Basilicata, i Basilischi: l’ombra della ‘ndrangheta sulle ceneri della quinta mafia italiana

Le rocce del Pollino rappresentano un punto d’osservazione perfetto, tutto è a portata di sguardo, salendo dal lato che sprofonda nello Ionio si può notare in maniera nitida dove comincia la Calabria e dove la Basilicata diventa Puglia. Attorno alla seconda metà degli anni 90 , era facile trovare degli uomini, a parlottare e compiere strani riti sulle montagne attorno a Policoro, a metà strada tra Taranto e Sibari, alla sorgente del fiume Sinni. In quel luogo era possibile che il “Novizio”, scortato dalle “tre sentinelle di omertà”, avrebbe potuto incontrare gli “uomini d’onore” e il boss, il quale era consueto porre la domanda: “Conoscete la Famiglia Basilischi?” I “Basilischi,” oltre a essere il titolo di un film del 1963 diretto da Lina Wertmüller, sono un’organizzazione di stampo mafioso riconosciuta ufficialmente solo nel 2007 grazie alla sentenza di un maxi-processo antimafia, poi confermata in appello nel 2012.

 

Ma il loro operato come “Quinta Mafia italiana” si estende soltanto dal 1994 a 1999. È in quell’anno infatti che, Santo Bevilacqua (pentito di mafia), durante gli interrogatori condotti dalla questura, conferma che il boss del clan calabrese dei Morabito concede a Giovanni Luigi Cosentino, noto col nome di “faccia d’angelo”, l’indipendenza del suo clan lucano, costituendo così la “Famiglia dei Basilischi”. I due si incontrano nel carcere di San Gimignano, in Toscana; il luogo in cui sia il boss lucano, sia altri personaggi della malavita calabrese, scontavano le loro pene. Proprio lì, Giovanni Luigi Cosentino avrebbe ricevuto dai calabresi l’investitura del Crimine, ovvero la carica di capo dell’organizzazione mafiosa, nello stesso carcere in questione “Faccia D’angelo” darà vita alla sua opera di proselitismo, a tessere le strategie finalizzate ad allargare la famiglia e i suoi interessi, fino a coprire l’intero territorio regionale. Sarà la nascita della prima struttura mafiosa lucana.

 

La Basilicata veniva ritenuta inspiegabilmente immune alle mafie malgrado fosse geograficamente accerchiata dalla camorra campana, dalla Sacra Corona Unita pugliese, e dalla ‘ndrangheta a sud. In realtà, sin dagli anni Ottanta , ossia subito dopo il terremoto dell’Irpinia, si ha un crollo del controllo da parte delle Forze dell’Ordine, impegnate nel trarre in salvo i superstiti dalle macerie, e si ha un incremento della piccola criminalità che effettuava sciacallaggio e rapine ai danni del popolo stremato, proprio qui entrano in ballo i Basilischi. L’organizzazione non solo risolve i problemi della piccola criminalità ma comincia a gestire gli investimenti e i fondi derivanti dalla ricostruzione post-sismica. Stranamente, forse a causa del periodo di forte trambusto generale, in regione, il processo di espansione delle strutture criminali locali viene ignorato.

Durante gli anni Novanta però la situazione viene definita “preoccupante,” ma ancora limitata territorialmente, disunita. Ma soprattutto, legata a doppio filo ai clan calabresi. Sarà proprio la ‘ndrangheta ad “allenare” la criminalità locale, che a essa si ispirerà e che da essa sarà condizionata, da tutti i punti di vista. Si può dire che fino al 1995, in sostanza, la mafia lucana esisteva, in un qualche modo, ma non se ne avevano due riprove: quella giudiziaria, e il fatto che l’organizzazione fosse grosso modo autonoma.

 

La voglia dei Basilischi di emergere come mafia del territorio era molto forte, la Nuova Famiglia Lucana, creata sul modello delle mafie calabresi e pugliesi, si autodenunciò per un tentato omicidio telefonando all’agenzia ANSA di Potenza. Come a dire: Noi ci siamo, siamo arrivati. I Basilischi erano così bisognosi di affermarsi come nuovo crimine locale da uccidere un agente di polizia, Francesco Tammone. Secondo la Procura Nazionale Antimafia, le zone colpite dal fenomeno sarebbero state quelle di Policoro, Montalbano Jonico, Pisticci, Scanzano Jonico, Melfi, soprattutto la Val d’Agri, luogo in cui sono concentrate le risorse petrolifere della regione. Alla Famiglia si affilieranno alcuni membri del clan della zona di Matera e del melfese, boss del salernitano, il gruppo di Potenza e ciò che restava del gruppo criminale antecedente ai Basilischi. Il clan era specializzato nel traffico di droga, esplosivi e armi, rapine, usura, gioco d’azzardo, e l’estorsione sistematica nei confronti dei commercianti e delle imprese. Una vere e propria ‘ndrangheta Lucana. Anna Sergi nel documento La perduta Lucania Felix, afferma che i Basilischi “praticavano l’usura, ricettavano i titoli di credito di provenienza delittuosa, riciclavano i proventi sporchi e affermavano un controllo egemonico del territorio e al proprio interno, attraverso vincoli di comparaggio, rigide gerarchie e pagamento delle spese processuali per gli arrestati.” Le cose cambiarono presto, la svolta si ha con la scoperta dall’inchiesta Iena 2, in cui finiscono coinvolti anche i deputati Antonio Potenza, la cui posizione verrà poi archiviata.

 

Il p.m. di Potenza Vincenzo Montemurro definisce questo punto come un “cambio di assetto”: la famiglia riesce a mettere le mani sull’appalto di costruzione dell’Ospedale San Carlo, dimostrando quanto fosse ormai capace di lavorare ad alti livelli, e di trattare alla pari con le altre mafie, essendo coinvolto, nell’appalto, anche l’interesse della malavita campana. Ma erano proprio i calabresi, secondo quanto riportato da inchieste, racconti di pentiti e cronache, a rifornire la famiglia lucana di armi e droga. Un legame a doppio filo dal quale Cosentino ha cercato di liberarsi col loro benestare, in un rapporto che sempre Anna Sergi definisce esperimento di “outsourcing,” l’esternalizzazione da parte dei calabresi delle risorse da lasciar controllare ai clan locali della Basilicata, per goderne i vantaggi col minimo sforzo. La fortissima voglia di affermarsi come Mafia li porta a dare grossissima importanza alla tematica dei rituali mafiosi, alcuni dei quali si ritiene siano stati in un certo modo “spiegati” in carcere dai calabresi allo stesso Cosentino. Per rinsaldare un gruppo ancora privo di forti alleanze come invece se ne hanno nelle altre organizzazioni, si aveva bisogno dei riti, che puntavano spesso a sottolineare il senso di appartenenza alla Famiglia, con giuramenti simili a quelli dei clan della Calabria, dalle venature esoteriche e massoniche.

La formula per divenire “uomo d’onore” (come affermano le prove in possesso degli inquirenti), era la seguente:
“Sul monte Pollino, sapevo che il mio cuore freddo avrebbe potuto essere curato,”
“Conoscete la Famiglia Basilischi?”
“Certo che la conosco,” rispondeva l’aspirante affiliato. “La tengo nel cuore, la servo e mi servo.”
“Qual è il tuo desiderio?”, gli veniva chiesto.
“La stima, l’orgoglio della mia terra e una lunga fratellanza.”
I luoghi erano tanto importanti quanto le parole.

Il monte Pollino è la sommità “da dove tutto si vede e non si è visti,” il fiume Sinni era il cuore d’acqua che batteva nella regione ed era ciò che avrebbe accolto il corpo freddo dell’adepto in caso di tradimento.Facevano parte del rituale tagli sulle braccia, incisioni, carte da gioco napoletane, tatuaggi e il particolare del santo protettore, San Michele Arcangelo, contemporaneamente protettore della ‘ndrangheta e della polizia, paradossalmente ma con una sostanziale differenza: Mentre per la polizia il santo è raffigurato con la bilancia della giustizia, per i clan calabresi ha una catena in mano.Il capo infine, abbracciava il nuovo adepto, che doveva rispondere : “Sono felice di abbracciare un altro fratello, che sapevo di avere ma non conoscevo.”
Internamente la struttura di questa criminalità era del tutto simile alla ‘ndrangheta. Sono stati proprio i calabresi rinchiusi a San Gimignano a spiegare a “faccia d’angelo” come doveva essere organizzata la cosca, secondo la classica divisione calabrese in crimine.

Cosentino, collaboratore di giustizia, ha spiegato che la stessa struttura a “albero,” tipica della mafia, era la stessa sulla quale si reggeva quella dei Basilischi: Le cinque parti della pianta rappresentavano il “capobastone” (il tronco), i “mastri di giornata” e i “camorristi di sangue, di sgarro e di seta” (i rami), i “picciotti” (ramoscelli) e i “giovani d’onore” (i fiori), le giovani leve. Il tutto, percorso e tenuto in vita dalla “linfa” dell’omertà e del silenzio. Sotto l’albero, il fango di traditori e polizia.

Ad aprile del 1999 una maxioperazione ha portato all’arresto di praticamente tutti i capi dell’organizzazione. Da allora, secondo varie indagini, il territorio sarebbe finito sotto il controllo delle famiglie di Rosarno, che attorno al 2003 avrebbero diviso il territorio in sei o sette cosche comandate direttamente dai calabresi. Successivamente il cognato di “faccia d’angelo” si pentì e lui perse credibilità, venne estromesso da un accordo fra gli altri boss e le mafie limitrofe. Il nuovo boss Antonio Cossidente, nominato dallo stesso Cosentino una volta uscito dal carcere, non riuscì a tenere unito il gruppo, che nel 2004 si frantumò in frazioni autonome e che in buona parte venne cannibalizzato da organizzazioni più potenti di mafie esterne alla reglione.

 

Sarà questa la morte sostanziale della Famiglia Basilischi, sebbene nella Relazione annuale del 2011 della Direzione Nazionale Antimafia si parli di “seconda linea di forze emergenti, di nuovi candidati,” che starebbero cercando di emergere in un contesto privo di leader. A confermarlo è lo stesso Cossidente, ormai collaboratore di giustizia, nel 2013. “Sono già sulla buona strada, cioè la cattiva.”

Ad oggi la mano nera della malavita lucana risulta essere ancora operativa sul territorio, in maniera incontrovertibile e spesso silenziosa. L’evoluzione dei settori di interesse ha portato anche i clan e la vecchia famiglia dei “Basilischi” ad adeguarsi, entrando negli strati sottili dell’economia pulita distorcendo le logiche del libero mercato. L’utilizzo di un parallelo e ossequioso sistema clientelare va a facilitare i giochi di un fenomeno ignorato e tutt’ora sottovalutato, che sta erodendo quello che resta di una regione, che vede ancora una volta la propria popolazione fuggire via, alla ricerca di un posto migliore, lontano dalle macerie di una terra troppo spesso abbandonata a sé.

Giulia Ventura