpo violentissimo che la ragazza aveva avuto sulla tempia destra. Il colpo alla tempia destra mette immediatamente knock-out. Glie lo dico perché oltre ad essere criminalista e criminologo sono esperto di karate, di arti marziali e difesa personale, il colpo alla tempia destra è pericolosissimo. Tutte le ventinove ferite erano del tipo vitale ecchimotico, quindi sono state inferte quando il cuore pompava ancora, e quando la ragazza era in vita, pur essendo ormai bassissima la pressione. Sul caso ho scritto tre libri, circa centocinquanta saggi, una decina di consulenze, quindi sono andato ad approfondire ogni aspetto della vicenda. È interessantissimo però valutare anche la questione del sangue, perché la Corte di Cassazione, precedentemente, e anche successivamente a quando è stato assolto Raniero Busco, ha sentenziato ciò che la Corte d’Appello ha detto, cioè che l’assassino ha il gruppo A-dqalfa4/4. Quindi gruppo sanguigno A-dqalfa 4/4 sarebbe lo stesso allelico che nel 90 il professor Fiori e altri periti riuscirono ad individuare, a tipizzare. Però il PM ritenne che il sangue dell'assassino sul telefono fosse di gruppo 0 e non di gruppo A. Il gruppo 0 dqalfa 4/4 era riferibile a Simonetta Cesaroni, mentre il gruppo A dqalfa4/4 è riferibile all’assassino. Per ventiquattro anni mi sono litigato con gli inquirenti e con il PM, perché dicevano che non era vero che il sangue sul telefono fosse di gruppo A. Invece, finalmente, sia la sentenza d’appello che la Cassazione hanno definito una volta per tutte che il sangue sul telefono è di gruppo A, quindi non è né della vittima, che è di gruppo 0, e tantomeno di Raniero Busco, che è ugualmente di gruppo 0. Con questo sangue di gruppo A dqalfa 4/4 ci sono uno o due soggetti di Via Poma che praticamente hanno il sangue compatibile sia con questo gruppo che con questo aspetto allelico. Poi c’è un altro aspetto importantissimo, cioè che l’assassino è stato aiutato.


A proposito del sangue, come mai ci siamo fermati al gruppo sanguigno, e non siamo andati a vedere il DNA?

Il DNA è stato individuato, ma stiamo parlando del 1990. Il DNA, oggi, è noto anche a livello mediatico che viene analizzato tramite ventuno o ventitre regioni alleliche, quindi il DNA è dato da alcuni numeretti. All’epoca il DNA è stato analizzato, ma  soltanto tramite due regioni alleliche, perché il sistema tecnico-scientifico dell’epoca era quello. Il sangue (dell’assassino ndr) è di gruppo A, il dqalfa, cioè sarebbe l’assetto allelico, secondo il metodo dell’epoca, sempre riferito al DNA, – gli alleli sono riferiti alle quattro componenti del DNA, guanina, adenina, citosina e timina  – dissero che il sangue sul telefono era di gruppo A, con  DNA individuato come dqalfa 4/4. Quello che scrissero all'epoca – poichè il PM voleva vedere per forza verso un'unica direzione – fu che il gruppo sanguigno era 0 dqalfa 4/4, e all'epoca soltanto la vittima aveva il gruppo 0 dq alfa4/4. C'erano invece uno o due soggetti che avevano sangue gruppo A dq alfa 4/4.

Questi soggetti non vennero indagati?
No, non vennero indagati perchè inizialmente si disse che l'assassino era destrimane, mentre tutti e due questi soggetti, guarda caso, erano mancini, e poi la cosa importantissima è che il PM dell’epoca non volle mai considerare che il gruppo sanguigno fosse A e non 0. Infatti io mi litigai con questo PM. Finalmente la Corte d’Appello prima e la Cassazione poi hanno riconosciuto che il sangue sul telefono era A dq alfa 4/4. Questa è la situazione che riguarda il sangue. Ora, non essendoci più quel sangue, non può essere più analizzato secondo le metodiche attuali, perché se noi avessimo ancora quel sangue, con le metodiche attuali andremmo a individuare immediatamente chi è il produttore di quel sangue, dato che oggi ci sono le famose 21/24 regioni alleliche, mentre all’epoca ce n’erano soltanto due.


Vorrei farle un’altra domanda. Guardando il modus operandi dell’assassino, se ne evince una personalità molto particolare, quindi lei che profilo ne traccerebbe?
Quello di un soggetto violento, narcisista, aggressivo, che non permette assolutamente a nessuno di ostacolarlo, che ha agito e ha perso il controllo in seguito ad un rifiuto e rabbia esplosiva. Ha cominciato a colpire con una violenza estrema, colpendo gli occhi e il volto della ragazza, sia per sfregiarla e deturparne la femminilità, e nello stesso momento per indurla a tacere per sempre. I colpi al petto significano che il soggetto era in preda ad una rabbia esplosiva, omicidiaria, assassina, che voleva eliminare la vita della ragazza. I colpi al ventre hanno voluto offendere la sua femminilità, i colpi al pube indicano una tendenza a sadismo di tipo sessuale. Tutto questo la mente non lo decide in due minuti, in queste azioni tutto viene deciso dalla parte bestiale dell’aggressore, dalle parti arcaiche del cervello. Poi la persona cosa ha fatto? Ha lasciato la vittima in posa sguaiata, con le gambe aperte, in posa di disprezzo, di vilipendio, e poi ha chiamato qualcuno per farsi aiutare, e questo l’ha fatto telefonando. Ecco perché in una certa stanza ci sono delle tracce sul telefono, tracce che poi però sono state pulite con uno straccio. Da questa stanza il soggetto ha telefonato a qualcuno che è venuto ad aiutarlo. Questo qualcuno, dopo circa 45 minuti – perché a quel punto il sangue sul corpo della ragazza si era raggrumato – ha messo sul suo ventre il top bianco, che è stato repertato non sporco di sangue, il che sta a significare che il sangue non sgorgava più, e questo è un atto di pietas, di rispetto verso la vittima.


Questo vuol dire che quando è stata accoltellata, Simonetta si era spogliata.

Sì, Simonetta era nuda. Indossava soltanto il reggiseno che era sceso sotto i capezzoli, perchè i colpi che hanno trafitto il petto della vittima sono posizionati in modo che se il reggiseno fosse stato indossato in maniera normale, sarebbe stato trafitto dai colpi. Quindi la ragazza aveva già il reggiseno abbassato sotto le coste, però non se l'era tolto. Questo sta a significare che la ragazza è stata costretta a spogliarsi, ma non era consenziente ad effettuare quel tipo di rapporto.


 Comunque, come si evidenzia anche da alune foto, le scarpe di Simonetta – piccole scarpe di gomma – sono state trovate poste ordinatamente in un canto della stanza.

Sì, appaiate, una accanto all'altra, e dallo studio della posizione dei lacci e dell'ondulamento dei lacci stessi, ho dedotto, facendo un'analisi ben precisa, che sono state posate lì da una persona che usava la mano sinistra. All'interno di queste scarpe non c'era assolutamente alcuna traccia di sangue. Questo sta a significare che quando Simonetta è stata pugnalata, cioè a circa un metro e mezzo da dove sono state posizionate le scarpe, se fosse stata nei pressi, qualche schizzo di sangue per l'arma che si alzava – si chiama effetto Brandizzi, effetto dispersione, e poi che scalava, si chiama effetto aspersorio – qualche macchia di sangue avrebbe dovuto essere all'interno delle scarpe. Non essendoci, sta a significare che l'assassino, oppure il 'pulitore' ha spostato le scarpe dopo l'omicidio. Però la cosa importantissima è la questione del tagliacarte, che è senz'ombra di dubbio l'arma del delitto, sia per la forma bombata delle ferite, e sia perchè le ferite sono ecchimotiche, ciò che sta a significare che l'arma è penetrata non per la taglienza del filo, ma per la pressione, e tutte queste ferite sono compatibili con un tagliacarte che è stato ritrovato nella stanza e sulla scrivania di una certa Maria Luisa Sibilia. Il telefono sporco di sangue era nella sua stanza, quindi il 'pulitore' e l'assassino è lì che si sono attardati a fare qualcosa. La mattina alle ore 11 Maria Luisa Sibilia, che la mattina era tornata dalle ferie, non ha trovato il tagliacarte nella propria stanza. Chiede a due colleghe, ma nessuno ha saputo dirle dov'era. Non è andata nella stanza del capufficio, cioè nella stanza in cui è stata rinvenuta Simonetta. Per cui la Sibilia, alla presenza di due sue colleghe, ha aperto la corrispondenza con un tagliacarte che le hanno prestato loro. Alle 15 la Sibilia è andata via, e ha dichiarato che non aveva più trovato il suo tagliacarte. Quando è venuta la Polizia, il tagliacarte, l’arma del delitto, pulito e rassettato, era di nuovo sulla sua scrivania. Questo sta a significare che l’assassino, o il ‘pulitore’ sapeva che il tagliacarte era della Sibilia, ma non sapeva che la stessa lo avesse cercato alle 11. A questo punto escludiamo sia la Sibilia che le due colleghe. Il soggetto si è dimostrato territoriale, conoscitore degli orari, conoscitore dei locali, conoscitore dell’ambiente, conoscitore di molte cose, ma non sapeva che alle ore 11 il tagliacarte era stato cercato dalla Sibilia, altrimenti non sarebbe andato a metterlo sulla sua scrivania.


E’ stato rimesso a posto per evitare che si potesse collegare all’omicidio?
La persona che ha rimesso a posto il tagliacarte lo ha lavato, ha cancellato tutte le impronte digitali, le impronte di sangue, le impronte papillari. Ha poi tentato, ma non da solo, di pulire scena del crimine, aiutato dal 'pulitore' a cui aveva telefonato, o dalla coppia di pulitori. Il secondo arrivato, per un atto di pietas, di disfacimento psichico o di negazione del crimine ha coperto il ventre della ragazza, al minimo quarantacinque minuti dopo l’omicidio, quando il sangue non sgorgava più. Atti del genere un assassino che lascia la vittima in posa sguaiata non li fa. Si tratta di una persona che non ha voluto toccare il cadavere, e congiuntamente ha voluto coprirne il ventre, una persona che ha avuto pietà, quindi qualcuno che aveva venti o trent’anni più della vittima. Se si lavora a livello di profilo criminale, abbiamo ipotesi multiple, e ci dobbiamo fermare di fronte a due porte: una che ci conduce di fronte all’AIAG, l’altra di fronte al portierato. Sono queste le due porte, di più non si può fare. L’anno scorso ho mandato un mio esposto al Procuratore Capo di Roma, in cui espongo alcune mie deduzioni molto personali in qualità di cittadino, dico loro come la penso e li invito ad approfondire determinate piste.


Si è detto e scritto che nello svolgimento delle indagini l’assassino è stato interrogato, ma è stato scartato come possibile colpevole, è esatto?
Sì, a mio avviso l’assassino è stato ascoltato, solo che gli inquirenti inizialmente vedevano solo Pietrino Vanacore, poi hanno visto Federico valle, poi hanno visto Raniero Busco, e ogni volta, poiché erano concentrati nel dimostrare la loro tesi, non riuscivano a vedere ciò che avevano davanti.


Abbiamo detto che l’autore del delitto è una persona di sesso maschile , sicuramente molto forte e mancina: secondo lei, un giovane o una persona più anziana di Simonetta, che differenza d’età lei potrebbe ipotizzare? Quanti anni potrebbe avere, pressappoco, l’assassino?
All’epoca questo l’ho detto e l’ho scritto, quanto meno il soggetto aveva quarant’anni. Simonetta è stata uccisa per un rifiuto sessuale, in quanto il soggetto aveva ricevuto una fortissima ferita narcisistica dall’atteggiamento di rifiuto della ragazza, e l’ha uccisa per tacitazione testimoniale, cioè per far fuori un testimone della sua umiliazione. Quindi all’epoca un soggetto del genere doveva avere una compagna fissa o doveva essere sposato, quanto meno avere una relazione stabile, con figli, che non poteva mettere a rischio con una denuncia o una protesta fatta da Simonetta Cesaroni. Questa è un’ipotesi che si va a sposare sia se guardiamo nella direzione AIAG, sia se guardiamo nella direzione portierato. Bisognerebbe analizzare tutte le dichiarazioni che hanno fatto finora queste persone, fin dall’inizio, e poi andare a cercare tutte le contraddizioni testimoniali e dichiarative. Queste cose io le ho fatte, ma sono cose molto lunghe. Ho ipotizzato cinque scenari diversi, sono andato a fare i collegamenti eccetera. Ma il problema è che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, e di chi non vuole mai ammettere d’avere sbagliato. Il buon investigatore e il buon criminologo, se pagati dallo Stato, non devono mai fare del caso investigativo un caso di carriera o personale.


Come profilo del ‘pulitore’, ci starebbe la signora Giuseppa?
Non vedo la pulitrice, ma il pulitore, un maschio. Che poi qualche donna abbia voluto coprire il soggetto esecutore, questo è chiaro, a livello di colleganza. Le ripeto: in ambedue gli scenari abbiamo un soggetto pulitore maschio, la donna che può coprire, e la donna che può fiancheggiare, sia in un caso che nell’altro. Ora bisogna stabilire con esattezza quando la ragazza è morta realmente, e sapere se quella telefonata delle 17,10 – perché poi ce n’è stata un’altra alle 17,35  – è stata effettuata realmente da Simonetta Cesaroni, o no. Oppure bisogna capire se c’è stata o non c’è stata. Perché questo poi ci porta a guardare con l’occhio critico dell’arte investigativa. La domanda su Giuseppa mi fa capire dove lei vuole andare a parare. Giuseppa De Luca non è la madre biologica di Mario Vanacore, e ce ne siamo accorti andando a verificare il DNA. Mario Vanacore è figlio di Pietrino avuto in prime nozze. Infatti all’epoca, quando ci arrivò l’assetto allelico, paragonando i gruppi sanguigni, fu lì che scoprimmo che Mario Vanacore non era figlio di Giuseppa De Luca, ma era figlio di un’altra donna. Col DNA non si scherza. L’unica persona al mondo che sta scherzando con il DNA attualmente è la mamma di Bossetti. Lì fu la stessa cosa, c’erano i due numeretti, dq alfa che c’indicarono chiaramente che non poteva essere la mamma di Mario Vanacore. Invece come pulitore ci può stare Pietrino Vanacore, se lo scenario ci fa guardare verso il portiere, se invece ci fa guardare verso l’AIAG può essere sempre il portiere, però in un’altra maniera, o altrimenti qualcuno che girava nella situazione. Però se in questo noi andiamo a collegare il suicidio di Pietrino Vanacore,  – quello che ha detto Francesco Bruno, che ha messo in mezzo i servizi segreti, una specie di Spectre di Via Poma non è assolutamente vero, quello si è ammazzato – perché quello si è ammazzato due o tre giorni prima che dovessero andare a deporre tutti e tre. Se poi lei nota ciò che hanno detto questi personaggi, si capisce che hanno un accanimento particolare in una certa direzione. Insomma, gli scenari sono due. Possono essere risolti soltanto tramite la questione del DNA, quindi l’aspetto allelico, se è vero come è vero che il sangue sul telefono è di gruppo A dq alfa 4/4, si va verso una direzione. Se è vero come è vero che l’assassino è mancino, oppure non può usare la mano destra, si capisca chi deve essere guardato e indagato, e poi a questo punto si possono effettuare altre verifiche investigative. Comprenda che è duro per questi qui (gli inquirenti ndr) ammettere che Lavorino aveva ragione fin dal 1990.

Un’ultima cosa: non le sembra strano il suicidio di Pietrino Vanacore, dato che lui conosceva certamente l’identità del colpevole? Non è che per caso lo hanno ‘suicidato’?
Ho già detto prima che Pietrino Vanacore non lo hanno ‘suicidato’, ma lui lo ha fatto per una serie di motivi: per motivi di suicidio vicario, perché voleva coprire qualcuno, per rimorso, perché non se la sentiva di portare più quel peso. Ma che lo abbiano suicidato non ci credo assolutamente, anche perché tutte le evidenze medico-legali, testimoniali e dichiarative ci fanno indurre che si tratti di suicidio.


In mezzo metro d’acqua?
Sì, assolutamente, in mezzo metro d’acqua, anche perché faceva freddo, lui aveva una certa età, era indebolito, ed era intenzionato a suicidarsi. Nei polmoni gli hanno trovato acqua di mare, non un altro tipo d’acqua, né tracce di un soffocamento manuale. Sul cartello la scrittura era sua, le tracce sono sue, le risposte papillari sono le sue, il DNA è suo. La corda è andato a comprarla lui. Capisco che si voglia sempre fare dietrologia, naturalmente è sempre buono e ottimo sospettare di tutto, ma guardi che in mezzo metro d’acqua, se uno è intenzionato a morire, specialmente se è in uno stato fisico o psichico particolare, lo può senz’altro fare. Non c’è alcun riscontro che vada contro il suicidio, in questo caso. Hanno voluto mettere in mezzo i fantasmi di Via Poma, i servizi segreti deviati, eccetera, ma questo è un suicidio bello e buono. Anche perché Vanacore aveva già manifestato idee del genere.

LEGGI ANCHE:

SIMONETTA CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA, PARTE 1

CASO CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA – PARTE 2


 




CASO CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA – PARTE 2

di Angelo Barraco

Nella prima parte di questa inchiesta dedicata al giallo di via Poma, abbiamo introdotto la scena del crimine che si è presentata sotto gli occhi di Paola Cesaroni, del suo fidanzato Antonello Barone, del datore di lavoro di Simonetta Cesaroni Salvatore Volponi – che fu il primo ad entrare nell’ufficio dove si trovava il corpo senza vita di Simonetta Cesaroni – il figlio Luca, la portiera Giuseppa De Luca e il figliastro Mario Vanacore. Pietro Vanacore sopraggiunse poco dopo poiché si trovava a casa dell’architetto Cesare Valle, in quel momento unico inquilino presente nel palazzo. La porta dell’ufficio, dove lavorava Simonetta Cesaroni era chiusa a quattro mandate e fu aperta dalla moglie di Vanacore a seguito delle insistenze dei presenti. Iniziamo ad addentrarci nel giallo di via Poma, analizzando in modo clinico, analitico e critico, tutte le piste battute dagli inquirenti nel corso di questi lunghi anni d’indagine.

 

Pietrino Vanacore La macchina investigativa parte immediatamente e l’occhio viene puntato su coloro che in quel momento si trovavano all’interno del palazzo. Emerge subito che i portieri di via Poma, oltre a De Luca, Vanacore e Grimaldi, avevano chiacchierato davanti alla fontana del condominio e avevano riferito inoltre di non aver visto entrare nessuno nella fascia oraria compresa tra le 16.00 e le 20.00 del 7 agosto. Ma qualcosa non quadra poiché viene fuori che Pietrino Vanacore non si trovava con gli altri portieri, circostanza che va in netto contrasto con quanto asserito inizialmente da Vanacore. Emerge infatti che l’uomo, nella fascia oraria compresa tra le 17.30 e le 18.30, arco temporale in cui Simonetta sarebbe stata assassinata, risultava assente. Dalle indagini emerse che l’uomo si recò, insieme al portiere Grimaldi, a fare degli acquisti in un ferramenta e successivamente, da solo, aveva annaffiato le piante. Gli elementi di contraddizione e sospetto attorno a Vanacore aumentano sempre più in quanto aveva asserito che alle 22.30 era uscito di casa per recarsi dall’architetto Cesare Valle per fare assistenza notturna. Tale circostanza venne però smentita dallo stesso architetto ed emerse che Vanacore si recò da Cesare Valle alle 23.00. Occorre qui fare una premessa importante: il portiere conosceva bene i luoghi e in quella mezz’ora che va dalle 22.30 alle 23.00 avrebbe potuto disfarsi dell’arma e ripulire la scena del crimine. Nessun altro estraneo fu visto quel pomeriggio in via Poma, a parte una dichiarazione della moglie di Vanacore, poi rivelatasi priva di fondamento, che disse agli inquirenti di aver visto un uomo. Ma la persona indicata dalla donna si trovava fuori Roma e, quindi, quel pomeriggio non poteva trovarsi sul luogo del delitto. Dubbi, sospetti ma mancava un dato oggettivo importante, il movente: Che legame c’era tra Pietro Vanacore e Simonetta Cesaroni? Dalle indagini emerse che i due non si conoscevano, se non di sfuggita. Il portiere, inoltre, malgrado avesse le chiavi e potesse agire con facilità, non poteva certamente sapere con certezza se Simonetta Cesaroni fosse da sola in ufficio o meno. Si parlò tanto del sangue rinvenuto sui pantaloni di Vanacore, tv e giornali misero in prima pagina il “colpevole” di via Poma, ma dagli accertamenti emerse  che quel sangue non proveniva dalla scena del crimine bensì dalle emorroidi di cui soffriva Vanacore. L’uomo viene inizialmente accusato, tutti parlano del “caso risolto”, sembra tutto chiarito, il 23 aprile del 1991, l’uomo viene scarcerato e la sua posizione archiviata poiché non vi sono elementi oggettivi a suo carico. Ma quando tutto sembrava essersi placato, Pietrino Vanacore viene indagato nuovamente. Questa volta per favoreggiamento del presunto autore del delitto. Nell’ottobre del 2008 viene perquisita la casa pugliese di Vanacore, gli inquirenti cercano un’agenda telefonica, ma non trovano nulla.

Federico Valle Gli investigatori puntano l’attenzione su Federico Valle, nipote di Cesare Valle, l’architetto presso cui Vanacore aveva trascorso la notte tra il 7 e l’8 agosto. Secondo l’accusa, Vanacore avrebbe provveduto ad occultare le tracce del delitto dopo essere entrato nell’appartamento e aver scoperto quanto accaduto.
Le accuse nei confronti di Federico Valle si basarono su delle dichiarazioni pervenute agli inquirenti nel 1992 da un certo  Roland Voller, un pluripregiudicato. L’uomo raccontò agli inquirenti che nel maggio del 1990, nel corso di una telefonata presso una cabina telefonica, un’interferenza lo mise in contatto con una donna, tale Giuliana Ferrara, l’ex moglie di Raniero Valle, quest’ultimo figlio dell’architetto Cesare Valle. L’uomo riferì che tra i due si istaurò un’amicizia e che la donna aveva confidato inoltre di essere preoccupata per il figlio Federico che soffriva per la separazione dei genitori e per tale ragione si era ammalato di anoressia.
L’uomo ha riferito inoltre che il 7 agosto, nel corso di una conversazione, la donna avrebbe riferito che il figlio si  recò in via Poma a trovare il nonno ma non era ancora tornato a casa. Ma le dichiarazioni dell’uomo si arricchiscono di particolari poiché racconta che, sempre la stessa sera, la donna era sconvolta poiché il figlio Federico era tornato sporco di sangue e con un taglio sulla mano. L’uomo sosteneva inoltre che l’Avv. Raniero Valle, padre di Federico, avrebbe avuto una relazione con una ragazza di vent’anni che lavorava agli ostelli della gioventù e il movente dell’omicidio di Simonetta Cesaroni rappresentava una punizione che il giovane voleva dare al padre. Le dichiarazioni di Voller caddero poi come un castello di carta in quanto Giuliana Ferrara ammise di conoscerlo negando di essersi mai confidata con lui e negando di aver parlato telefonicamente con Voller la sera del 7 agosto del 1990. Emerse inoltre che l’avvocato Raniero Valle aveva si una relazione, ma con un’altra donna. Rilevanti gli esami del dna sul sangue rinvenuto all’interno della stanza. Dagli esami, infatti, è emerso che il sangue di Federico Valle  è incompatibile con il sangue presente sulla porta. In merito alle tracce di sangue presenti sulla porta, i consulenti del PM avevano mosso delle criticità sui risultati poiché il sangue poteva anche essere dovuto alla commistione. Il sangue di Simonetta Cesaroni era del gruppo  0, Gm a+ b+  DQ alfa 4-4. Il gruppo sanguigno di Valle invece A DQ alfa 1.1/1.1. Il sangue rinvenuto sulla porta appartiene ad un gruppo A,Gm a+, DQ alfa 1.1/4, individuo di sesso maschile. Il tutto è stato esaminato con il sistema HLA-DQ alfa.

LEGGI ANCHE: SIMONETTA CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA, PARTE 1




Simonetta Cesaroni: Il silenzio di Via Poma e quel "morso" al seno, ecco l'intervista inedita – PARTE 4

di Angelo Barraco
 
Roma – “È un errore confondere ciò che è strano con ciò che è misterioso”, scrisse il famoso scrittore scozzere Arthur Conan Doyle. Ma se tale affermazione si contestualizzasse all’interno di uno scenario delittuoso come Via Carlo Poma n°2, dove in data 7 agosto del 1990 fu brutalmente uccisa la giovane e bella Simonetta Cesaroni, risulterebbe errata poiché il delitto presenta  un numero considerevole di zone d’ombra che lo rendono “strano” e “misterioso”. Un corpo martoriato da 29 coltellate, un paio di scarpe riposte perfettamente in ordine e una porta chiusa con quattro mandate. Questa è la scena che si è presentata sotto gli occhi di Paola Cesaroni, il suo fidanzato Antonello Barone, il datore di lavoro di Simonetta Salvatore Volponi –che fu il primo ad entrare nella stanza- e suo figlio Luca, la portiera dello stabile Giuseppa De Luca e il figliastro Mario Vanacore. Abbiamo ripercorso le prime due piste investigative che hanno rappresentato il punto di partenza di una storia che ad oggi è pervasa da ombre e foschia, ben lontana dalla luce. La tragica fine di Simonetta Cesaroni è ad oggi senza colpevole.  L’assassino  ha gettato nebbia e mistero dietro quelle quattro mandate, dove tutto è rimasto statico come in un religioso silenzio, che sembra dilatarsi negli anni e assopirsi sempre di più. Il corpo di Simonetta è stato rinvenuto supino, con la testa riversa e con braccia e gambe divaricate; la giovane indossava soltanto il reggiseno abbassato sui capezzoli e i calzini bianchi, inoltre sul suo ventre vi era poggiato il corpetto che era solita indossare. Un elemento che ha destato curiosità e stranezza è la posizione delle scarpe da tennis, che si trovavano riposte in un angolo della stanza e perfettamente allineate. L’arma del delitto non fu mai rinvenuta, non furono mai trovate che chiavi dell’appartamento e si presume che il killer abbia usato proprio quelle per chiudere la porta e andar via, inoltre mancavano alcuni effetti personali della giovane e i vestiti. 
 
Dopo aver analizzato in dettaglio il coinvolgimento di Pietrino Vanacore e Federico Valle, adesso analizziamo la figura di Raniero Busco e il suo rapporto con Simonetta. Ricordiamo inoltre che Busco è stato condannato nel processo di primo grado -26 gennaio 2011- a 24 anni di reclusione, il 27 aprile 2012 si celebra il processo d’Appello e viene assolto per non aver commesso il fatto, il 26 febbraio del 2014 viene fissato il processo di legittimità a seguito di un ricorso in Cassazione della Procura e Busco viene assolto.  La storia d’amore tra Simonetta e Raniero ebbe inizio nell’ottobre del 1988, quando la giovane pone fine ad una precedente storia d’amore durata quattro anni, che per lei era diventata quasi un’abitudine e si era stancata. La relazione con l’altra persona finisce, ma rimangono comunque buoni amici. Simonetta racconta alle amiche, attraverso delle lettere che abitualmente spedisce, la sua vita, i suoi amori, le sue perplessità. Scrive tanto alle amiche che vivono altrove e ci tiene molto a mantenere vivi i rapporti ma  scrive anche a se stessa, ponendosi domande e interrogativi in merito a quanto le succede. Nel maggio del 1989 Simonetta e Raniero non stanno più insieme e la giovane, malgrado non stia più con Busco, lo pensa ancora. Simonetta cerca di dimenticarlo, provando anche ad uscire con altri ragazzi ma non lo fa poiché non vuole prendere in giro nessuno. In una lettera di sfogo  scrive “Dovrei odiarlo, disprezzarlo, ma non ci riesco, dico a me stessa e agli altri, che anche se tornasse non mi rimetterei mai con lui, per ciò che ha fatto e per quello che è diventato, ma no so, è facile dirlo a parole, ma nella realtà è diverso, e anche molto”. Simonetta prova ed esterna i suoi sentimenti a Raniero ma non riceve esattamente quanto dato ed esterna il suoi dubbi su carta, tergiversando le  speranze di una possibile riconciliazione a seguito di momenti passati insieme che hanno fatto ben sperare. Il 24 novembre del 1989, un mese esatto dalla ripresa della loro storia e 8 mesi prima del delitto, Simonetta scrive una lettera in cui esprime tutta la sua rabbia e il suo dolore poiché si sente tradita “Ciao, sei solo un lurido verme schifoso, ma non credevo che saresti arrivato a tanto. Ho tanta rabbia in me, vorrei gridartela in faccia, ma mi rendo conto che sarebbe fiato sprecato, tu no mi ascolti mai, sei troppo impegnato ad organizzarti le serata, una con me, un'altra con lei. Ma non ti viene la nausea a guardarti allo specchio? Quello che hai fatto, non te lo perdonerò mai, sei sceso troppo in basso. Un essere come te merita solo disprezzo,.mi hai tratta come…..Non so quanto tempo mi ci vorrà per recuperare tutto questo, ma ce la farò”. Dalle lettere che Simonetta scrive, emerge una persona che prova solitudine, che si sente presa in giro dal compagno con cui ha condiviso sentimenti che non hanno trovato la bivalenza tanto sperata, emerge una ragazza che non può vivere quella relazione poiché non in linea con il suo punto di vista ma allo stesso tempo non riesce a contrastare i suoi sentimenti. 
 
La sentenza pronunciata in data 27/04/2012 in Corte di Assise di Appello di Roma condanna Raniero Busco a 24 anni di reclusione e al risarcimento danni. Ma quali sono stati gli elementi che hanno portato a tale esito processuale? Un elemento che la Corte di primo grado aveva tenuto in considerazione riguardava il dna di Busco che si trovava sul reggiseno e sul corpetto di Simonetta e si concentrava nell’area del seno sinistro, tale elemento fu collegato al morso sul capezzolo sinistro che, secondo la Corte di primo grado, è stato inferto durante il delitto. La ricostruzione del delitto fatta dalla Corte d’Assise è la seguente: La giovane avrebbe aperto la porta dell’ufficio di via Poma al suo fidanzato ed era certa che non sarebbe giunto nessuno, i due si erano predisposti per un rapporto sessuale e la giovane si era tolta i vestiti ma ad un certo punto subentrano le tensioni tra i due e Simonetta si rifiuta di proseguire, Busco dapprima avrebbe morso la giovane sul seno e poi l’avrebbe uccisa. Secondo la Corte di primo grado ciò spiegherebbe le tracce di DNA di Busco e l’attribuzione del morso a Busco stesso sulla base di specifiche consulenze. Inoltre la Corte di primo grado aveva riferito che vi era l’attribuzione del morso sul capezzolo sinistro a seguito di consulenze tecniche, era stato realizzato un calco. La Corte inoltre aveva sottolineato il fallimento dell’alibi di Busco, che aveva cercato di indurre altri soggetti a confermarlo cercando di farlo coincidere con l’orario della morte di Simonetta. Secondo i giudici della Corte di primo grado il movente era legato al rapporto unidirezionale della coppia; da un lato vi era Simonetta che amava Raniero e voleva un rapporto stabile, malgrado il trattamento che riceveva e che non la rendeva felice e appagata; dall’altro lato c’era Raniero che invece cercava solo rapporti fisici. Secondo la Corte, i due si erano incontrati sul posto di lavoro e tra i due si stava per consumare un rapporto sessuale ma sarebbe scaturito un alterco che avrebbe portato Busco ad un raptus. 
 
Gli elementi che la Corte territoriale valuta e che porteranno all’assoluzione di Raniero Busco sono diversi. In primo luogo si era discusso il morso sul seno di Simonetta poiché venivano evidenziale le consulenze eseguite svolte in precedenza. Vengono messi da parte elementi come l’orario della morte, le cause e l’elemento che ha posto fine alla vita di Simonetta Cesaroni. In merito al “morso” vi è una conclusione differente rispetto a quelle esposta in primo grado e la Corte, analizzando i risultati della perizia e delle consulenze, sottolinea che non era stato fatto nessun approfondimento all’epoca. Le consulenze tecniche sono state svolte mediante l’ausilio di foto dell’epoca e con degli esperimento. Viene subito evidenziato un elemento che prima d’ora non era mai stato considerato, ovvero che il Prof. Prada, colui che aveva visto ed esaminato il corpo della povera Simonetta non aveva mai affermato con certezza che quei segni fossero riconducibili ad un morso. Inoltre si è evidenziata l’assenza del tampone per il prelievo di saliva che avrebbe sicuramente portato all’individuazione di un profilo. La metodologia della perizia e l’analisi delle foto che lasciano spazio ad interpretazione, poiché non vi è la possibilità oggettiva di verificare dal vero, hanno fatto annullato la valenza di questo elemento e si è creata molta confusione a riguardo e molti ulteriori interrogativi: Morso o graffio? 
 
Noi de L’Osservatore D’Italia abbiamo voluto approfondire la questione del “morso” al seno di Simonetta Cesaroni e nel dicembre del 2015 abbiamo intervistato in esclusiva la Dottoressa Milani, che ha lavorato sul caso dal dicembre 2011 all’aprile 2012 come Consulente Odontoiatra forense della Parte Civile-famiglia Cesaroni. 
 
– Quando ha avuto inizio il suo lavoro sul caso di Simonetta Cesaroni?
Ha avuto inizio quando mi contattò l’Ingegnere Fabio Boscolo. Mi disse che stava lavorando su quel caso: aveva delle fotografie da analizzare e, in quanto ingegnere forense  la gestione e l’analisi delle immagini era sicuramente uno dei suoi ambiti, ma poiché alcune foto ritraevano una lesione potenzialmente riconducibile ad un morso aveva necessità di uno specialista in odontologia forense e, nella fattispecie, nei cosiddetti ‘bitemarks’. 
 
– Sappiamo che lei è stata Consulente Odontoiatra forense della Parte Civile della famiglia Cesaroni. Quali sono state le impressioni sulla vicenda che ha avuto nel momento in cui ha assunto l’incarico?
All’inizio conoscevo il caso solo dai giornali, dai media che per anni ne avevano parlato. E i media non raccontano tutto e – si sa – non sempre raccontano le cose in modo davvero neutrale e oggettivo. Quindi, quando ebbi accesso al materiale, mi resi conto di ‘Quanto’ altro c’era da sapere e da dire: quante foto, quanti documenti!
 
– In cosa consisteva il suo incarico?
Consisteva, in collaborazione con l’ing. Boscolo, nel cercare di definire l’origine di quella lesione, ossia se si trattasse davvero di un’impronta di morsicatura (bitemark) e se fosse o meno riconducibile alla dentatura dell’allora imputato Raniero Busco, fidanzato di Simonetta all’epoca dei fatti. 

– L’autopsia sul corpo di Simonetta nel 1990 accertò che sul seno sinistro di Simonetta Cesaroni vi era un morso. Ma come si arriva ad accertare che quella lesione sul seno della giovane fosse un morso?
L’autopsia aveva rilevato una lesione che poteva denunciare “in termini deterministici l’azione di un morso”. Tenete presente che nel 1990 in Italia non si sapeva cosa fossero i Bitemarks, intesi come lesione con valore probatorio nelle aule di giustizia. I Bitemarks, in tal senso, sono nati negli anni ’70  negli Stati Uniti a causa del Serial Killer Ted Bundy la cui dentatura fu analizzata da un odontologo forense e dichiarata compatibile con la lesione prodotta sul corpo di una delle vittima. Solo in un momento successivo, Bundy confessò quello e altri omicidi, consacrando la validità dell’analisi dei bitemarks. Da lì successivi studi e criteri di analisi si sono susseguiti. In Italia, all’epoca dell’omicidio di Via Poma non esisteva nemmeno la figura dell’Odontologo Forense. 
Le lesioni da morsicatura presentano le cosiddette ‘caratteristiche di classe’ che permettono di identificarlo come morso umano. E che fosse tale concordavamo sia io, sia l’odontologo forense consulente della difesa. Così come l’odontoiatra clinico che lavoro in primo grado per il pubblico ministero.
 
– Chi è l’ Odontologia Forense? 
Diciamo che l’odontologo forense sta all’odontoiatra come il medico legale sta al medico di base.
Più nel dettaglio, l’Odontologo Forense è un esperto negli ambiti di identificazione personale (si sa che l’identificazione dentale, data l’unicità di tali distretti, è una dei tre metodi ufficialmente riconosciuti dall’Interpol assieme alle impronte digitali e al DNA); è un esperto di lesioni prodotte su denti e mascellari e di lesioni causate da denti come nel caso dei bitemarks. Qui si inserisce anche tutto un discorso inerente ai maltrattamenti e abusi sui minori. 
Poi vi è la stima dell’età anche sul vivente, per valutare il compimento delle soglie critiche dei 14-16-18 anni, tema quanto mai attuale.
La particolare branca dell’odontoiatria legale si occupa invece di responsabilità professionale nel settore odontoiatrico. 
L’odontologo forense nasce come Medico Odontoiatra, ma per poter essere definito  tale deve aver completato un percorso formativo fondamentale (incentrato in modo specifico sul contesto Forense vero e proprio: studi di giurisprudenza, medicina legale, tecnica di sopralluogo, ecc. ) che lo porta ad essere una figura molto diversa dall’odontoiatra clinico, il dentista. Molta di questa formazione la si deve necessariamente compiere all’estero. Se l’odontologo forense è un odontoiatra non è vero, quindi, il contrario: l’odontoiatra (dentista) non è un odontologo forense.  
 
– Nel caso di Via Poma è stata inoltre comparata l’arcata dentaria di Raniero Brusco con il morso sul seno di Simonetta ed è stata riscontrata una compatibilità. Quali sono gli elementi tecnici che stabiliscono la compatibilità? Come avviene la comparazione e secondo quale processo?
Ci vorrebbe una risposta lunga come un trattato di Bitemarks Analysis. Fermo restando che sono già state appurate le caratteristiche di classe, a questo punto, come prima cosa bisogna disporre delle arcate dentarie dell’ipotetico morsicatore per poter valutare o escludere la compatibilità con la lesione prodotta. Molto spesso i bitemarks sono delle grosse ecchimosi, ciò non li rende sicuramente facili da analizzare. In altri casi sono più penetranti sulla cute tanto da lasciare, in alcuni punti, delle figure abbastanza nette, impresse quasi a stampino e suggestive dello strumento che le ha prodotte. In altri casi ancora, si può trattare di azioni talmente violente da strappare lacerando in modo indecifrabile la cute, a volte staccandone proprio dei brandelli.  Qui siamo nel secondo caso in cui, in alcuni punti, se guardiamo con attenzione notiamo dei margini e delle forme ben precise, che quindi si prestano bene ad una comparazione con lo strumento che le ha prodotte: i denti.
Ai tempi di Ted Bundy tali analisi venivano fatte confrontando le fotografie della lesione con le impronte dei denti dell’imputato.  Questo capita ancora oggi quando non vi sia più la possibilità di accedere alla lesione sul corpo (come nel caso di Simonetta). E’ un po’ più complicato ed è auspicabile un lavoro di squadra con chi sia in grado di gestire strumenti tecnologici e digitali ad alto livello (come ha fatto l’Ingegner Boscolo con la sua grande esperienza nel settore), ma ciò non vuol dire che non si possa procedere lo stesso. 
Se invece il caso è recente, attuale, si procede proprio ad acquisire un’impronta anche della lesione.
Dopodichè, si sovrappongono, facendo attenzione a rispettare alcuni criteri legati all’omogeneità delle proporzioni dimensionali.  In questo caso abbiamo anche fatto delle prove in cui i calchi dentali di Busco, montati su un articolatore in grado di simulare apertura-chiusura della bocca morsicavano un calco in cera anatomica di un seno dimensionalmente simile a quello di Simonetta. Questo sia per accertarne la ripetibilità e l’unicità. 
Con l’Ing. Boscolo abbiamo anche fatto una scansione 3D delle arcate, inserendole in manichini virtuali in grado di simulare movimenti articolari e muscolari, per dimostrare che le posture reciproche di testa e corpo di morsicatore e vittima fossero compatibili con la lesione. 
E’ chiaro che questa è un’estrema sintesi, cercando di semplificare al massimo anche per i non addetti ai lavori, solo per dare un’idea. Ci sarebbe molto altro da dire. 
 
– Come ha reagito la difesa di Busco alle analisi da lei effettuate?
Il consulente stesso della difesa, odontologo forense anch’esso, disse nella sua relazione, precedente alla mia, che si trattava di un morso umano, ovviamente dichiarando che non ci fossero elementi in grado di attribuire la paternità della lesione ai denti di Busco. Però nella relazione non vengono nemmeno citati elementi che escludano tale possibilità (cosa che in alcuni casi è possibile accertare).

– Che opinione ha in merito al lavoro svolto dal Medico Legale, il Professor Corrado Cipolla D’Abruzzo? Nello specifico, quale è stato il suo lavoro? 
Ovviamente mi riferisco solo alla parte inerente al morso, il resto non è di mia competenza. Non è stata compiuta alcuna analisi sul morso. E’ stata citata una biografia non attinente perché parlava di denti da latte o denti del giudizio. Non è stato fatto alcun confronto fra denti e lesione e la valutazione del fatto che si trattasse di un morso o meno è stata totalmente empirica.  Ma soprattutto, più in generale, il medico legale non è un odontologo forense, a meno che possa dimostrare una vasta esperienza in questa materia nel rispetto dei metodi di analisi, passati e presenti, riconosciuti a livello internazionale.  Evenienza piuttosto rara. Poi oggi è fondamentale lavorare in team multidisciplinari, proprio per la vastità e la specificità di determinati settori delle scienze forensi. Stessa cosa vale, in generale, per l’antropologia forense per l’analisi di resti scheletrici. Sono materie a parte che necessitano di approfondimenti ed esperienze specifiche.  In Italia, talvolta, si fa ancora difficoltà a riconoscere determinate specializzazioni.  Al contrario, all’estero è cosa ovvia, non c’è nemmeno bisogno di puntualizzarlo.

–  Il Professor Cipolla D’Abruzzo ha scritto nella sua perizia che la ferita presente sul capezzolo di Simonetta poteva essere stata prodotta da un’unghia o da un’arma da taglio. Che opinione ha tratto in merito a tale ipotesi? Cosa vede a favore e cosa contro questa ipotesi?
Le unghiature in medicina legale sono ben note e quella lesione non ne ha le caratteristiche.  Ma il suo intento credo fosse quello di dire che non si può determinare che si tratti di una o dell’altra cosa. Ricordo che, con tono ironico, disse in aula qualcosa del tipo “può essere il morso di un criceto”. Io credo di aver ampiamento dimostrato e motivato che quella lesione è riconducibile ad un morso, un morso umano. Elemento su cui era concorde anche la Difesa. Da lì in poi andiamo a discutere su chi possa averla prodotta.
Sia io, sia il consulente della difesa siamo Odontologi Forensi, con esperienza specifica, a differenza di un medico legale.
E’ chiaro che negare la presenza di un morso permette in modo agevole di mettere anche in discussione una traccia di DNA localizzata su indumenti, proprio in corrispondenza di quel capezzolo.

– E’ matematicamente possibile che quel segno sul capezzolo fosse stato prodotto da un graffio o da una lama e non da un morso?
Agli atti c’è la mia consulenza, e l’Avv. Mondani aveva anche mostrato in aula un video molto esplicativo. Non è un’unghiatura, c’è stata una compressione compatibile con la chiusura dei denti sul capezzolo della vittima ed è significativamente diversa dalle coltellate inferte. La probabilità che un oggetto qualsiasi riproduca quella lesione con quelle caratteristiche tende allo zero.  

– Sempre il Professor Cipolla D’Abruzzo, ha detto che se il segno fosse stato prodotto da un morso non sarebbe possibile identificare l’autore. Che parere ha tratto a riguardo?
I denti di ciascuno di noi sono unici, per questo hanno valore identificativo come le impronte digitali. Non sempre però la cute registra in modo sufficiente queste particolarità. A mio avviso, in questo caso, c’erano sufficienti elementi per dire che ci sono delle compatibilità con alcune caratteristiche molto peculiari dei denti dell’imputato. Dentatura che non è significativamente cambiata nel tempo, come ho dimostrato comparandola con i denti frontali estrapolati dai fotogrammi di un’intervista a Busco, dell’epoca.  
Però un processo si deve basare non solo su un elemento, come può essere il morso, ma su un insieme di elementi.  Compito del consulente è rispondere ad un quesito specifico, dai connotati tecnici. Non è assolutamente quello di dire “colpevole” o “innocente”. Quello è compito unico ed insindacabile del Giudice che, valutando tutti gli elementi – non solo il bitemark – riterrà di esprimere un dato giudizio ‘oltre ogni ragionevole dubbio’.
Talvolta la verità processuale può non coincidere con la Verità in senso assoluto, spesso accessibile più al Divino che all’Uomo, ma deve tener conto degli elementi nel loro insieme. Talvolta questi elementi vengono ritenuti sufficienti per esprimere un giudizio in una direzione, altre volte in un’altra.

– In aula avete potuto presentare il vostro lavoro?
Non ho avuto la possibilità di discutere personalmente in dibattimento il lavoro. Solo attraverso gli avvocati è stato possibile citare alcuni elementi.  Ma è ovvio che ciò ha dei limiti.
 
– Ritiene che i Giudici d’Appello abbiano tenuto nella giusta considerazione il suo lavoro?
Hanno fatto quello che ritenevano opportuno.  Le udienze si sono susseguite una dietro, l’altra in uno stretto giro di tempo, il tempo a loro disposizione è stato molto poco.
 
– Pensa che si possa fare ancora qualcosa per arrivare alla verità sulla misteriosa morte di Simonetta Cesaroni?
Lo chieda agli avvocati. Io mi occupo di quesiti tecnici a cui rispondo in scienza e coscienza. Forse se un giorno sarà presente una nuova metodologia di analisi dei diversi reperti, il caso potrà essere riaperto e quindi anche il discorso del morso potrà essere ripreso in esame. Ora come ora il caso mi risulta chiuso.
Spero davvero che le parti toccate sul vivo da tutta questa vicenda possano trovare in un modo o nell’altro un po’ di serenità. I famigliari di Simonetta, così come i famigliari di Busco che, a prescindere dalla Verità assoluta, non hanno sicuramente colpe. 
 
– La ringrazio per avermi concesso quest’intervista
Grazie a lei.

LEGGI ANCHE:

28/06/2016 SIMONETTA CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA, PARTE 1

07/07/2016 CASO CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA – PARTE 2

11/07/2016 SIMONETTA CESARONI: "ORE CONTATE PER L'ASSASSINO DI VIA POMA" – PARTE 3

 



SIMONETTA CESARONI: IL SILENZIO DI VIA POMA, PARTE 1

di Angelo Barraco
 
Roma – Il 7 agosto del 1990, in Via Carlo Poma n°2 a Roma, si consuma quello è considerato uno dei delitti più misteriosi nonché irrisolti della cronaca nera nazionale, l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Giovane, bella e con tanta voglia di vivere, che per non pesare sulla famiglia aveva trovato un lavoro -1 luglio 1990 – come segretaria contabile presso gli uffici dell’A.I.A.G (Associazione Italiana Alberghi della Gioventù). Simonetta Cesaroni viene rinvenuta cadavere il 7 agosto 1990 alle ore 23.30, nell’appartamento dell’ufficio dove svolgeva il suo lavoro, in Via Poma n.2. Il suo corpo era supino, gambe e braccia divaricate, era vestita, il suo reggiseno era abbassato sui capezzoli, indossava calzini bianchi, aveva inoltre un corpetto che poggiava sul suo ventre.
 
Sul suo corpo si sono contate ben 29 coltellate. Il cadavere fu ritrovato da Paola Cesaroni, dal suo ragazzo Antonello Barone, da Salvatore Volponi, datore di lavoro di Simonetta, che fu il primo ad entrare all’interno della stanza,dal figlio di quest'ultimo Luca,Giuseppa De Luca, portiera dello stabile e Mario Vanacore.

Le indagini Sin da subito le indagini si concentrano sull’attività lavorativa di Simonetta ed emerge che dall’ottobre del 1989 aveva lavorato come segretaria contabile alla Reli sas. Volponi aveva proposto alla giovane di lavorare per l’AIAG nel 1990, per due pomeriggi a settimana, il martedì e il giovedì. Gli uffici dell’A.I.A.G. si trovavano in Via Poma n.2, Scala B, terzo piano, interno 7. Quel pomeriggio Simonetta si reca in ufficio per sbrigare alcune pratiche prima delle ferie estive intorno alle 15.45, l’ultimo segnale oggettivo di vita della giovane è rintracciabile alle ore 17.15/17.35, quando chiama una collega dell’A.I.A.G. La giovane disse a Volponi che non era sufficiente che lui si si recasse in ufficio quel giorno, ma erano rimasti che Simonetta l’avrebbe chiamato alle 18.00/18/30, ma quella telefonata non venne mai fatta. La giovane era attesa a casa per le ore 20.00, ma nessuno dei suoi familiari ebbe sue notizie. La sorella e il fidanzato decidono allora di mobilitarsi nelle ricerche –erano le 21.30- provano a chiamare Volponi ma non riescono a rintracciarlo. Si recano allora a casa di Volponi e chiedono i numero degli uffici dell’AIAG, ma lui non aveva il numero e non sapeva l’esatta collocazione della sede. Dopo diverse ricerche riescono a trovare l’indirizzo e lo raggiungono. Si fanno aprire la porta dalla moglie di Vanacore, che non si mostra ben disposta nell’aprire. Sin da subito risulta strano che quella porta era stata chiusa con quattro mandate.

Un caso ancora da risolvere Da quel momento ha inizio una delle vicende giudiziarie più complesse ed intrigate della storia italiana, che ha visto sfilare nelle aule di Tribunale numerosi protagonisti, accusati di essere di essere colpevoli e poi assolti. Tanti i dubbi, tanti i misteri ma ancora, a distanza di tanti anni, l’assassino di Simonetta Cesaroni non ha un volto e un nome. Un punto cardine su cui si è mosso tutto il processo è stato il morso sul seno sinistro che presentava una forma a goccia, precisamente nel capezzolo. Bisogna partire dal presupposto che la dentatura di ogni essere umano presenta delle caratteristiche uniche e tale unicità è da rapportare anche alla morsicatura. Un esempio storico riguarda l’arresto del Serial Killer Ted Bundy, individuato grazie all’analisi di una lesione su un seno che poi, analizzata da un Odontologo Forense, ha portato alla sua identificazione.  Noi de L’Osservatore D’Italia continueremo a parlare del caso di Simonetta Cesaroni, faremo approfondimenti ulteriori, alla luce di quella che è la verità processuale e cercheremo di portare alla luce quella che è una verità giornalistica con il fine ultimo di far luce su questa torbida vicenda che ha macchiato per sempre il volto della Capitale, avvolgendola da una fitta cortina di mistero. 



SIMONETTA CESARONI: IL MISTERO DI VIA POMA LUNGO 25 ANNI

di Angelo Barraco
 
Roma – Il 7 agosto 1990, esattamente 25 anni fa, si consumava a Roma uno dei più efferati delitti avvenuti in Italia e tutt’ora avvolto nel più assoluto mistero; il delitto di Via Poma. Simonetta Cesaroni è una ragazza di 21 anni che lavora come segretaria presso l’A.I.A.G. in via Poma 2, quartiere Prati. Quel giorno Simonetta si reca a lavoro prima delle 15.30. Il portiere infatti dice agli inquirenti di non averla vista entrare poiché Vanacore iniziava il suo lavoro a quell’ora. Da qui inizia il mistero, i dati certi che si hanno provengono da ciò che fa e stabiliscono approssimativamente fino a che ora Simonetta è rimasta in vita. Alle 17.15 telefona ad una collega di d’ufficio per sapere alcuni dati, alle 17.25 la collega richiama Simonetta e le comunica i dati. Alle 18.30 Simonetta avrebbe dovuto chiamare il suo datore di lavoro, Volponi, ma non lo fa. Passano le ore e la famiglia si allarma, la sorella Paola con il fidanzato Antonello vanno da Volponi e quest’ultimo dice di non sapere dove si trovano gli uffici. Volponi scende allora con il figlio e insieme a Paola ed Antonello si mettono alla ricerca dell’ufficio e riescono a trovarlo. Il cancello è chiuso, suonano ma nessuno apre, allora il figlio di Volponi scavalca il muro ed entra per aprire il cancello. Si dirigono allora tutti verso la portineria dove ad accogliere loro c’è la moglie di Vanacore che si mette sulla difensiva e dice di non avere le chiavi. Dopo essere saliti al terzo piano la signora tira fuori le chiavi e apre la porta. Il primo ad entrare è Volponi e gli altri a seguito, Volponi ispeziona le due stanze illuminate ma non vede nulla, poi si dirige al buio in fondo nella stanza del direttore dell’A.I.A.G. e fa la macabra scoperta. 
 
SCENA DEL DELITTO: 
Il corpo si presenta in posizione supina, il reggiseno abbassato sul torace, presenta 29 coltellate inferte, secondo analisi, da un tagliacarte, poiché il tagliacarte ha un corpo largo e la punta stretta e le ferite corrispondevano esattamente a questo tipo di arma. Il corpo presenta moltissime ferite concentrate sul viso, addome, torace, pube e anche una tumefazione nella parte destra del volto di Simonetta, il colpo che l’avrebbe stordita. All’interno delle ferite non sono state trovate tracce di tessuto ergo è stata colpita da nuda. Simonetta ha perso molto sangue, circa 3 litri, ma nella scena del crimine non vi è traccia poiché tutto si presenta pulito, eccetto le macchie di sangue trovate sulla porta e sui telefoni. La finestra della stanza dove è stato rinvenuto il corpo di Simonetta ha le tapparelle abbassate, nella sua borsa mancano i suoi gioielli, le chiavi, segno che l’assassino aveva intenzione di ritornare presso quel luogo e i vestiti, nella sua borsa sono state trovate anche delle polaroid non sviluppate. Nel pianerottolo dell’appartamento sono stati trovati segni di ripulitura, come vi è stata ripulitura anche all’interno dell’appartamento da parte dell’assassino.

BREVE SINTESI DEGLI ACCUSATI E DELLE MOTIVAZIONI
L’indagine ha inizio con la verifica di chi c’era nella palazzina in quelle ore, e da quella verifica vengono individuate sette persone: Vanacore, la moglie, i loro figli e l’ingegner Cesare Valle. Vanacore, interrogato, dice di non aver visto e sentito nulla poiché si trovava a casa dell’ingegner Valle in quelle ore (faceva assistenza ad esso) e di non aver visto nessun estraneo entrare ed uscire, Vanacore però fa confusione, si contraddice, cade nel dubbio e dopo tre giorni dall’omicidio viene arrestato con l’accusa di essere l’assassino di Simonetta Cesaroni. Gli elementi a suo carico sono: Le sue dichiarazioni confuse ed incerte, il fatto che avesse le chiavi di tutti gli appartamenti e, poiché nell’appartamento non vi era segno di effrazione, soltanto chi era in possesso delle chiavi poteva essere entrato ed uscito, Vanacore puliva spesso gli appartamenti dello stabile e visto che il pavimento del pianerottolo tre aveva chiari segni di ripulitura, come d’altronde l’appartamento dove è stato rinvenuto il corpo, ciò ha fatto presupporre logicamente che l’azione di Vanacore, poiché ordinaria, non fosse vista come un’azione sospetta. Non riusciva a fornire un alibi concreto, in più c’era un altro elemento a suo carico: delle macchie di sangue sui suoi pantaloni. A questo si aggiunge anche l’atteggiamento ostile che assume la moglie di Vanacore. In seguito vengono svolte indagini sulla vita di Vanacore e salta fuori che aveva avuto rapporti extraconiugali e da testimonianze ed intercettazioni salta fuori che la figlia era andata via di casa perché lui esercitava su di lei “attenzioni particolari”. Il 30 agosto 1990 Pietrino Vanacore viene scarcerato per mancanza di indizi a suo carico. Nel 2008 sono state effettuate indagini presso la casa di Monacizzo, dove l’uomo risiedeva con la moglie, tali rilievi non hanno portato a nulla e nel maggio 2009 la procura di Roma ha deciso di archiviare l'indagine. Il 9 marzo 2010 Pietrino Vanacore si suicida. Il portiere decide di levarsi la vita a distanza di poco tempo dalle scadenze processuali e dalla deposizione che avrebbe dovuto fare in tribunale. Dopo Vanacore viene indagato Federico Valle, nipote dell’ingegner Cesare Valle. Roland Voller, un austriaco intrattiene, per un errore dovuto al suo apparecchio telefonico, un rapporto telefonico con una donna, questa donna è la madre di Federico Valle. Il 7 agosto 1990 alle 16.30 Voller e la signora si parlano al telefono e lei mostra forti preoccupazioni per i comportamenti del figlio, poiché è andato in Via Poma a trovare il nonno Cesare Valle, ma non torna. La sera stessa i due si parlano, lei è preoccupata perché Federico è tornato a casa sporco di sangue e presenta un taglio sulla mano. Federico Valle viene accusato di omicidio perché, secondo l’accusa, ingelosito per una possibile relazione del padre con una segretaria, sia andato in escandescenza e l’abbia uccisa per tali ragioni. A tal proposito ritorna sulla scena delle accuse Vanacore che viene imputato per complicità poiché viene accusato di aver aiutato il giovane ad aver ripulito la scena. La Signora, madre di Federico Valle nega di conoscere quest’uomo, il padre di Federico nega di aver mai conosciuto Simonetta Cesaroni e gli esami comparativi del sangue di Federico rispetto la macchia di sangue sulla porta danno esito negativo. Federico Valle viene scagionato e prosciolto da ogni accusa nel giugno 1993. Roland Voller si rivelerà un truffatore e le informazioni che darà su Via Poma si riveleranno false. Dopo Valle: nel 2005 viene prelevato il DNA a 30 persone e comparato con indumenti di Simonetta adoperando le nuove tecnologie. Nel 2007, 29 sospettati vengono scartati e i sospetti cadono su Raniero Busco (all’epoca fidanzato di Simonetta), perché il suo DNA combacia con le tracce di saliva trovata sul corpetto di Simonetta. Durante il processo di primo grado Raniero viene condannato a 24 anni di reclusione e al pagamento delle spese processuali e del risarcimento, in separata sede, delle parti civili. Sentenza di secondo grado: Raniero Busco viene assolto dall'accusa con formula piena. Il 26 febbraio 2014 la Cassazione ha confermato l'assoluzione – che diventa definitiva – per Raniero Busco dall'accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni. Quello al seno, che veniva considerato un morso ed era stato attribuito a Raniero, durante le indagini e le perizie, è stato smentito ed è stato appurato che in realtà era un taglio e non vi erano segni alcuni di arcata dentaria.
 
LE PISTE ALTERNATIVE:
Ex fidanzato: Durante le indagini ci sono stati dei punti che sono stati omessi, o meglio dei dettagli. Analizzando bene la scena del delitto è possibile notare che nella borsa di Simonetta vi erano contenuti dei rullini-polaroid. Quei rullini risalivano all’estate 1988, ovvero un’estate in cui Simonetta non era fidanzata con Raniero ma bensì con un tale Alessandro. Che motivo avrebbe avuto Simonetta per portar dietro quei rullini? Non ha nessun senso poiché nessuno porta con se vecchi rullini o vecchio materiale se non per darlo al diretto interessato, soprattutto se legato ad una sfera sentimentale. Il sospetto è che Simonetta avesse con se quei rullini perché quel giorno avrebbe dovuto incontrarsi con l’ex fidanzato, Alessandro, probabilmente per restituirli a lui. E se Alessandro fosse stato rifiutato e avesse perso la testa?  L’ipotesi appena formulata, ripeto l’ipotesi, mostra chiaramente tanti punti fondamentali:
1: Simonetta ha aperto la porta a qualcuno che conosceva bene
2: Non aveva motivo alcuno di portare dietro quei rullini se non per darli alla persona a cui interessavano, Alessandro appunto, che aveva scattato quelle foto
3: Il corpo è stato aggredito secondo una dinamica confidenziale poiché non c’era disordine all’interno delle stanze e non vi era nulla fuori posto ergo Simonetta conosceva quella persona e non si aspettava quel gesto
4: Il modo in cui è stata denudata è un modo estremamente confidenziale, intimo, di qualcuno che quel gesto lo aveva già fatto e non di certo opera di qualcuno che uccide per rapinare o per violentare, infatti non è stata violentata
5: Simonetta è stata accoltellata per la maggiore al pube e agli occhi, come un gesto di sfregio alla sua sessualità e alla sua vista, come se qualcuno gli avesse voluto far pagare a lei la sessualità che lei ha negato all’altra persona e per quanto riguarda gli occhi, per non fargli vedere più nulla
 
Ipotesi fotografo: è risaputo che Simonetta, qualche giorno prima della scomparsa, fu vista in un noto ristorante in zona Castelli Romani in compagnia di un fotografo: fu mai verificata questa pista? Fu mai interrogato il titolare del ristorante? Fu mai cercato il fotografo?
 
Ipotesi dipendente AIAG: Il profilo di Dna trovato nella scena del crimine non corrisponde a nessuno degli indagati, nemmeno all’indagato per “eccellenza”, Vanacore. Quel Dna sembrerebbe però corrispondere però ad un dipendente dell’AIAG; è stata verificata la sua posizione? È stato interrogato? La morte di Simonetta Cesaroni, a distanza di 25 anni, è tutt’ora avvolta nel mistero e a tale mistero si è aggiunto anche il suicidio di Vanacore a pochi giorni dall’interrogatorio. Troppi misteri avvolgono questo caso, troppe domande, ma poche risposte. Dove si nasconde la verità sulla morte di Simonetta Cesaroni?