Simonetta Cesaroni: Il silenzio di Via Poma e quel "morso" al seno, ecco l'intervista inedita – PARTE 4

di Angelo Barraco
 
Roma – “È un errore confondere ciò che è strano con ciò che è misterioso”, scrisse il famoso scrittore scozzere Arthur Conan Doyle. Ma se tale affermazione si contestualizzasse all’interno di uno scenario delittuoso come Via Carlo Poma n°2, dove in data 7 agosto del 1990 fu brutalmente uccisa la giovane e bella Simonetta Cesaroni, risulterebbe errata poiché il delitto presenta  un numero considerevole di zone d’ombra che lo rendono “strano” e “misterioso”. Un corpo martoriato da 29 coltellate, un paio di scarpe riposte perfettamente in ordine e una porta chiusa con quattro mandate. Questa è la scena che si è presentata sotto gli occhi di Paola Cesaroni, il suo fidanzato Antonello Barone, il datore di lavoro di Simonetta Salvatore Volponi –che fu il primo ad entrare nella stanza- e suo figlio Luca, la portiera dello stabile Giuseppa De Luca e il figliastro Mario Vanacore. Abbiamo ripercorso le prime due piste investigative che hanno rappresentato il punto di partenza di una storia che ad oggi è pervasa da ombre e foschia, ben lontana dalla luce. La tragica fine di Simonetta Cesaroni è ad oggi senza colpevole.  L’assassino  ha gettato nebbia e mistero dietro quelle quattro mandate, dove tutto è rimasto statico come in un religioso silenzio, che sembra dilatarsi negli anni e assopirsi sempre di più. Il corpo di Simonetta è stato rinvenuto supino, con la testa riversa e con braccia e gambe divaricate; la giovane indossava soltanto il reggiseno abbassato sui capezzoli e i calzini bianchi, inoltre sul suo ventre vi era poggiato il corpetto che era solita indossare. Un elemento che ha destato curiosità e stranezza è la posizione delle scarpe da tennis, che si trovavano riposte in un angolo della stanza e perfettamente allineate. L’arma del delitto non fu mai rinvenuta, non furono mai trovate che chiavi dell’appartamento e si presume che il killer abbia usato proprio quelle per chiudere la porta e andar via, inoltre mancavano alcuni effetti personali della giovane e i vestiti. 
 
Dopo aver analizzato in dettaglio il coinvolgimento di Pietrino Vanacore e Federico Valle, adesso analizziamo la figura di Raniero Busco e il suo rapporto con Simonetta. Ricordiamo inoltre che Busco è stato condannato nel processo di primo grado -26 gennaio 2011- a 24 anni di reclusione, il 27 aprile 2012 si celebra il processo d’Appello e viene assolto per non aver commesso il fatto, il 26 febbraio del 2014 viene fissato il processo di legittimità a seguito di un ricorso in Cassazione della Procura e Busco viene assolto.  La storia d’amore tra Simonetta e Raniero ebbe inizio nell’ottobre del 1988, quando la giovane pone fine ad una precedente storia d’amore durata quattro anni, che per lei era diventata quasi un’abitudine e si era stancata. La relazione con l’altra persona finisce, ma rimangono comunque buoni amici. Simonetta racconta alle amiche, attraverso delle lettere che abitualmente spedisce, la sua vita, i suoi amori, le sue perplessità. Scrive tanto alle amiche che vivono altrove e ci tiene molto a mantenere vivi i rapporti ma  scrive anche a se stessa, ponendosi domande e interrogativi in merito a quanto le succede. Nel maggio del 1989 Simonetta e Raniero non stanno più insieme e la giovane, malgrado non stia più con Busco, lo pensa ancora. Simonetta cerca di dimenticarlo, provando anche ad uscire con altri ragazzi ma non lo fa poiché non vuole prendere in giro nessuno. In una lettera di sfogo  scrive “Dovrei odiarlo, disprezzarlo, ma non ci riesco, dico a me stessa e agli altri, che anche se tornasse non mi rimetterei mai con lui, per ciò che ha fatto e per quello che è diventato, ma no so, è facile dirlo a parole, ma nella realtà è diverso, e anche molto”. Simonetta prova ed esterna i suoi sentimenti a Raniero ma non riceve esattamente quanto dato ed esterna il suoi dubbi su carta, tergiversando le  speranze di una possibile riconciliazione a seguito di momenti passati insieme che hanno fatto ben sperare. Il 24 novembre del 1989, un mese esatto dalla ripresa della loro storia e 8 mesi prima del delitto, Simonetta scrive una lettera in cui esprime tutta la sua rabbia e il suo dolore poiché si sente tradita “Ciao, sei solo un lurido verme schifoso, ma non credevo che saresti arrivato a tanto. Ho tanta rabbia in me, vorrei gridartela in faccia, ma mi rendo conto che sarebbe fiato sprecato, tu no mi ascolti mai, sei troppo impegnato ad organizzarti le serata, una con me, un'altra con lei. Ma non ti viene la nausea a guardarti allo specchio? Quello che hai fatto, non te lo perdonerò mai, sei sceso troppo in basso. Un essere come te merita solo disprezzo,.mi hai tratta come…..Non so quanto tempo mi ci vorrà per recuperare tutto questo, ma ce la farò”. Dalle lettere che Simonetta scrive, emerge una persona che prova solitudine, che si sente presa in giro dal compagno con cui ha condiviso sentimenti che non hanno trovato la bivalenza tanto sperata, emerge una ragazza che non può vivere quella relazione poiché non in linea con il suo punto di vista ma allo stesso tempo non riesce a contrastare i suoi sentimenti. 
 
La sentenza pronunciata in data 27/04/2012 in Corte di Assise di Appello di Roma condanna Raniero Busco a 24 anni di reclusione e al risarcimento danni. Ma quali sono stati gli elementi che hanno portato a tale esito processuale? Un elemento che la Corte di primo grado aveva tenuto in considerazione riguardava il dna di Busco che si trovava sul reggiseno e sul corpetto di Simonetta e si concentrava nell’area del seno sinistro, tale elemento fu collegato al morso sul capezzolo sinistro che, secondo la Corte di primo grado, è stato inferto durante il delitto. La ricostruzione del delitto fatta dalla Corte d’Assise è la seguente: La giovane avrebbe aperto la porta dell’ufficio di via Poma al suo fidanzato ed era certa che non sarebbe giunto nessuno, i due si erano predisposti per un rapporto sessuale e la giovane si era tolta i vestiti ma ad un certo punto subentrano le tensioni tra i due e Simonetta si rifiuta di proseguire, Busco dapprima avrebbe morso la giovane sul seno e poi l’avrebbe uccisa. Secondo la Corte di primo grado ciò spiegherebbe le tracce di DNA di Busco e l’attribuzione del morso a Busco stesso sulla base di specifiche consulenze. Inoltre la Corte di primo grado aveva riferito che vi era l’attribuzione del morso sul capezzolo sinistro a seguito di consulenze tecniche, era stato realizzato un calco. La Corte inoltre aveva sottolineato il fallimento dell’alibi di Busco, che aveva cercato di indurre altri soggetti a confermarlo cercando di farlo coincidere con l’orario della morte di Simonetta. Secondo i giudici della Corte di primo grado il movente era legato al rapporto unidirezionale della coppia; da un lato vi era Simonetta che amava Raniero e voleva un rapporto stabile, malgrado il trattamento che riceveva e che non la rendeva felice e appagata; dall’altro lato c’era Raniero che invece cercava solo rapporti fisici. Secondo la Corte, i due si erano incontrati sul posto di lavoro e tra i due si stava per consumare un rapporto sessuale ma sarebbe scaturito un alterco che avrebbe portato Busco ad un raptus. 
 
Gli elementi che la Corte territoriale valuta e che porteranno all’assoluzione di Raniero Busco sono diversi. In primo luogo si era discusso il morso sul seno di Simonetta poiché venivano evidenziale le consulenze eseguite svolte in precedenza. Vengono messi da parte elementi come l’orario della morte, le cause e l’elemento che ha posto fine alla vita di Simonetta Cesaroni. In merito al “morso” vi è una conclusione differente rispetto a quelle esposta in primo grado e la Corte, analizzando i risultati della perizia e delle consulenze, sottolinea che non era stato fatto nessun approfondimento all’epoca. Le consulenze tecniche sono state svolte mediante l’ausilio di foto dell’epoca e con degli esperimento. Viene subito evidenziato un elemento che prima d’ora non era mai stato considerato, ovvero che il Prof. Prada, colui che aveva visto ed esaminato il corpo della povera Simonetta non aveva mai affermato con certezza che quei segni fossero riconducibili ad un morso. Inoltre si è evidenziata l’assenza del tampone per il prelievo di saliva che avrebbe sicuramente portato all’individuazione di un profilo. La metodologia della perizia e l’analisi delle foto che lasciano spazio ad interpretazione, poiché non vi è la possibilità oggettiva di verificare dal vero, hanno fatto annullato la valenza di questo elemento e si è creata molta confusione a riguardo e molti ulteriori interrogativi: Morso o graffio? 
 
Noi de L’Osservatore D’Italia abbiamo voluto approfondire la questione del “morso” al seno di Simonetta Cesaroni e nel dicembre del 2015 abbiamo intervistato in esclusiva la Dottoressa Milani, che ha lavorato sul caso dal dicembre 2011 all’aprile 2012 come Consulente Odontoiatra forense della Parte Civile-famiglia Cesaroni. 
 
– Quando ha avuto inizio il suo lavoro sul caso di Simonetta Cesaroni?
Ha avuto inizio quando mi contattò l’Ingegnere Fabio Boscolo. Mi disse che stava lavorando su quel caso: aveva delle fotografie da analizzare e, in quanto ingegnere forense  la gestione e l’analisi delle immagini era sicuramente uno dei suoi ambiti, ma poiché alcune foto ritraevano una lesione potenzialmente riconducibile ad un morso aveva necessità di uno specialista in odontologia forense e, nella fattispecie, nei cosiddetti ‘bitemarks’. 
 
– Sappiamo che lei è stata Consulente Odontoiatra forense della Parte Civile della famiglia Cesaroni. Quali sono state le impressioni sulla vicenda che ha avuto nel momento in cui ha assunto l’incarico?
All’inizio conoscevo il caso solo dai giornali, dai media che per anni ne avevano parlato. E i media non raccontano tutto e – si sa – non sempre raccontano le cose in modo davvero neutrale e oggettivo. Quindi, quando ebbi accesso al materiale, mi resi conto di ‘Quanto’ altro c’era da sapere e da dire: quante foto, quanti documenti!
 
– In cosa consisteva il suo incarico?
Consisteva, in collaborazione con l’ing. Boscolo, nel cercare di definire l’origine di quella lesione, ossia se si trattasse davvero di un’impronta di morsicatura (bitemark) e se fosse o meno riconducibile alla dentatura dell’allora imputato Raniero Busco, fidanzato di Simonetta all’epoca dei fatti. 

– L’autopsia sul corpo di Simonetta nel 1990 accertò che sul seno sinistro di Simonetta Cesaroni vi era un morso. Ma come si arriva ad accertare che quella lesione sul seno della giovane fosse un morso?
L’autopsia aveva rilevato una lesione che poteva denunciare “in termini deterministici l’azione di un morso”. Tenete presente che nel 1990 in Italia non si sapeva cosa fossero i Bitemarks, intesi come lesione con valore probatorio nelle aule di giustizia. I Bitemarks, in tal senso, sono nati negli anni ’70  negli Stati Uniti a causa del Serial Killer Ted Bundy la cui dentatura fu analizzata da un odontologo forense e dichiarata compatibile con la lesione prodotta sul corpo di una delle vittima. Solo in un momento successivo, Bundy confessò quello e altri omicidi, consacrando la validità dell’analisi dei bitemarks. Da lì successivi studi e criteri di analisi si sono susseguiti. In Italia, all’epoca dell’omicidio di Via Poma non esisteva nemmeno la figura dell’Odontologo Forense. 
Le lesioni da morsicatura presentano le cosiddette ‘caratteristiche di classe’ che permettono di identificarlo come morso umano. E che fosse tale concordavamo sia io, sia l’odontologo forense consulente della difesa. Così come l’odontoiatra clinico che lavoro in primo grado per il pubblico ministero.
 
– Chi è l’ Odontologia Forense? 
Diciamo che l’odontologo forense sta all’odontoiatra come il medico legale sta al medico di base.
Più nel dettaglio, l’Odontologo Forense è un esperto negli ambiti di identificazione personale (si sa che l’identificazione dentale, data l’unicità di tali distretti, è una dei tre metodi ufficialmente riconosciuti dall’Interpol assieme alle impronte digitali e al DNA); è un esperto di lesioni prodotte su denti e mascellari e di lesioni causate da denti come nel caso dei bitemarks. Qui si inserisce anche tutto un discorso inerente ai maltrattamenti e abusi sui minori. 
Poi vi è la stima dell’età anche sul vivente, per valutare il compimento delle soglie critiche dei 14-16-18 anni, tema quanto mai attuale.
La particolare branca dell’odontoiatria legale si occupa invece di responsabilità professionale nel settore odontoiatrico. 
L’odontologo forense nasce come Medico Odontoiatra, ma per poter essere definito  tale deve aver completato un percorso formativo fondamentale (incentrato in modo specifico sul contesto Forense vero e proprio: studi di giurisprudenza, medicina legale, tecnica di sopralluogo, ecc. ) che lo porta ad essere una figura molto diversa dall’odontoiatra clinico, il dentista. Molta di questa formazione la si deve necessariamente compiere all’estero. Se l’odontologo forense è un odontoiatra non è vero, quindi, il contrario: l’odontoiatra (dentista) non è un odontologo forense.  
 
– Nel caso di Via Poma è stata inoltre comparata l’arcata dentaria di Raniero Brusco con il morso sul seno di Simonetta ed è stata riscontrata una compatibilità. Quali sono gli elementi tecnici che stabiliscono la compatibilità? Come avviene la comparazione e secondo quale processo?
Ci vorrebbe una risposta lunga come un trattato di Bitemarks Analysis. Fermo restando che sono già state appurate le caratteristiche di classe, a questo punto, come prima cosa bisogna disporre delle arcate dentarie dell’ipotetico morsicatore per poter valutare o escludere la compatibilità con la lesione prodotta. Molto spesso i bitemarks sono delle grosse ecchimosi, ciò non li rende sicuramente facili da analizzare. In altri casi sono più penetranti sulla cute tanto da lasciare, in alcuni punti, delle figure abbastanza nette, impresse quasi a stampino e suggestive dello strumento che le ha prodotte. In altri casi ancora, si può trattare di azioni talmente violente da strappare lacerando in modo indecifrabile la cute, a volte staccandone proprio dei brandelli.  Qui siamo nel secondo caso in cui, in alcuni punti, se guardiamo con attenzione notiamo dei margini e delle forme ben precise, che quindi si prestano bene ad una comparazione con lo strumento che le ha prodotte: i denti.
Ai tempi di Ted Bundy tali analisi venivano fatte confrontando le fotografie della lesione con le impronte dei denti dell’imputato.  Questo capita ancora oggi quando non vi sia più la possibilità di accedere alla lesione sul corpo (come nel caso di Simonetta). E’ un po’ più complicato ed è auspicabile un lavoro di squadra con chi sia in grado di gestire strumenti tecnologici e digitali ad alto livello (come ha fatto l’Ingegner Boscolo con la sua grande esperienza nel settore), ma ciò non vuol dire che non si possa procedere lo stesso. 
Se invece il caso è recente, attuale, si procede proprio ad acquisire un’impronta anche della lesione.
Dopodichè, si sovrappongono, facendo attenzione a rispettare alcuni criteri legati all’omogeneità delle proporzioni dimensionali.  In questo caso abbiamo anche fatto delle prove in cui i calchi dentali di Busco, montati su un articolatore in grado di simulare apertura-chiusura della bocca morsicavano un calco in cera anatomica di un seno dimensionalmente simile a quello di Simonetta. Questo sia per accertarne la ripetibilità e l’unicità. 
Con l’Ing. Boscolo abbiamo anche fatto una scansione 3D delle arcate, inserendole in manichini virtuali in grado di simulare movimenti articolari e muscolari, per dimostrare che le posture reciproche di testa e corpo di morsicatore e vittima fossero compatibili con la lesione. 
E’ chiaro che questa è un’estrema sintesi, cercando di semplificare al massimo anche per i non addetti ai lavori, solo per dare un’idea. Ci sarebbe molto altro da dire. 
 
– Come ha reagito la difesa di Busco alle analisi da lei effettuate?
Il consulente stesso della difesa, odontologo forense anch’esso, disse nella sua relazione, precedente alla mia, che si trattava di un morso umano, ovviamente dichiarando che non ci fossero elementi in grado di attribuire la paternità della lesione ai denti di Busco. Però nella relazione non vengono nemmeno citati elementi che escludano tale possibilità (cosa che in alcuni casi è possibile accertare).

– Che opinione ha in merito al lavoro svolto dal Medico Legale, il Professor Corrado Cipolla D’Abruzzo? Nello specifico, quale è stato il suo lavoro? 
Ovviamente mi riferisco solo alla parte inerente al morso, il resto non è di mia competenza. Non è stata compiuta alcuna analisi sul morso. E’ stata citata una biografia non attinente perché parlava di denti da latte o denti del giudizio. Non è stato fatto alcun confronto fra denti e lesione e la valutazione del fatto che si trattasse di un morso o meno è stata totalmente empirica.  Ma soprattutto, più in generale, il medico legale non è un odontologo forense, a meno che possa dimostrare una vasta esperienza in questa materia nel rispetto dei metodi di analisi, passati e presenti, riconosciuti a livello internazionale.  Evenienza piuttosto rara. Poi oggi è fondamentale lavorare in team multidisciplinari, proprio per la vastità e la specificità di determinati settori delle scienze forensi. Stessa cosa vale, in generale, per l’antropologia forense per l’analisi di resti scheletrici. Sono materie a parte che necessitano di approfondimenti ed esperienze specifiche.  In Italia, talvolta, si fa ancora difficoltà a riconoscere determinate specializzazioni.  Al contrario, all’estero è cosa ovvia, non c’è nemmeno bisogno di puntualizzarlo.

–  Il Professor Cipolla D’Abruzzo ha scritto nella sua perizia che la ferita presente sul capezzolo di Simonetta poteva essere stata prodotta da un’unghia o da un’arma da taglio. Che opinione ha tratto in merito a tale ipotesi? Cosa vede a favore e cosa contro questa ipotesi?
Le unghiature in medicina legale sono ben note e quella lesione non ne ha le caratteristiche.  Ma il suo intento credo fosse quello di dire che non si può determinare che si tratti di una o dell’altra cosa. Ricordo che, con tono ironico, disse in aula qualcosa del tipo “può essere il morso di un criceto”. Io credo di aver ampiamento dimostrato e motivato che quella lesione è riconducibile ad un morso, un morso umano. Elemento su cui era concorde anche la Difesa. Da lì in poi andiamo a discutere su chi possa averla prodotta.
Sia io, sia il consulente della difesa siamo Odontologi Forensi, con esperienza specifica, a differenza di un medico legale.
E’ chiaro che negare la presenza di un morso permette in modo agevole di mettere anche in discussione una traccia di DNA localizzata su indumenti, proprio in corrispondenza di quel capezzolo.

– E’ matematicamente possibile che quel segno sul capezzolo fosse stato prodotto da un graffio o da una lama e non da un morso?
Agli atti c’è la mia consulenza, e l’Avv. Mondani aveva anche mostrato in aula un video molto esplicativo. Non è un’unghiatura, c’è stata una compressione compatibile con la chiusura dei denti sul capezzolo della vittima ed è significativamente diversa dalle coltellate inferte. La probabilità che un oggetto qualsiasi riproduca quella lesione con quelle caratteristiche tende allo zero.  

– Sempre il Professor Cipolla D’Abruzzo, ha detto che se il segno fosse stato prodotto da un morso non sarebbe possibile identificare l’autore. Che parere ha tratto a riguardo?
I denti di ciascuno di noi sono unici, per questo hanno valore identificativo come le impronte digitali. Non sempre però la cute registra in modo sufficiente queste particolarità. A mio avviso, in questo caso, c’erano sufficienti elementi per dire che ci sono delle compatibilità con alcune caratteristiche molto peculiari dei denti dell’imputato. Dentatura che non è significativamente cambiata nel tempo, come ho dimostrato comparandola con i denti frontali estrapolati dai fotogrammi di un’intervista a Busco, dell’epoca.  
Però un processo si deve basare non solo su un elemento, come può essere il morso, ma su un insieme di elementi.  Compito del consulente è rispondere ad un quesito specifico, dai connotati tecnici. Non è assolutamente quello di dire “colpevole” o “innocente”. Quello è compito unico ed insindacabile del Giudice che, valutando tutti gli elementi – non solo il bitemark – riterrà di esprimere un dato giudizio ‘oltre ogni ragionevole dubbio’.
Talvolta la verità processuale può non coincidere con la Verità in senso assoluto, spesso accessibile più al Divino che all’Uomo, ma deve tener conto degli elementi nel loro insieme. Talvolta questi elementi vengono ritenuti sufficienti per esprimere un giudizio in una direzione, altre volte in un’altra.

– In aula avete potuto presentare il vostro lavoro?
Non ho avuto la possibilità di discutere personalmente in dibattimento il lavoro. Solo attraverso gli avvocati è stato possibile citare alcuni elementi.  Ma è ovvio che ciò ha dei limiti.
 
– Ritiene che i Giudici d’Appello abbiano tenuto nella giusta considerazione il suo lavoro?
Hanno fatto quello che ritenevano opportuno.  Le udienze si sono susseguite una dietro, l’altra in uno stretto giro di tempo, il tempo a loro disposizione è stato molto poco.
 
– Pensa che si possa fare ancora qualcosa per arrivare alla verità sulla misteriosa morte di Simonetta Cesaroni?
Lo chieda agli avvocati. Io mi occupo di quesiti tecnici a cui rispondo in scienza e coscienza. Forse se un giorno sarà presente una nuova metodologia di analisi dei diversi reperti, il caso potrà essere riaperto e quindi anche il discorso del morso potrà essere ripreso in esame. Ora come ora il caso mi risulta chiuso.
Spero davvero che le parti toccate sul vivo da tutta questa vicenda possano trovare in un modo o nell’altro un po’ di serenità. I famigliari di Simonetta, così come i famigliari di Busco che, a prescindere dalla Verità assoluta, non hanno sicuramente colpe. 
 
– La ringrazio per avermi concesso quest’intervista
Grazie a lei.

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